1.1 Una radiosa giornata di sole (23 maggio 1915)
L'ultimo capitolo della Coscienza di Zeno di Italo Svevo (Psico-analisi) si dipana, assumendo un carattere diaristico ancora più marcato rispetto ai capitoli precedenti. Compaiono quattro date, nelle cui pagine il protagonista Zeno Cosini si sofferma a riflettere in maniera pressoché solitaria sui temi prediletti di salute e malattia, del tutto ignaro e spesso colpevolmente impreparato ad immaginare il fosco scenario bellico che si sta delineando. Le date registrate vanno dal 3 maggio 1915 al 24 marzo 1916. In particolare, le pagine datate 26 giugno 1915 registrano gli avvenimenti e il loro precipitare, il 23 maggio, in modo del tutto imprevisto per Zeno. Nel bel mezzo di una piacevole camminata dalla sua villa di campagna a Lucinico – fino a certi campi di là dell'Isonzo, dove il fattore suo conoscente era impegnato a rassodare i terreni seminati a patate – si ritrova a parlare di guerra e a tentare di esorcizzarla, avendo per la mente soltanto il problema di accordarsi con quell'uomo, per poter cogliere un bel mazzo di rose fresche nel casale dell'agricoltore, vicino al paese.
Dopotutto, desiderava soltanto soddisfare gli amabili capricci della figlia giovinetta.
Mia figlia s'è fatta una bella fanciulla e somiglia ad Ada. Da un momento all'altro, con essa avevo dimenticato il fare dell'educatore burbero ed ero passato a quello del cavaliere che rispetta la femminilità nella propria figliuola. Subito essa s'accorse del suo potere e con grande divertimento mio e d'Augusta ne abusò. Voleva delle rose e bisognava procurargliene.
Il quadro idillico e campestre di una profumata giornata di maggio, in cui «faceva un bel sole», ci mostra uno Zeno Cosini del tutto svagato e propenso a godersi la vita: non solo è bendisposto all'idea di camminare per almeno un paio d'ore in completa libertà, senza giubba, cappello e portafoglio, ma è perfino piacevolmente colpito nello scoprire che, non avendo fatto nemmeno colazione, il proprio cuore – nonostante il «digiuno» – attenda «più attivamente ad altre riparazioni irraggiando su tutto l'organismo un grande benessere». Si sente «leggero» in maniche di camicia e senza il cappello d'ordinanza da buon borghese del suo tempo, addirittura «giocondo» nel respirare «quell'aria tanto pura» il cui apporto andava incrementando, durante la camminata, con «la ginnastica polmonare del Niemeyer» da poco insegnatagli da un amico tedesco, «una cosa utilissima, a chi fa una vita piuttosto sedentaria». Insomma: la continua e nevrotica oscillazione barometrica della sua «malattia» sembrava essersi assestata sul "bello stabile e senza vento".
1.2 Campi di battaglia e campi di patate
Il vento di guerra, scatenatosi in Europa l'anno precedente, sembrava a Zeno un accadimento remoto, quasi uno stucchevole remake di annosi conflitti a bassa intensità «di cui era divertente parlare» ma «sciocco preoccuparsi». Il contadino è di avviso ben diverso. In una felice immagine che lo rappresenta come il contraltare della dura realtà – rispetto alla svagatezza e alla leggerezza del borghese cittadino – lo si vede piegato dalla fatica dei campi, accaldato, con il sudore che gli cola dalla fronte, infastidito indubbiamente da quel sole così benefico per il villeggiante Zeno. Alla fatica si assomma l'ansia per le voci di guerra imminente, destinata a incendiare la frontiera italiana. Chiede, in ossequio alla superiore cultura e conoscenza dell'interlocutore, se questi «non ne sa nulla», se quelle patate «che promettono tanto bene» non siano destinate piuttosto a capitare in mano di qualcun altro.
Zeno, ostentando una ridicola sicurezza, non soltanto afferma di non aver ricevuto avviso di alcuna novità – visto che, venendo proprio da Trieste, sarebbe stata ben strana cosa non riceverne informazione – ma ritiene, anzi, che la guerra sia «proprio definitivamente scongiurata», poiché «a Roma hanno ribaltato il Ministero che voleva la guerra e ci hanno ora il Giolitti». Notando che il contadino sembra credere di buon grado alle sue rassicurazioni, si lascia andare perfino ad una stentorea e stravagante profezia.
Vedendolo tanto contento, tentai di renderlo più contento ancora. Amo tanto le persone felici, io. Perciò dissi delle cose che veramente non amo di rammentare. Asserii che se anche la guerra fosse scoppiata, non sarebbe stata combattuta colà. C'era prima di tutto il mare dove era ora che si battessero, eppoi oramai in Europa non mancavano dei campi di battaglia per chi ne voleva. C'erano le Fiandre e varii dipartimenti della Francia. Avevo poi sentito dire – non sapevo più da chi – che a questo mondo c'era oramai tale bisogno di patate che le raccoglievano accuratamente anche sui campi di battaglia.
L'autoironia postuma con cui Zeno trascrive il resoconto di quella giornata, destinata a concludersi con l'avverarsi dei più foschi presagi dell'umile contadino, pare voler sancire una prima e decisiva lezione sulla natura dell'apocalisse e sulla portata dei suoi immediati contraccolpi: la catastrofe, nel suo improvviso manifestarsi, è un evento destinato a far piazza pulita delle convinzioni di comodo dietro cui amano trincerarsi gli uomini ed è sempre in grado, soprattutto, di beffare i tanti presunti "opinionisti beninformati" che invano hanno tentato di vaticinarne le conseguenze. È proprio ciò che Zeno apprenderà di lì a poco, durante il vano tentativo di far ritorno a casa sua, culminante nel grottesco colloquio con un ostile ufficiale mamelucco in armi, per nulla disposto ad ascoltare le ragioni di chi agognava semplicemente raggiungere il proprio «caffelatte» da cui era « diviso soltanto dal suo plotone». Zeno potrà quindi annotare con indubbia onestà nel suo diario che il suo incontro con la guerra era stato sì violento, ma anche e soprattutto, «buffo» e sorprendente.
1.3 Menzogna
Raggiunto dalla conflagrazione («la guerra mi prese, mi squassò come un cencio, mi privò in una sola volta di tutta la famiglia ed anche del mio amministratore») Zeno si ritrova nella condizione privilegiata di non dover partecipare agli eventi bellici in prima persona, ma di rimanere a sorvegliare l'azienda commerciale che aveva condiviso con il defunto cognato Guido, camminando per le vie della «misera» città senza avere nulla da fare, se non attendere la fine della guerra, nella convinzione che «il commercio risanerà» solo «quando ci sarà la pace» e «l'orrendo temporale» sarà terminato. E invece sarà proprio il commercio di guerra, per sua ammissione, a salvarlo: Zeno avrà l'intuizione giusta, quella di comprare, comprare qualunque cosa, speculando sulla congiuntura bellica e rivendendo con ampi margini di guadagno. Potrà permettersi perfino di riprendere in mano il diario destinato allo psicoanalista S. e sottolineare con scherno la quantità di menzogne da lui escogitate nel tempo per confermare in modo beffardo le diagnosi del medico, i sogni inventati, le ricostruzioni ad arte: gli si presenta l'occasione per dirgli, insomma, «il fatto suo».
Intanto egli crede di ricevere altre mie confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta […] Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppure bisogno […] Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia.
Zeno Cosini sostiene di aver recuperato la salute. Lungi dal trito e ricorrente stereotipo che ha sempre voluto interpretare il personaggio come il prototipo dell'inetto, egli si sente ormai forte («come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna») e la sua nuova identità ha potuto plasmarsi intorno al rovesciamento delle proprie presunte debolezze: la menzogna e la malattia. Mentendo, rivendica il ruolo identitario della lingua materna contrapposta alla «parola toscana» (la lingua triestina, certo, ma in senso lato l'idioletto personale incomunicabile all'esterno), poiché «si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto». La menzogna è la porta attraverso cui irrompe la libertà del linguaggio interiore, quello che permette, appunto, la coesione delle molteplici identità fluttuanti in cui si manifesta l'io narrato di Zeno e che dall'esterno appare inevitabilmente frantumato, poiché, «una confessione in iscritto è sempre menzognera».
1.4 Malattia: «la vita attuale è inquinata alle radici»
Io amavo la mia malattia. Ricordai con simpatia il povero Copler che preferiva la malattia reale all'immaginaria. Ero oramai d'accordo con lui. La malattia reale era tanto semplice: bastava lasciarla fare.
Ecco quindi che anche la seconda debolezza si tramuta in forza: ma è una vittoria amara perché la vita somiglia alla malattia e «a differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale», «non sopporta cure». L'identificazione di patologia e salute introduce il finale della Coscienza di Zeno, quella «catastrofe inaudita» a cui l'umanità sembra inesorabilmente destinata e che non ha mai mancato di sorprendere i lettori di Svevo. «Un'esplosione enorme» provocata da un «uomo come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato» che piazzando un «ordigno» esplosivo al centro della terra la farà deflagrare, riportando il mondo allo stadio primordiale di «nebulosa» erratica, priva finalmente «di parassiti e di malattie». Sembra una profezia stupefacente di apocalisse atomica (la prima grande guerra è appena terminata) e invece, come ha osservato Mario Lavagetto è un topos. L'immagine del sinistro artificiere è ripresa dal personaggio di Zola, Lazare Chanteau di La joie de vivre, opera che Svevo aveva recensito molti anni prima, nel 1884 e che Freud raccomandava al paziente del celebre caso clinico dell'uomo dei topi. La figura e l'azione esplodente furono in seguito ricordate da France nel romanzo L'île des pingouins (1908) e poi da De Roberto nell'Imperio (pubblicato postumo nel 1929, ma iniziato nel 1909): la scienza era già da tempo nel mirino della letteratura.
Ciò nulla toglie alla genialità di Svevo e alla sua capacità di trasformare un luogo comune in un'ipotesi reale, spogliata da veli allegorici. «L'occhialuto uomo» fabbricante di ordigni «fuori del suo corpo», capace con essi di trasformare la propria debolezza in dominio della natura, l'astuto inventore di protesi che ha sovvertito le leggi evolutive (nella pagina di Svevo riecheggia un florilegio di letture disparate – soprattutto da Darwin e Schopenhauer, ma anche da Marx e Engels) sta in realtà fabbricando la propria rovina e i suoi stessi «ordigni» finiranno prima o poi per tradirlo, mettendo in luce tutta la sua debolezza, sconsideratamente costruita defraudando la natura. La malattia è ormai per sempre inscritta nell'orizzonte umano e «qualunque sforzo di darci la salute» risulterà vano.
Ma forse di tratta soltanto dell'ultima menzogna di Zeno, un abile espediente per licenziare il suo «libercolo», chiudere la bocca al suo analista ed evitare le domande del lettore sugli esiti futuri della sua trionfale guarigione.
1.5 L'inferno sulla terra
Malattia e catastrofe, impossibilità di riconoscere se stessi e percezione del profondo disagio che si manifesta con il venir meno della fiducia nel comunicare con gli altri uomini, sono temi ricorrenti della letteratura del primo Novecento (insieme a Svevo basti ricordare Musil, Mann o Kafka). Un'indubbia influenza kafkiana è sicuramente presente nell'opera di Dino Buzzati, un'ingombrante presenza che accompagnò l'autore per tutta la sua vita, nonostante l'evidente fastidio da lui mostrato ogniqualvolta il nume persecutore gli veniva ricordato. Fastidio del resto ben comprensibile: se certe atmosfere che avvolgono la fortezza Bastiani e l'ambigua burocrazia militare del deserto dei Tartari ricordano da vicino i corridoi e le regole imperscrutabili del tribunale del Processo e se inoltre un racconto buzzatiano come I sette messaggeri discende direttamente dal Messaggio dell'imperatore, vi è nel linguaggio e nel trattamento della materia narrativa di Buzzati un'autonomia tanto genuina ed evidente da relegare la sua fonte tra le ispirazioni, per così dire, di consonanza con la realtà, ma non certo di rispecchiamento emotivo. Buzzati lesse Kafka, è noto, ma ebbe a dichiarare più volte che la lettura giungeva a infastidirlo. È difficile non credergli: la sua scrittura è ben lontana dalla rigorosa e oggettiva scrittura del boemo, le vicende che descrive, anche quando virano al terribile, non raggelano. Un velo di ironia si frappone nelle pene dei suoi personaggi e lo spazio in cui agiscono è fondamentalmente onirico, vago e soffuso. Avverte sempre la necessità di banalizzare le situazioni estreme delle esperienze narrate, a ricondurle entro un quadro straniante, a praticare un processo di riduzione del perturbante, di gulliverizzazione. In Viaggio agli inferni del secolo, l'inferno che si spalanca nel sottosuolo di Milano in occasione degli scavi della metropolitana è una mera rappresentazione quotidiana della città in cui il protagonista "Buzzati", lavora, come nella realtà, in una redazione giornalistica. Vi si accede attraverso «una piccola porta», una «porticina», uno «sportello» attraverso cui occorre strisciare carponi, percorrendo un breve corridoio prima di poter risalire in superficie attraverso un angusta «scaletta» nella città che sembra quella di prima, ma che è proprio l'Inferno.
1.6 Le «accelerazioni» della modernità
Anche per Buzzati la malattia si configura come un processo interiore, una condizione connaturata nella natura stessa degli uomini. Essa si fa beffe di tutti i tentavi di confinarla e ridurla. Nel racconto Sette piani (pubblicato già nel 1937 sul "Corriere della Sera") il suo naturale aggravarsi pare avvenire attraverso inciampi di tipo burocratico e banali contrattempi – precipitando il protagonista Giuseppe Corte, piano dopo piano, e secondo lo schema "dall'alto al basso", dal piano dei malati di «forme leggerissime» a quello di coloro «per cui era inutile sperare» – mentre nell'Uomo che volle guarire il recupero della salute, per il detenuto del lebbrosario, si rivela come una condanna all'infelicità, che lo priva in modo totale di ogni possibilità di provare piacere e desiderio per la vita, al punto di non poter far altro che tornare indietro («l'unica felicità che ti rimane è qui tra noi, lebbrosi»). Nel Viaggio agli inferni la condizione di malattia si identifica in quella di dannazione. Non c'è fuoco, non c'è zolfo, ma soltanto traffico caotico e smog, o meglio il fuoco si è trasferito «negli occhi di quegli sciagurati» incolonnati negli ingorghi. L'interiorizzazione dell'inferno (a ben pensarci: una nuova forma di apocalisse la cui invenzione dobbiamo proprio a Buzzati) è ciò che caratterizza le forme dei tormenti che vengono inflitti da «diavolesse» eleganti e ricche di sex appeal. Le pene consistono in micidiali «accelerazioni» delle normali giornate degli infernicoli, tempeste emotive in crescendo che scaturiscono pur sempre, tuttavia, dalle consuete preoccupazioni e dalle molestie quotidiane. Il protagonista Buzzati, insinuatosi all'Inferno con la palese speranza di realizzare un importante scoop giornalistico, finisce per ritrovarsi nel novero dei dannati, per scoprire anzi di essere già da tempo registrato all'anagrafe infernale. E naturalmente si rende conto che lo status di dannato è in realtà una condizione di natura, una sorta di prerequisito necessario per identificare l'uomo moderno, come gli spiega l'arcidiavolessa:
"Non sei mai stato in questa casa. Ma la città che vedi qui sotto la conosci molto bene." Guardai. Non la riconoscevo. "Milano no?" disse. "E dove pensavi di essere?" "Questa, Milano?" "Certo, Milano. E anche Amburgo, e anche Londra, e anche Amsterdam, Chicago e Tokio nello stesso tempo. Mi meraviglio di te. Col mestiere che fai dovresti pur sapere che due mondi, tre mondi, dieci mondi possono… come dire?... possono coesistere nello stesso luogo, compenetrati uno nell'altro… Pensavo che tu la conoscessi questa storia". "E io… Io dunque sarei dannato?" "Penso di sì." "Che cosa ho fatto di male?" "Non lo so" disse. "Non ha importanza. Tu sei dannato perché sei fatto così. I tipi come te l'inferno se lo portano dentro fin da bambini…"
1.7 «Ciascuno pensò a sé»: la solitudine nella catastrofe
Nel parodiare la Commedia dantesca Buzzati si preoccupa tuttavia di precisare immediatamente la natura surreale del suo Viaggio agli inferni, stabilendo come inizio una data: il 37 aprile. In maniera del tutto analoga il "Buzzati", sfortunato protagonista di All'idrogeno, viene svegliato nel cuore della notte da un ignoto amico che tenta di preavvertirlo di quanto sta per capitargli («"ma non potevi telefonarmi domani? Lo sai che ora è?" "Sono le 57 e un quarto" rispose»). Nel Viaggio agli inferni viene anche messo in chiaro, fin dal primo momento, che il protagonista dovrà affrontare l'esperienza in solitudine, non soltanto per ragioni di necessità, bensì anche a sottolineare il sostanziale disinteresse pubblico di quanto potrà capitargli in qualità di reporter degli inferi, sottolineato dal direttore del giornale in un classico "qui lo dico e qui lo nego".
"E io dovrei?..." "Ripeto, una semplice proposta… In fine dei conti di queste faccende lei non è uno specialista?" "Da solo?" "Meglio. Da solo darà meno nell'occhio. Bisogna arrangiarsi. Lasciapassare non esiste. E il nostro giornale, di là, non ha nessuna conoscenza. Che noi si sappia, almeno." "Niente Virgilio?" "No" "Ma quelli là come faranno a capire che io sono un semplice turista?" "Arrangiarsi."
È un elemento ricorrente dell'intera materia narrativa di Buzzati: i turbamenti e le ansie del personaggio in crisi sono quasi sempre acuiti dall'indifferenza che gli altri manifestano nei suoi confronti, una noncuranza che scaturisce con gelida naturalezza da interessi personali meschini e abietti, da un "farsi i fatti propri" che sembra aver privato l'umanità di ogni scintilla di solidarietà, perfino nelle situazioni di sventura comune. Quando i coinquilini del disgraziato, a cui solo è riservato il sinistro ordigno di All'idrogeno, si rendono conto di essere scampati all'infausto recapito dell'ordigno si lasciano andare a manifestazioni di giubilo sguaiato e selvaggio:
"È personale, capisci? Non è per tutta la casa, non è per tutta la casa, solo per uno… non è per tutta la casa!" Sembravano impazziti, ridevano, si abbracciavano e baciavano […] Ciascuno pensò a sé, dialoghi affannosi, le scale tutte un frenetico vocìo […]La gente mi fissava. Mai vidi volti umani stravolti da una felicità così selvaggia. Uno non seppe resistere e scoppiò in una risata che finì in una tosse cavernosa: era il vecchio Mercalli, quello dei tappeti all'asta. Capii. Il cassone con l'inferno dentro era per me, un esclusivo dono; per me solo. E gli altri erano salvi.
1.8 «Tu, solo tu»: anche la salvezza è individuale
Il tradimento dei propri simili nella condizione di criticità vien ribadito in un'altra parodia, questa volta manzoniana (con tanto di monatti e lazzaretti), La peste motoria: Un morbo contagioso e micidiale svuota la città dalle automobili facendo rimpiangere l'abituale, caotica modernità («oh, festosi clacson, oh tonanti scappamenti dei bei giorni»). L'anonimo autista, che cerca di salvare la vecchia Rolls Royce dell'aristocratica padrona, viene attirato in trappola dall'amico meccanico e aggredito dai monatti che condurranno l'auto veterana al rogo purificatorio, abbandonandolo con sghignazzi di scherno dopo avergli lasciato in tasca, «suprema irrisione», la ricevuta regolamentare per il «ricovero conservativo».
Nel racconto La fine del mondo l'apocalisse si manifesta per tutti, annunciata da un pugno cinereo «immobile come un immenso baldacchino della malora» nel cielo della città, ma ciascuno tenta in maniera egoista di salvare la propria anima, accaparrandosi con ogni mezzo i pochi confessori che sembrano rimasti liberi. Tutti corrono di qua e di là non sapendo però «dove sbattere il capo».
Donne e anche omaccioni già tracotanti, tornavano intanto dalle chiese, imprecando, delusi e scoraggiati. I confessori più in gamba erano spariti – si riferiva – probabilmente accaparrati dalle maggiori autorità e dagli industriali potenti. Stranissimo, ma i quattrini conservavano meravigliosamente un certo loro prestigio benché si fosse alla fine del mondo.
Fila interminabili, calche spaventose, urla, imprecazioni: nulla sembra cambiare in realtà nei consueti rapporti con i compagni di sventura. È una corsa disperata al "si salvi chi può". C'è chi si abbandona apertamente alla lascivia e chi, beninformato, intona un lugubre conto alla rovescia, preannunciando l'esatto istante della resa dei conti. Un sacerdote bloccato da una folla sterminata viene costretto a confessare i peccatori a grappoli. Intrappolato nella sua incomoda mansione anch'egli in realtà si preoccupa soprattutto per la propria sorte e non sa come sottrarsi all'incombenza per poter «provvedere a se stesso»: «"E io? E io?" chiedeva ai mille postulanti, voraci di Paradiso. Nessuno però gli badava».
L'impossibilità di condividere il destino, la comunità che si fa folla impazzita – capace di coalizzarsi soltanto per aggredire gli individui isolati che violano, inconsapevoli, qualche codice ipocritamente condiviso (si veda ad esempio il terribile racconto Non aspettavano altro) – sono elementi costanti nella prospettiva apocalittica di Buzzati. E se qualcuno dovrà dannarsi o salvarsi dovrà sempre farlo in solitudine, privo di qualsiasi conforto umano. Il diluvio universale inverte infatti la prospettiva in modo apparente, visto che sempre di un uomo solo si tratta, designato a salpare come Noè per condurre in salvo le specie animali dallo sterminio. «Tu solo tu» ripetono ossessivamente i messaggi divini. E il prescelto, l'insignificante impiegato Morra, non potrà far altro, fino all'ultimo, che respingere i postulanti che vorrebbero indurlo a fare eccezione per loro, lasciandoli al loro destino, maledicenti e furibondi, mentre l'acqua sale inesorabile, rovesciata sul mondo dalle cateratte del cielo.
2.1 Lo spettro dell'atomica
Nel decennio 1970-1980 vengono prodotti in Italia numerosi romanzi particolarmente intrisi di sentimento catastrofico e vocazione apocalittica. Uno studio di Bruno Pischedda, La grande sera del mondo, ne fornisce un'esauriente rassegna, spaziando tra opere note e meno note e fra scrittori più o meno significativi. Al centro di tali narrazioni si mescolano temi diversi come l'avverarsi delle funeste profezie dell'olocausto nucleare, la disgregazione completa delle relazioni sociali e culturali, le spinte compulsive della società di massa e dei consumi verso l'appiattimento e la destrutturazione dei rapporti personali. Si propongono come sfondi ossessivi la perdita di autenticità, la solitudine dell'individuo, il violento sradicamento della società tradizionale ad opera della modernità, ossia il trionfo della cultura dell'"ordigno", parafrasando l'immagine di Italo Svevo. Temi diversi, ma accomunati da un denominatore comune che si potrebbe definire "antimodernismo catastrofico", in cui la metafora ricorrente è quella del "deserto", il luogo comune dello scacco e dell'azzeramento dell'esperienza umana Si va dall'allucinata nostalgia nazista di Dante Virgili (La distruzione), densa di veleno e odio incontenuto, al funerario e dolente sguardo su una realtà di provincia in disfacimento, descritta con implacabile precisione "giuridica" da Salvatore Satta (Il giorno del giudizio); dalla tormentata analisi dei vizi mortali della modernità, trattati da un Pier Paolo Pasolini sempre più disilluso (Petrolio), allo sfacelo della vita famigliare e alla perdita irreversibile degli affetti, affrontati con appassionato dolore da Elsa Morante (Aracoeli). Si narrano e si descrivono gli scenari apocalittici e le conseguenze post-nucleari in Dissipatio H.G. di Guido Morselli (dove H.G. sta per "humani generis" e in cui l'unico sopravvissuto è il protagonista aspirante suicida) e nella "trilogia atomica" di Carlo Cassola (Il superstite; Ferragosto di morte; Il mondo senza nessuno); con Paolo Volponi (Il pianeta irritabile) si profetizza infine un mondo privo di umani, benché capace di rigenerasi, producendo nuove aggregazioni vitali.
Un decennio, come si può vedere, di intenso pessimismo, un «buio disagio neoromantico», secondo una definizione di Pischedda, nel quale la modernità cessa di rappresentare un progetto incompiuto e si rivela come un'illusione tragica, un'irreversibile frantumarsi della civiltà, uno sciagurato punto di arrivo e di non ritorno da cui si può contemplare soltanto il deserto sterminato che ci circonda.
2.2 «Senza desideri né coscienza»
L'antologia curata da Daniele Brolli, Gioventù cannibale, pubblicata nella collana "giovanile" di Einaudi nel 1996 ("Stile libero"), nasceva come un proposito editoriale che mirava a rinverdire il cliché di letteratura generazionale, che in anni precedenti aveva portato alla luce un'idea di Pier Vittorio Tondelli, il "Progetto under 25", il cui scopo principale era dare voce a giovani scrittori e che si concretizzò nella pubblicazione di tre volumi: Giovani Blues, Belli & Perversi, e Papergang, editi rispettivamente nel 1986, 1987 e 1990. In realtà il progetto mirava ad agganciare un pubblico sentito come sempre più disperso, ed eterogeneo, composto da «vecchi ragazzi elettrici desiderosi di un nuovo inizio, studentesse in metropolitana, nobildonne in esilio permanente e giovani famelici solitari urbani, ancora in cerca di una tribù», attraverso «un mix di suggestioni underground» e con l'intento di produrre «un'antologia dell'orrore estremo», un sasso da scagliare nel panorama editoriale italiano e una risposta, al tempo stesso, al travolgente successo del buonismo zuccheroso di Susanna Tamaro (Va dove ti porta il cuore), uscito appena due anni prima.
Organizzata in tre sezioni, Atrocità quotidiane (Seratina, di Niccolò Ammaniti e Luisa Brancaccio; E Roma piange, di Alda Teodorani; Il mondo dell'amore, di Aldo Nove; Cappuccetto splatter, di Daniele Luttazzi; Diamonds are not forever, di Andrea G. Pinketts), Adolescenza feroce (Diario in estate, di Massimiliano Governi; Treccine bionde, di Matteo Curtoni; Cose che io non so, di Matteo Galiazzo) e Malinconie di sangue (Il rumore, di Stefano Massaron; Giorno di paga in via Ferretto, di Paolo Caredda), l'antologia narra di sesso e di sangue, di notti sfrenate tra droghe e sparatorie, modelle squartate, pensionati omicidi, ragazzi che si evirano guardando film porno, con un linguaggio che mescola in maniera indissolubile cinema, musica, pubblicità, televisione, fumetti e videogiochi.
Al di là della maggiore o minore volontà degli autori di rovesciare i luoghi comuni del sentire e del linguaggio (facendo ampio uso del parlato giovanile – in presa diretta, gergale, eccessivo) con abbondante sfoggio di humour nero, rovesciamenti parodistici e splatter ironicamente compiaciuto, si tratta di trovare risposte almeno embrionali alla domanda che lo stesso curatore si pone nell'introduzione della raccolta, e cioè: che cosa accade e che senso assumono le narrazioni «quando il male si rivela come scaturito dall'assenza, dalla completa mancanza di determinazione, originato da individui senza desideri né coscienza che iniziano a scorazzare in lungo e in largo, per il globo producendo dolore e morte?»
2.3 «Voglio fare un botto che si ricorderà per anni e anni»
Nello stesso anno di Gioventù cannibale Niccolò Ammaniti pubblica la raccolta di racconti Fango, significativamente posto sotto l'egida di tre epigrafi rispettivamente di Manzoni, del gruppo musicale Almamegretta e di Braccio di Ferro. In essa compaiono ovviamente gli stessi temi di Gioventù cannibale e le stesse fonti ispirative, tra le quali, ovviamente, la letteratura "pulp" americana e soprattutto il film di Quentin Tarantino, Pulp Fiction. Le tematiche apocalittiche assumono pertanto connotati parodistici e vengono presentate con disincanto divertito. Nel lungo racconto, L'ultimo capodanno dell'umanità, la catastrofica esplosione di un intero e nuovo complesso residenziale romano è il punto di arrivo di un intrecciarsi grottesco fra le vicende personali di svariati protagonisti, tutte invariabilmente crude, mediocri e spregevoli, intrise di spaccati umani mai commendevoli e sempre rigorosamente improntate di fallimenti, spunti deliranti, vuoti esistenziali.
Isolati tra loro, ma accomunati da un funesto destino in agguato, gli attori recitano in presa diretta le proprie miserie vitali, si degradano, abbrutiscono, corrono a tutto spiano verso la distruzione delle loro patetiche o bizzarre esistenze. Dopotutto sarà l'ultimo Capodanno di una rappresentazione collettiva farsesca e sguaiata, di vite inutili e sgradevoli, un caleidoscopio in cui concorrono ladruncoli tossicomani, studenti sbalestrati, sradicati sociali, nobili osceni, professionisti pervertiti, vecchi rimbambiti, bambini perduti, cultori pazzoidi della "new age", donne che impazziscono per il tradimento, uomini erotomani e fedifraghi.
La follia di gruppo è incarnata da un gruppo di "ultras" di una squadra di calcio di provincia, anticipatrice dei rivoltanti protagonisti del secondo racconto dell'antologia, il terribile Rispetto – narrato in prima persona collettiva – in cui un terzetto di balordi, criminali fino al disgusto, stuprano, ammazzano a man salva, in un crescendo di effetti "splatter" e atroci nefandezze («siamo una fottuta muta di bastardi in movimento. Siamo come bufali. Solo più grossi. O come iene. Solo più famelici»).
La catastrofe, causata da un gesto ridicolo e allucinato (Ossadipesce nella sua paranoia, credendo di essere incalzato dalla polizia si libera della droga, gettando nella caldaia centralizzata lo zainetto che contiene anche candelotti di dinamite), in fondo rappresenta l'unico modo per ricomporre una tale moltitudine di schegge impazzite per evaporarle insieme, un modo di liberare la terra da parassiti e malattie, ricalcando nuovamente il vaticinio di Italo Svevo.
2.4 Immaginare il possibile: il genere fantascientifico
Gli scenari catastrofici sono di casa nella fantascienza e in questa occasione non avrebbe senso tentarne una benché sommaria ricognizione. È preferibile soffermarsi, di nuovo, su certe rappresentazioni tipiche della condizione umana, quando questa si ritrova ad essere funestata da mutamenti radicali delle abituali condizioni di vita. Del resto, per statuto interno al genere, le narrazioni fantascientifiche hanno l'esigenza di rompere il quadro della normalità, inserire tempi e spazi alternativi al reale. Devono sorprendere, prima ancora che raccontare, rappresentare ipotesi del possibile e aprire nuove strade da percorrere, lungo le quali intravedere paesaggi del futuro. A dire il vero il termine "fantascienza" risulta nei fatti ambiguo e riduttivo: nato nell'epoca in cui la relazione tra uomini e macchine cominciava a separare l'uomo dalla stretta referenzialità del proprio corpo (o di quello degli animali – concettualmente simili a lui), inserendo nel mondo delle possibilità ciò che prima non era immaginabile come esperienza concreta (un esempio per tutti: i mezzi di trasporto meccanici), speculando sui territori fertili dell'invenzione scientifica e sui nuovi paradigmi destinati ad ampliare il mondo del reale (nuovi spazi, perfino un nuovo tempo), l'espressione ha coinciso a lungo con la nuova frontiera dell'infinito cosmico, mettendo in scena, ad abundantiam, navi spaziali, stelle, pianeti remoti, paradossi temporali e naturalmente incontri più o meno conflittuali con creature di altri mondi. Da tempo tale cliché non è più in grado di raffigurare un genere letterario che si è espanso e dilatato e neppure di indicarne i confini entro cui sia possibile iscrivere le sue strutture diegetiche. Di conseguenza anche il suo stesso atto di nascita rischia di risultare, oggi, piuttosto arbitrario. Certo: Jules Verne e H.G. Wells sono universalmente riconosciuti tra i capostipiti di tale letteratura, ma essa ha raggiunto ormai una tale ampiezza rappresentativa e tematica da farla fuoriuscire dalla definizione di genere, portandola a confluire o quantomeno a sovrapporsi, di fatto, alla letteratura mainstream. Come si può considerare un romanzo quale La strada (The Road) di Cormac McCarthy? Un uomo e un bambino percorrono verso sud una strada americana, spingendo un carrello vuoto che racchiude le loro povere cose. Il mondo è stato distrutto, una decina d'anni prima da un'apocalisse nucleare che l'ha reso freddo e buio. Uno scenario apparentemente canonico della "fantascienza" eppure narrato con intenti lontanissimi da quelli di un Robert Heinlein. A voler insistere con le camicie di forza del genere si dovrebbe concludere che La storia vera di Luciano, l'Orlando Furioso di Ariosto e perfino l'Odissea siano da ricomprendere nell'etichetta "fantascienza".
2.5 James G. Ballard e la "tetralogia degli elementi"
Il rapporto tra cinema e letteratura di fantascienza è sempre stato molto stretto. Già Méliès giocava con Verne nel suo cinema-teatro. Da allora l'intreccio è rimasto sempre costante, giungendo spesso, in tempi più recenti, a scambi reciproci. Si è già sottolineato l'apporto di un regista cinematografico come Quentin Tarantino al genere "pulp" e al fenomeno italiano della "gioventù cannibale". Lo stesso romanzo di McCarthy per molti aspetti sembra debitore del film di Robert Altman, Quintet (1978) dove, al posto di padre e figlio, troviamo un cacciatore insieme alla compagna incinta. Il mondo si è raggelato, le specie viventi sono pressoché scomparse e i superstiti, sterili e regrediti a grottesche maschere pseudo-rinascimentali, attendono l'estinzione della specie praticando il "quintet", un gioco che ha come posta la vita e in cui il vincente ha il diritto di eliminare gli sconfitti.
Vi sono invece scrittori come James G. Ballard che per primi hanno tentato di contemplare la catastrofe e la fine del mondo quasi come un oggetto estetico, svincolando il tema dalle più immediate responsabilità umane e trasformandolo in una potente metafora dell'impossibilità umana di adattarsi a un contesto profondamente mutato. La "tetralogia degli elementi" è un percorso ideale che l'autore realizza nell'arco di sei anni. Il primo romanzo (opera prima di Ballard e poi rinnegato dall'autore che aspirava ad una più precisa collocazione nella letteratura mainstream) è stato Il vento dal Nulla (The Wind from Nowhere), pubblicato nel 1961. Gli altri tre sono Il mondo sommerso (The Drowned World, 1962), Terra bruciata (The Burning World, 1964) e Foresta di cristallo (The Crystal World, 1966). Il ciclo si basa sui quattro elementi aristotelici aria, acqua, terra e fuoco, più il quinto elemento, il tempo, che domina la scena in Foresta di cristallo). Successivamente, nel 1975, l'autore è tornato ad esprimersi su tonalità apocalittiche in Condominium (High Rise), una vicenda angosciante di sfaldamento dall'interno di un'umanità rappresentata in un mastodontico complesso abitativo alla periferia di Londra, una storia crudele sulla degenerazione dei rapporti sociali e sulla rapidità con cui tale degradazione si diffonde in situazioni di crisi, quasi un modello del "Comprensorio residenziale delle Isole" che sarà narrato poi, come si è visto, da Niccolò Ammaniti.
2.6 «Benvenuti nel deserto del reale»: da Matrix all'11 settembre
L'opera prima del regista Jim Jarmush (Permanent Vacation) già nel 1980 sembrava anticipare le scene dell'11 settembre 2001, con l'attacco terroristico alle torri del WTC. Il giovane Aloysious si aggira smarrito in una New York semideserta e degradata dopo una guerra non precisata. Quando chiede ai sopravvissuti chi sia stato l'aggressore ottiene soltanto risposte vaghe e congetturali: nessuno in realtà sa veramente come siano andate le cose. Molto è stato scritto intorno all'evento e molti scrittori sono stati chiamati in qualche modo a testimoniare, nel tentativo di ricomporre una realtà finita in frantumi ed è significativo che gran parte del dibattito si sia svolto proprio attorno all'antinomia realtà/finzione.
Come il pensatore sloveno Slavoj Žižek ha ipotizzato, nel suo libro Benvenuti nel deserto del reale, il cortocircuito nasce in realtà da un processo di interiorizzazione della profezia catastrofica, elaborata già da tempo in forma di finzione da cinema e televisione. Il titolo riprende l'ironica battuta che Morpheus rivolge a Neo, nel film Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski, non appena quest'ultimo ha la possibilità di vedere le rovine della vera Chicago, dopo essere stato scollegato dalla rappresentazione virtuale in cui credeva di vivere, sogno indotto dal portentoso software di "Matrix".
Quando sentiamo che l'attacco alle torri è stato uno shock del tutto inaspettato e che si è realizzato l'impossibile inimmaginabile, dovremmo tenere a mente l'altra catastrofe definitoria dell'inizio del XX secolo, quella del Titanic. Anch'essa fu certo uno shock, che però aveva già trovato un suo spazio nelle fantasie ideologiche, dato che il Titanic era il simbolo del potere della civilizzazione industriale del XIX secolo. Ma non potremmo dire lo stesso per l'assalto di New York? Non solo i mezzi di comunicazione ci avevano assillato da tempo sulla minaccia terroristica, ma questa minaccia era anche stata caricata di investimento libidinale […] Su questo si basa la giustificazione della stracitata associazione tra l'attacco alle torri e i film catastrofici di Hollywood: l'impensabile che è accaduto era già oggetto di fantasia, così in un certo senso l'America ha ottenuto proprio quello su cui aveva elaborato le sue fantasie, e questa è stata la sorpresa maggiore.
Il profondo legame tra Hollywood e la "guerra al terrorismo", continua Žižek, si è poi palesato quando il Pentagono ha chiesto a un gruppo di sceneggiatori e registi cinematografici, specialisti in film catastrofici, di collaborare «con l'intento di immaginare possibili scenari di attacchi terroristici e i modi con cui controbatterli». Un risultato di tale operazione sono le stagioni, successive alla prima (che era già andata in onda nel 2001) della serie televisiva 24. Gli episodi illustrano una varietà impressionante di attacchi terroristici sul suolo americano, ipotizzando gli scenari più diversi, ma tutti potenzialmente catastrofici all'ennesima potenza. Tra le varie operazioni di "intelligence" messe in atto dal centro antiterrorismo governativo, vengono giustificate azioni estreme come la tortura indiscriminata (non soltanto degli "anelli di collegamento") e l'uccisione di innocenti, motivate dalla necessità di reagire a minacce altrettanto estreme e in nome della salvezza di "milioni di persone".
2.7 La «terribile bellezza»
Lo spaesamento generato dalle reiterate immagini televisive, che hanno "coperto" l'avvenimento dell'attacco alle torri, è comunque ben visibile nelle testimonianze degli scrittori che hanno cercato di riflettere a caldo sulla catastrofe. Nell'antologia curata da Daniela Daniele, Undici settembre. Contro-narrazioni americane, vengono raccolte diverse annotazioni di scrittori americani: Don DeLillo, parlando di «rovine del futuro» non può fare a meno di osservare che l'evento «è stato abbagliante e totalizzante, e alcuni di noi hanno detto che era irreale». David Foster Wallace rimane colpito dalla «sinistra bellezza» del replay in cui il filmato televisivo mostra il secondo aereo che colpisce la torre, «con il blu, l'argento, il nero e quello spettacolare arancione» che feriva gli occhi e non ha potuto impedirsi di pensare, mentre la Torre Sud «crollava perfettamente su se stessa[…], che sembrava un'elegante signora» colta da improvviso svenimento. Un altro telespettatore, con lui presente, osserva che sembrava piuttosto «la ripresa di un decollo della Nasa fatta scorrere all'indietro». Amitav Gosh riferisce invece le parole di una sopravvissuta: «"sembrava l'inizio di un inverno nucleare […] Tutt'a un tratto è calata su di noi una quiete assoluta e ci siamo ritrovati in mezzo a una nebbia chiarissima, accecante, come una tempesta di neve in una giornata di sole"».
Un ulteriore testimonianza di "cedimento estetico" allo spettacolo del terrore sfugge anche a Jonathan Franzen, «davanti alla terribile bellezza del crollo delle torri».
Chiunque, a meno che non si trattasse di una gran brava persona, ha probabilmente sperimentato come me lo scontro di diversi mondi incompatibili dentro la propria testa. Oltre all'orrore e alla tristezza per ciò che vedeva, avrà pure provato un infantile disappunto per lo scombussolamento della propria giornata, o una preoccupazione egoistica per le ripercussioni sulle proprie finanze, o ammirazione per un attacco così brillantemente concepito e così impeccabilmente eseguito, oppure, nella peggiore delle ipotesi, un senso di sbigottito apprezzamento per lo spettacolo visivo che quell'attacco aveva prodotto.
Mary Caponegro vede le torri «gloriosamente esplodere come un castello di sabbia che cede all'onda inesorabile» e Paul Auster ne trae un'indicazione di trasformazione epocale: «tutti sapevamo che poteva succedere[…] E così finalmente il ventunesimo secolo è arrivato».
Parole che testimoniano un sentimento complesso della percezione della catastrofe, nelle quali lo shock dell'evento si mescola indissolubilmente con le categorie del mondo estetico e della rappresentazione spettacolare, a dimostrazione che un trauma storico, come osserva Daniela Daniele, «produce in chi ne è colpito una ferita che segna anche una crisi di rappresentazione».
2.8 «Il Ground Zero del godimento»
Le reazioni emotive descritte da Franzen vengono confermate anche da alcuni scrittori italiani i cui scritti si trovano ad attraversare di sfuggita la data dell'11 settembre, in quanto presente nell'orizzonte diegetico dei loro romanzi. Gianluca Morozzi in Luglio, agosto, settembre nero coglie il suo personaggio principale in una riflessione a caldo su quanto appena successo davanti agli schermi TV, a ridosso della paura di essere diventati tutti, anche noi, «bersagli». Un'onda di terrore che dura però solo lo spazio di in pomeriggio.
E dopo la marea si è ritirata[…], la soglia d'attenzione è sempre più bassa, al tramonto nessuno aveva ancora lanciato aerei sulle nostre teste, e allora chi aveva un appuntamento è andato all'appuntamento, chi voleva farsi una birra si è fatto una birra, e chi voleva vedere Enrico Papi ha anche un po' sbuffato per quelle edizioni straordinarie che non finivano più. E se domani il mondo ci sarà ancora[…] e la Cnn continuerà ad oscurare Enrico Papi, un sacco di gente dirà:"eh, però basta con 'ste torri gemelle del cazzo".
Un punto di vista del tutto analogo a quello che Tiziano Scarpa insinua nella mente del protagonista di Kamikaze d'Occidente:
Accendo la televisione. Missili a Kabul. È iniziata la terza guerra mondiale? Dunque vediamo… Breve sondaggio interiore: domani sera ho un'altra lettura di poesia, dopodomani mattina lavoro. Per di più, nelle prossime settimane devo finire un libro per il mercato cinese. No, non ho nessuna voglia di avere una guerra fra le palle. Ho molto ma molto di meglio da fare. Ergo non scoppierà nessuna guerra. È scientifico.
La percezione è dunque quella di una frattura temporanea del reale, che tuttavia torna a richiudersi, come l'acqua di uno stagno sul sasso che ne ha turbato la superficie. Si tratta di scoprire dove è finito il sasso: Žižek ritiene che l'unico modo di attingere il reale, sia quello di riconoscere e smascherare la componente di finzione che le rappresentazioni della presunta realtà inoculano nel nostro immaginario. Bisognerebbe, in altre parole, sottoporre a dialettica costante la triade Reale/Simbolico/Immaginario, mettendone in luce i prestiti reciproci e identificandone gli scambi.
In un'altra antologia, questa volta di autori italiani, Scrivere sul fronte occidentale, curata da Antonio Moresco e Dario Voltolini, e anch'essa frutto di riflessioni a caldo dopo l'11 settembre, Marco Senaldi osserva che se il "principio di piacere" governa la dimensione estetica capace di collegare l'orizzonte simbolico e quello della realtà, allora, quando tale orizzonte si lacera, quando cioè immaginario e reale si confondono, il rapporto «da simbolico diventa diabolico». In tal modo ci si inoltra "al di là del principio di piacere" e si diventa vittime di sentimenti inconciliabili, quali orrore e seduzione, come avveniva in passato con gli "spettacoli di giustizia" d'ancien régime durante i quali il popolo che gremiva le piazze provava, davanti alle esecuzioni pubbliche, "stupore e meraviglia" mescolati con "orrore e raccapriccio". Osserva ancora Senaldi:
È per questo che l'attentato e la sua anima mediale, cioè la diretta televisiva, hanno incarnato il sublime contemporaneo, come fonte non più di piacere (modo di fruizione proprio del Bello), o di dispiacere (derivante dal Brutto), ma di godimento come paradossale scontro di piacere-dispiacere, di eccesso e di penuria, di "nauseato stupore".
Se oggi l'apocalisse ha perduto ormai per sempre quel significato parallelo delle origini e che consisteva nella "rivelazione" di un piano simbolico sottostante alla catastrofe, se si è ridotta a semplice sinonimo di muto stordimento privo di senso e di futuro, ci si rende tuttavia conto che la visione di rovina non è a sua volta innocente, non è la semplice traduzione in atto di un processo che investe direttamente la realtà-reale, ma è a sua volta una rappresentazione simbolica, una spia del rapporto mutevole tra uomo e natura.
Qualcosa dopo l'11 settembre sembra essersi rimesso in moto nella letteratura, almeno nelle intenzioni, avvertendo la necessità di interpretare una rinnovata riflessione, capace di andare oltre l'orizzonte del «deserto del reale». Antonio Moresco ritiene, ad esempio, che sarà sempre più necessario studiare attentamente le dinamiche mentali e i mascheramenti simbolici che spingono noi, «piccole scimmie nude, infe¬lici, cattivissime», a tentare di «dominare distruttivamente il mondo» in cui abitiamo, a non accontentarci di risposte fatte di presuntuosa definitività.
Una svolta radicale che impone di riprendere il contatto con «l'infinitamente grande», proprio a partire dal piano della rappresentazione: e questa è forse l'ultima lezione che ci hanno insegnato le immaginazioni e le realtà catastrofiche filtrate attraverso i media.
L'11 settembre, nei cinema di New York, era del resto in programmazione Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.
3.1 Balbuzienti
Non parlano la nostra lingua e, quando sono proprio costretti a farlo, riescono a malapena a balbettare parole che soltanto la nostra buona volontà ci permette di capire. Dietro l'etimologia greca della parola "barbaro", in quel balbettio che sembra alludere a una vaga e, al tempo stesso, multiforme disfunzione, si cela tutta l'ambiguità dell'incontro con l'alterità, l'aspra contesa delle definizioni di "civiltà" e "barbarie".
Non parlano la nostra lingua: non partecipano cioè al nostro retaggio matrifocale, non sono imparentati con noi, risiedono nel mezzo di incerte contrade di cui abbiamo scarsa conoscenza (ammesso che abbiano stabile dimora e non scorrazzino selvaggiamente per le steppe come animali bradi), la loro stirpe non è degna di considerazione e hanno costumi e usanze che ci sembrano perlopiù altamente riprovevoli, quando non disgustosi o incomprensibili.
A volte vengono da lontano, altre sono più vicini di quanto si creda. Vorrebbero commerciare con noi perché invidiano la nostra agiatezza. Scrutano con concupiscenza i nostri confini, immaginando le grandi opportunità di saccheggio a porta di mano, se soltanto potessero penetrare come orde fameliche nei nostri territori per prendersi le nostre ricchezze, insieme alle nostre vite e alle nostre donne. Li temiamo e al tempo stesso li disprezziamo poiché sono rozzi e incivili.
Certo, sono temibili perché essendo più simili a fiere che a uomini, non conoscono morale e autentico senso religioso, persi come sono ad adorare unicamente certe loro divinità grottesche e sanguinarie. Ma sono anche ridicoli nel loro balbettare che ci ricorda i bambini ancora ignari della vastità del mondo e delle conquiste del sapere. È quasi eccessivo voler fare loro colpa della mancanza di educazione e di senso estetico: come potrebbero capire l'arte, le raffinate costruzioni simboliche del vivere sociale, i nostri orgogliosi monumenti, il senso del gusto coltivato con pazienza e competenza? Sono estranei a concetti come "progresso", "modernità" e "cultura" Rappresentano l'antitesi della civiltà, della nostra civiltà. Non comprendono le raffinatezze che stimano come capricciosi trastulli e ci considerano imbelli, flaccidi ed effeminati. Insomma: inutili.
Preferiscono abitare all'aria aperta in ricoveri precari, non sanno cosa sia una casa ed è già tanto se riescono a costruire qualche misero villaggio dove vivono in ripugnante promiscuità. Si nutrono come bovi che empiono il ventre di biada o come bestie feroci che sbranano le prede fieramente. Mangiano cibi innominabili e spesso imputriditi, incapaci di conservarli e indolenti nell'insaporirli: i barbari non sanno che cos'è la buona cucina e il loro rapporto con la tavola è lo stesso che ha il maiale col trogolo. Dedicano però molto tempo alla guerra e sono maestri nel fabbricare spade, il cui ferro, si dice, siano soliti temprare col sangue.
3.2 «Il lato peggiore della cosa»
La carta d'identità del barbaro ha il pregio di poter facilmente essere condivisa e scambiata in base al rispettivo punto di vista Greci e Persiani, Cinesi e Giapponesi pensavano più o meno le stesse cose gli uni degli altri. Ancora oggi la tendenza rimane e spesso riemerge con forza nei momenti di crisi.
Ma c'è qualcosa di peggiore del reciproco avvalorarsi negativamente, e riguarda quella sensazione di profondo spiazzamento che ci pervade quando ci accorgiamo che i peggiori difetti attribuiti all'"altro" possono a volte essere riconosciuti con facilità anche dentro di noi.
Joseph Conrad in Cuore di tenebra (1899) coglie con lucida esattezza le implicazioni di tale sentimento: il protagonista Marlow, durante la navigazione sul fiume Congo scorge di tanto in tanto «fuggevoli visioni di muri di giunco, di tetti d'erba appuntiti», ode clamori improvvisi ed esplosioni di grida che lasciavano facilmente immaginare «un turbinio di arti neri, una massa di mani che battevano, di piedi che pestavano, di corpi che ondeggiavano, di occhi che roteavano, sotto l'opprimente e immobile fogliame». I bianchi sul battello non possono comprendere il significato di quelle manifestazioni («l'uomo preistorico ci malediceva, ci pregava, ci dava il benvenuto – come si faceva a saperlo?»), scivolando via lungo quelle sponde «come fantasmi, perplessi e segretamente spaventati, come un uomo sano di mente davanti a un'esplosione d'entusiasmo in un manicomio».
Non potevamo capire, perché eravamo troppo lontani e non ricordavamo più nulla, perché stavamo viaggiando nella notte dei primi tempi, di quei tempi che sono scomparsi, e hanno lasciato ben pochi segni – e nessun ricordo.
La terra qui sembrava ultraterrena. Noi siamo abituati a vedere la forma incatenata di un mostro sopraffatto, ma lì - lì potevi vedere qualcosa di mostruoso e di libero. Era terrificante e gli uomini erano... No, non erano inumani. Be' voi sapete che è proprio questo il lato peggiore della cosa - il sospetto che non fossero inumani si affacciava a poco a poco. Quelli gridavano e saltavano e giravano su se stessi e facevano orribili smorfie; ma ciò che ti faceva rabbrividire era proprio il pensiero che appartenessero all'umanità - come voi - il pensiero di una tua remota parentela con questo frastuono selvaggio e appassionato.
3.3 Essere abbastanza uomini «almeno quanto quelli sulla riva»
La sgradevole sensazione di Marlow, quel suo comprendere con spavento la comune essenza umana che lo legava a quei selvaggi che pestavano i piedi sulle rive dell'oscuro fiume, sembra tuttavia rappresentare l'unico spiraglio possibile attraverso cui, sia pure con riluttanza, l'orgoglio della civiltà, prendendo le distanze dai suoi «abiti eleganti», può compiere un passo avanti decisivo verso la «verità», nel riconoscimento del gioco di specchi che l'altro rappresenta per se stessi. Nel rendersi conto che tutti i princìpi, tutti quegli abiti sono soltanto «cenci che volerebbero via al primo scrollone», si manifesta già in potenza una più alta capacità di comprendere e non soltanto di sapere. In altre parole: soltanto attraverso un lucido atto di spoliazione delle proprie prerogative si può pervenire ad intuire un grado superiore di umanità.
Brutto. Sì, era parecchio brutto; ma, se eri abbastanza uomo, dovevi confessare a te stesso che la sincerità spaventosa di quel rumore procurava in te un seppur vaghissimo riscontro, un confuso sospetto che racchiudesse un significato che tu – così lontano dalla notte dei tempi – potevi comprendere. E perché no? La mente dell'uomo è capace di tutto – perché contiene tutto – il passato come il futuro. Cosa c'era lì in fin dei conti? Gioia, paura, dolore, devozione, valore, collera – chi può dirlo? – ma anche verità – verità spogliata del manto del tempo. Padronissimo lo sciocco di restare a bocca aperta e di rabbrividire – l'uomo sa, e può continuare a guardare senza battere ciglio. Bisogna però che sia uomo almeno quanto quelli sulla riva. Deve affrontare questa verità con la sua vera essenza – con la sua forza innata. I principi non servono. Le acquisizioni, i vestiti, gli abiti eleganti – sono tutti cenci che volerebbero via al primo scrollone. No: hai bisogno di una convinzione solida. C'è un richiamo in quel bailamme diabolico? Benissimo; lo sento; lo ammetto, ma ho anch'io una voce e, nel bene o nel male, mio è il discorso che nessuno può zittire.
Sebbene la complessa allegoria conradiana sembri puntare soprattutto ad una rivisitazione della relazione diacronica che l'uomo dovrebbe intrattenere con il suo passato – per giungere ad una rappresentazione attendibile del termine "umanità" – Cuore di tenebra si presta indubbiamente ad una lettura anticipatoria dei temi del Novecento, grazie alle sue potenti intuizioni di motivi che sarebbero poi state al centro della letteratura successiva, come le concezioni dell'io diviso, della voce narrante come monologo interiore e della relatività del giudizio morale. In tal senso un'interpretazione sincronica del concetto di alterità, non soltanto si pone come punto di partenza irrinunciabile per smascherare le tentazioni colonialistiche che ardono nel cuore della "volontà di potenza", ma si rivela altresì particolarmente utile per analizzare il confronto moderno tra "civiltà" e "barbarie".
3.4 «Aspettando i barbari»
Nel romanzo di John Maxwell Coetzee, Waiting for the barbarians, il tema dominante è "l'indefinito". Non sappiamo quale sia "l'Impero" nei territori del quale si svolgono le vicende: ne intravvediamo soltanto "la frontiera" dove una comunità di coloni finisce per trovarsi al centro di una campagna militare per soggiogare "i barbari" che vivono nelle terre desertiche del nord. Lo stesso tempo storico è assai vago, premoderno ma intuitivamente molto vicino a noi. Il protagonista principale non ha nome e lo conosciamo soltanto attraverso la sua funzione di "magistrato". Mai si conosceranno le ragioni che inducono la «Terza Divisione» della guardia civile, comandata dal colonnello Joll, a militarizzare la frontiera – a parte una generica necessità di respingere un pericolo che, secondo le uniche fonti di contatto non militari coi barbari, appare in definitiva immaginario. Il Magistrato stesso non arriverà mai a comprenderne motivazione o necessità impellenti.
I barbari conducono una esistenza nomade in territori inesplorati, aspri e montagnosi, circondati da malsane paludi. Vivono di pastorizia e di pesca e di rado compaiono presso l'avamposto per qualche frugale commercio.
Ma già da qualche tempo «sono cominciate ad arrivare voci di tumulti tra i barbari. Viaggiatori attaccati e depredati su strade prima ritenute sicure. Razzie di bestiame sempre più numerose e audaci. Ufficiali di censimento scomparsi in fosse poco profonde». Sono soltanto parole, perché nessuno ha mai visto o saputo nulla in prima persona. Ma ciò basta perché l'impero si prepari alla guerra, giudicandola inevitabile.
Il magistrato confessa di non aver mai desiderato altro che «una vita tranquilla in tempi tranquilli», la cui principale occupazione, vista la scarsa quantità di lavoro che la sua funzione richiede, è quella di raccogliere e tentare di classificare certe tavolette di pioppo incise con caratteri sconosciuti, ritrovate tra i ruderi sepolti nei pressi della cittadella – sopravvivenza forse di una qualche cultura barbarica dei tempi andati. Ma la sua vita verrà travolta quando prenderà le difese di una ragazza barbara, fatta prigioniera dai soldati e torturata insieme ad altri prigionieri. Tenterà di farne la sua concubina, ma non riuscirà mai a comprenderla o a fare davvero qualcosa che gli permetta di entrare in una scambievole intimità con lei. La riaccompagnerà allora dalla sua gente, vagando per giorni e giorni nella speranza di incontrare gli elusivi vicini e quando vi riuscirà si porterà dietro soltanto il ricordo di un incontro fugace e sospettoso, avvenuto davanti alle minacciose bocche dei fucili di uno sparuto gruppo di cavalieri barbari («hanno la pelle scura, gli occhi obliqui; eccoli qui, sono loro, i barbari in carne e ossa, nel loro territorio. Sono abbastanza vicino a loro da sentirne l'odore: sudore di cavallo, fumo, pelli semiconciate») e una sconfortante sensazione di vuoto, «solo un gran vuoto, e la desolazione che debba esserci quel gran vuoto».
3.5 «Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio»
Compromessa ormai la sua posizione agli occhi del colonnello Joll, al suo ritorno il Magistrato viene a sua volta imprigionato e poi torturato, trasformato in un relitto umano che ha perso ogni dignità e che ha definitivamente appreso a proprie spese come sia facile, attraverso il dolore inflitto, piegare ogni resistenza ed essere indotti ad abbandonare qualsiasi ideale di giustizia o di ragione Del resto il colonnello gli aveva illustrato in precedenza quali fossero i suoi metodi per raggiungere la «verità»:
mi riferisco a una situazione particolare. A una situazione in cui cerco la verità e in cui devo esercitare una certa pressione per scoprirla. In principio mi dicono solo bugie, capisce… succede sempre così: prima bugie, poi pressione, poi ancora bugie, ancora pressione, quindi il crollo, ancora pressione e alla fine la verità. È così che si arriva alla verità.
Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio. È questo che ricavo dalla mia conversazione col colonnello Joll.
Ridotto ormai a una larva del dignitoso e riflessivo uomo del passato, il Magistrato resta nella cittadella ormai abbandonata dall'esercito, dopo che la tracotante spedizione si è risolta in un disastroso fallimento, come viene ad apprendere da un soldato sopravvissuto.
"Un momento. Com'è possibile che i barbari vi abbiano ridotti così?" "Siamo morti di freddo in montagna! Di fame nel deserto! Perché nessuno ci ha detto che sarebbe stato così? Non ci hanno sconfitti, ci hanno attirati nel deserto e poi sono scomparsi! "Chi vi ha attirati?" "Loro, i barbari! Ci attiravano sempre più in là, non riuscivamo mai a raggiungerli. Assalivano i dispersi, la notte mettevano in fuga i nostri cavalli, non ci affrontavano mai direttamente!"
La comunità residua attende pertanto l'imminente arrivo dei barbari nell'avamposto ormai privo di qualsiasi difesa: ma questi continueranno a non arrivare. Più cresce la paura dei pionieri dell'impero, più la temuta invasione diventa una minaccia fantasmatica, un'attesa macchiata «di colpa e stupore» per l'irruzione della storia nel tempo immobile dell'oasi» e snervata dall'oscura consapevolezza che «fino alla fine non avremo imparato niente». Al protagonista non resta che cercare di mettere per iscritto i suoi pensieri, nel tentativo di dare un senso a quell'attesa che è la più terribile delle sconfitte.
Penso: "Ho vissuto un anno pieno di eventi straordinari, eppure non ci ho capito niente, meno di un neonato […]" Penso: "Ma quando i barbari assaggeranno il nostro pane, il pane fresco con la marmellata di gelso o di ribes, saranno conquistati dal nostro modo di vita. Scopriranno che non è possibile vivere senza l'abilità di uomini che sanno coltivare il tenero grano, di donne che sanno come trattare la benefica frutta ".
Può solo riflettere amaramente sul tempo perduto vanamente, per non essere stato capace di autentica onestà con la ragazza barbara, quando ne ha avuto l'occasione, per aver mostrato di se stesso soltanto l'altra faccia della violenza dell'Impero: il suo tedioso paternalismo.
Perché io non ero, come mi piaceva credere, l'opposto indulgente ed edonista del gelido, rude colonnello. Ero la menzogna che l'Impero si racconta quando le cose vanno bene, e lui la verità che l'Impero dice quando comincia a soffiare vento di tempesta. Due facce dell'Impero, ne più ne meno.
3.6 La fortezza Bastiani
Non è necessario dimostrare che Coetzee conoscesse Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, anche se la citazione del suo nome, nella recente riedizione britannica (Canongate, Edinburgh, 2007) del celebre romanzo italiano – che Coetzee, nella prima di copertina, definisce «a strange and haunting novel, an eccentric classic» – lasciano pochi dubbi in proposito.
Del resto una filiazione di Waiting for the Barbarians rispetto al romanzo di Buzzati è pressoché universalmente riconosciuta: identico lo scenario della "frontiera", identica l'oscura incerta minaccia che incombe da nord, identico il punto di vista da un avamposto al confine con i territori nemici, ai bordi di un deserto, estremamente simili le atmosfere di attesa indeterminata che caratterizzano le due opere, moltissimi i paralleli fra azioni e personaggi che possono essere ricavati da una lettura incrociata.
Certo, le due storie hanno anche uno sviluppo diverso e differenti sono anche le loro conclusioni. Buzzati completò Il deserto dei Tartari nel 1939 e lo pubblicò nel 1940, all'alba dell'apocalisse bellica in cui il Fascismo avrebbe trascinato, di lì a poco, l'Italia. Coetzee pubblica il suo romanzo nel 1980, in pieno regime di apartheid, in concomitanza con la comparsa di una cospicua letteratura apocalittica in Sud Africa. Il fatto che le due opere si collochino cronologicamente in un preciso momento di crisi storica finisce per accentuarne ancor di più le già numerose somiglianze.
Entrambe le storie narrano l'inquietudine di una frontiera che si trova, per sua stessa definizione "di fronte" al nemico, sia esso il "barbaro" o l'"esercito del nord". Lo stesso periodo storico in cui si dipana l'inutile attesa del tenente Drogo resta fortemente indeterminato e, come quello del Magistrato di Coetzee, appare, per così dire, retrodatato e pressoché spogliato dei connotati identificativi della modernità. Sembra quasi un modo di voler sottolineare che l'inquieta attesa del nemico avviene sempre nello stesso modo, in qualsiasi epoca ci si trovi, che l'incontro con l'alterità è sempre un incontro in cui non è possibile dispiegare appieno i propri attributi di status che caratterizzano la nostra civiltà. Noi e loro diveniamo stranamente simili: vestiamo abiti che sono funzionali soltanto per sopravvivere nei gelidi inverni della frontiera, abbiamo armi da fuoco approssimative che anche i barbari sembrano possedere in pari grado, non possiamo quindi ripararci dietro gli schermi delle nostre tecnologie, siamo pressoché nudi e soli al cospetto dell'incontro, trincerati dietro le nostre mura esterne e in compagnia soltanto degli animali che ci danno da vivere e che ci permettono di cavalcare: le stesse risorse che possiedono anche i barbari.
3.7 Resta soltanto l'onore
In un'intervista rilasciata ad Alberto Sala e premessa all'edizione negli Oscar Mondadori del 1966, Buzzati dichiara apertamente quale fosse in realtà la condizione autobiografica che lo aveva portato a scrivere Il deserto dei Tartari:
Probabilmente tutto è nato nella redazione del "Corriere della Sera". Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se fosse andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch'io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire. Chiaro che la stessa situazione si presenta in tutti i generi di lavoro, in tutte le carriere. Era insomma un tema abbastanza universale, una macchina nei cui ingranaggi ero preso io, ma che macinava anche la stragrande maggioranza dei miei simili.
Sogni e speranze che lentamente svaniscono nella Fortezza Bastiani, nell'inutile attesa di un riscatto che possa in qualche modo dare un senso alla pigra e tediosa vita che si consuma nel forte. Due soli guizzi si manifestano nella vicenda, due soli tentativi di riabilitazione ed entrambi si concludono con la morte. Il primo riguarda l'amico di Drogo, il fragile e aristocratico Angustina. Al termine di una marcia massacrante per precedere un piccolo distaccamento del «Regno del Nord» in un'operazione di marcatura dei confini e dopo essere stata preceduta beffardamente dai nemici, la pattuglia che comprende il tenente Angustina si accampa sotto la cima della loro sconfitta, anziché rientrare alla ridotta per evitare di dover passare una notte all'addiaccio, nella tormenta. L'istigazione a tale comportamento proviene proprio dal più debole del gruppo, lo stesso Angustina. Vorrebbe evitare di mostrare al nemico, che resta a spiarli sulla vetta, il disonore di una mesta ritirata. Il tenente, anzi, con eroico quanto folle orgoglio, resta ben in vista dei nemici, allo scoperto e senza proteggersi dal freddo pungente, inscenando una partita a carte con un compagno inesistente. Una prova di noncurante coraggio che ne causerà la morte, a causa del freddo e degli stenti nobilmente sopportati.
Il secondo riguarda lo stesso Drogo, alla chiusura del romanzo: beffato dalla malattia che lo porta ad essere allontanato dalla possibilità di gloria, una volta che il nemico è davvero arrivato, persa quindi l'ultima occasione di riscatto, si accinge a morire in solitudine «sul generico letto» di un'anonima locanda. Riuscirà a farlo, ripensando proprio ad Angustina, ricordandone il coraggio, la dignità e perfino l'«eleganza.
Facendosi forza […] raddrizza un po' il busto, si assesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.
La dignità di fronte alla sconfitta è un tema che a Buzzati stava molto a cuore, come ha avuto modo di ricordare in un libro-intervista in cui dichiara la sua ammirazione per chi, pur travolto dalla tragedia, continua a mantenere un onorevole senso di sé «e rimane collet monté», proprio come Drogo in punto di morte.
3.8 Consultarsi con la solitudine
A guardia della quarta ridotta del forte, Drogo passa i giorni «a guardare verso nord, alla desolata pianura, priva di senso e misteriosa». Una notte, aggirandosi inquieto sugli spalti, crede di udire una «nenia» canticchiata da una sentinella: ma si tratta soltanto della voce di una cascata d'acqua che da qualche parte scroscia lungo le rocce delle montagne attorno. Il vento che ne faceva oscillare il getto, le pietre smosse e il rifrangersi dell'eco producevano quel suono che sembrava una voce umana che «parlava e parlava: parole della nostra vita, che si era sempre a un filo dal capire e invece mai».
Non era dunque il soldato che canterellava, non un uomo sensibile al freddo, alle punizioni e all'amore, ma la montagna ostile. Che triste sbaglio, pensò Drogo, forse tutto è così, crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c'è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera, stiamo per salutare l'amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne, perché ci accorgiamo di essere completamente soli.
La voce della solitudine è al tempo stesso quella della natura «ostile». In fondo è quanto aveva scoperto Marlow in Cuore di tenebra. Pur tentando di motivare la superiorità del colonialismo rispetto alle guerre di conquista del passato («ciò che ci salva e l'efficienza – il culto dell'efficienza»), gli sovviene ripensare a quando gli stessi Romani avevano conosciuto «il fascino dell'orrore» in quello stesso territorio da cui oggi salpano trionfanti le navi dei barbari di un tempo («"E anche questo […] è stato uno dei luoghi più bui della terra"»). Il tono incerto e pensieroso di Marlow – nel suo racconto a bordo della Nellie, alla fonda nell'estuario del Tamigi e in attesa del riflusso di marea – mostra però quanto sia inutile tentare di aggrapparsi ad una virtù dal valore incerto, anche perché sa di aver conosciuto di persona l'altra faccia di quella presunta «efficienza», calandosi personalmente nel cuore di tenebra. In effetti ciò che il protagonista, sotto «il sole accecante» africano, potrà scorgere di quella presunta qualità, sarà soltanto il suo manifestarsi nelle forme del futile e dell'inutile, soggiogate dal «demone flaccido, pretenzioso e miope di una follia rapace e spietata». Quanto a Kurtz, – colui che con coerenza aveva fatto «anche l'ultimo passo […] oltre il limite», per penetrare davvero nel cuore di quella natura ostile e primordiale – la foresta aveva ben presto scoperto il vuoto nel «profondo» del suo cuore
e si era presa su di lui una terribile vendetta per la sua fantastica invasione. Credo che gli avesse sussurrato qualcosa di sé che lui ignorava, qualcosa di cui non aveva avuto idea finché non si era consultato con questa grande solitudine – e quel sussurro aveva esercitato un fascino irresistibile.
Una sensazione molto affine a quella che pervade il Magistrato di Waiting for the Barbarians che tenta di ritrovare una personale dignità perduta attraverso l'annotazione dei pensieri, nell'inutile ed estrema attesa. Pare anch'essa manifestarsi attraverso un'oscura voce di natura, come un monito solenne purtroppo non compreso: «penso: "Qualcosa mi ha guardato dritto in faccia e io ancora non la vedo"».
4.1 Al riparo dei fiori del tempo
La storia ci ricorda che è impossibile arrestare le ondate migratorie, barbariche o meno che siano. Difese naturali e artificiali, valloni di frontiera, muraglie, fortificazioni hanno sempre mostrato una cronica porosità: presto o tardi le brecce si aprono inesorabili. La guerra a volte viene immaginata come l'unica opzione difensiva possibile, ma combattere i barbari nelle loro steppe appare un'impresa disperata, di esito incerto e di improbabile, definitiva risoluzione del problema. Le migrazioni dell'homo sapiens sono sempre avvenute in barba ad ogni difficoltà e ostacolo. Pertanto l'opposizione alle invasioni barbariche si configura inevitabilmente come un orizzonte limitato all'arco vitale di poche generazioni, ricacciando le paure in un futuro nel quale, chi le ha immaginate, non abiterà ormai più. Si può soltanto cercare di prendere tempo, rallentare il processo, forse con la segreta speranza che i barbari smettano di premere ai nostri confini e cambino strada, andando a creare grattacapi altrove.
Sospingere indietro l'inesorabile, ritardarne il funesto avverarsi forse è possibile, ma è assai difficile valutare il prezzo pagato per un simile titanico sforzo.
Nel racconto di James Ballard, Il giardino del tempo, l'inevitabile accade, nonostante l'espediente magico dei fiori del tempo: il conte Axel vive ritirato insieme alla consorte nella sua preziosa e solitaria «villa palladiana», con annessa ampia terrazza, giardino e mura di cinta. Tutto intorno si stende una grigia pianura, ondulata da creste poco profonde. Dalla terrazza si può vedere l'orizzonte in cui nereggia ciò che sembra essere «l'avanguardia di una folla immensa». Il conte sembra l'espressione di un aristocratico del primo Novecento: «profilo alto e imperioso», «giacca di velluto nero», «spilla d'oro alla cravatta», «barba tagliata alla Giorgio V», bastone da passeggio e mani guantate di bianco. Spia l'orizzonte (come tutti coloro che aspettano i barbari), ascolta distrattamente il clavicembalo della moglie che diffonde un rondò di Mozart. Ha appena lasciato la sala della biblioteca ricca di «rari manoscritti», ha attraversato lentamente «il corridoio dei ritratti» e ha disceso l'ampia scalinata «in stile rococò» per passeggiare in giardino fra i fiori del tempo. Scrutando l'orizzonte studia quell'esercito in lontananza «formato da una vasta e confusa folla di gente, uomini e donne, inframmezzati da pochi soldati in uniformi lacere» che avanza come «una disordinata marea». Coglie allora un fiore del tempo grande come un calice, staccandolo dal suo stelo vitreo, e resta guardarlo mentre questo manda scintille «liberando infine la luce prigioniera al suo interno», prima di estinguersi. Poi torna a scrutare la pianura: la marea umana è stata ricacciata indietro, dietro l'orizzonte.
4.2 Pietrificati nell'attesa
Ma i fiori del tempo sono ormai pochi e il giardino sta morendo. Gli ultimi fiori vengono spezzati uno dopo l'altro, mentre l'immensa moltitudine stracciona si avvicina inesorabile. Ormai può essere ricacciata indietro soltanto per tempi sempre più brevi. Cosciente dell'avvicinarsi della fine, la contessa, una donna dal viso «sereno e intelligente» i cui ricchi abiti mettono in evidenza «il collo lungo e sottile e il mento alto e nobile», chiede di poter essere lei a recidere l'ultimo fiore del tempo. Ormai si odono le grida e gli aspri richiami della sterminata massa umana avanzante, sempre più vicini e sempre più forti. I coniugi si preparano alla fine ormai non più rimandabile, si abbigliano con cura; lui sigilla i manoscritti e riordina diligentemente la biblioteca, spolvera i ritratti. Fanno insieme la consueta passeggiata in giardino, destinata ormai ad essere l'ultima. Gli ultimi due piccoli fiori del tempo vengono raccolti, ma i loro «nuclei temporali compressi» bastano ormai per guadagnare soltanto pochi minuti. All'aristocratica coppia non resta che attendere l'inevitabile, stringendosi in un trepido abbraccio. Axel, come il tenente Drogo, all'ultimo si aggiusta «la cravatta di seta».
La sterminata massa umana occupa ormai l'intera pianura fin'oltre l'orizzonte e ciò che sembrava il corpo principale si rivela in realtà soltanto un'avanguardia. Si abbatte sulla villa. Scavalca senza difficoltà i ruderi dei muri non più alti di un ginocchio, sciama nel giardino imputridito, passa attraverso la casa dai muri sfondati e i solai crollati. Qualcuno vede i resti di un clavicembalo fatto a pezzi per essere trasformato in legna da ardere, i libri rovesciati e in procinto di trasformarsi in polvere, i dipinti sfregiati e le cornici dorate in pezzi.
Nel frattempo la folla immensa prosegue il suo cammino e nessuno sembra notare le due statue prigioniere in un groviglio di rovi sotto i ruderi della terrazza: la più alta mostra un uomo barbuto con un bastone da passeggio, l'altra una donna elegantemente vestita che stringe un fiore tra le mani.
In definitiva, più che rallentare i barbari, lo sforzo del differire sembra capace di produrre soltanto un perverso slittamento temporale nel quale, più che guadagnare futuro, ciò che si riesce a ottenere è soltanto il mantenimento congelato e sospeso del proprio passato, mentre la civiltà intorno si sfalda e si corrode e le nostre identità si mutano in pietra, si ricoprono di polvere.
4.3 «Credo nelle chiacchiere dei barbari»
Non sono mancati nella letteratura i tentavi di accreditare un'immagine positiva della barbarie, contrapposta idealmente alla deriva catastrofica della modernità. A causa di quest'origine oppositiva i connotati di tale immagine finiscono per rivelarsi necessariamente regressivi e nostalgici come nelle rappresentazioni mitiche dell'"età dell'oro" e del "buon selvaggio". Infanzia e animalità, ingenuità e idiozia, istinto e spontaneità ridiventano valori positivi, addirittura fondativi di un mondo possibile, forse non ancora perduto per sempre. Insieme alla curvatura del nucleo temporale che ripristina un tempo ciclico in luogo di quello lineare – dove la storia viene sostituita dal "mito dell'eterno ritorno" – lo spazio torna ad essere quel luogo di natura non piegato dal volere umano nel quale i viventi albergano in armonia. Il tema del rimpianto mitico è facilmente riscontrabile nelle letterature di ogni paese e di ogni tempo e non è qui il caso di approfondire il tema Ciò che si vuole sottolineare è che l'idea stessa di barbarie possa oscillare tra i due archetipi dell'apocalisse e dell'età dell'oro.
In un'intervista, raccolta da Jean Duflot nelle Dernières paroles d'un impie (opera tradotta in Italia col titolo Il sogno del centauro) Pasolini confessava di amare la parola «barbarie» più di ogni altra parola al mondo,
perché la barbarie è lo stato che precede la civiltà, la nostra civiltà: quella del buon senso, della previdenza, del senso del futuro. Capisco che ciò possa sembrare irrazionale e perfino decadente. Me ne rendo conto nel momento stesso in cui ne parlo, ma non cambia nulla. Bisogna sapere che la mia formazione politica si è compiuta in compagnia di "decadenti" quali Rimbaud, Mallarmé, ecc. A questo decadentismo bisogna restituire il suo senso storico, senza moralismo. E in questo senso non è né negativo né positivo. È semplicemente l'espressione di un rifiuto, dell'angoscia dinanzi alla vera decadenza generata dal binomio Ragione-pragma, divinità bifronte della borghesia.
Massimo Fusillo ha messo in luce il comune sentire di Pier Paolo Pasolini e di Elsa Morante di fronte al tema della barbarie, anche se espresso con tonalità diverse e tipiche degli autori, dall'assertivo pasoliniano all'intimismo della scrittrice della Serata a Colono da cui è tratto il titolo del saggio di Fusillo:
Si sa che queste sono tutte dicerie barbare e fanfaluche. / Ma io credo nelle chiacchiere dei barbari e nelle balle infantili. / […] Credo nell'ignoranza e nei sogni e nel delirio / credo in tutte le storie più prodigiose o idolatriche / e in tutte le cose impossibili. / Solo nella mia morte, io, / non credo.
Sembra il ritratto della cultura africana (o almeno della sua immagine postcoloniale) che, secondo Pasolini, è destinata a soppiantare un giorno i modelli industriali che hanno corrotto la vecchia Europa, e distrutto il pur creativo «sottoproletariato latino». In Poesia in forma di rosa l'autore evoca i Denka e gli altri popoli «delle centoventi altre tribù / parlanti suoni di ceppi diversi», auspica «una discesa di barbari alloglotti» che potranno finalmente riposare «nel gelo dei praticelli fiorenti» dedicandosi poi a qualche lavoro manuale «non indegno, / mai, dell'uomo». In ciò consisterebbe la rinnovata semplicità e l'intima verità umana destinata a dispiegarsi nella «nuova Preistoria» contornata di alberi «splendidi come fiori»:
Miliardi di viventi, / una dolce mattina si desteranno, / al semplice trionfo delle mille mattine della vita, // con la maglia riarsa… con l'umido / del primo sudore… Felici – essi – / felici! Essi soltanto felici! // Essi soltanto possessori del sole! / Lo stesso sole del barbaro / che nel Medioevo discese, // e, dalle gole dei monti, dalle ombre / della neve, si accampò / sull'erba nera e folta, / cattiva e felice degli argini d'aprile. // Solo chi non è nato, vive! / Vive perché vivrà, e tutto sarà suo, / è suo, fu suo! // Si apre come un'aurora / Roma, dietro le spirali del Tevere / gonfio di alberi splendidi come fiori, // biancheggiante città che attendi i non nati, / forma in certa come un incendio / nell'incendio di una Nuova Preistoria.
4.4 «E noi riponevamo in loro ogni speranza»
Capita di rado in Letteratura che siano i barbari a non volerci degnare di attenzione, mentre noi li attendiamo con ansia. Per questo motivo la poesia Aspettando i barbari di Costantinos Kavafis assomiglia a una gemma solitaria del tema eterno dell'attesa. In essa la città si prepara ad accogliere i barbari con tutti gli onori. L'attività pubblica si ferma – tutto il popolo è in piazza – e le autorità preparano ricchi doni per il loro kahn, restando in attesa con abiti da cerimonia e facendo sfoggio di tutti gli emblemi del proprio rango. Ma a sera la fatale notizia arriva: i barbari non verranno più. Per tutta la città dilagano sconforto e delusione, uniti a un doloroso sentimento di abbandono: «Sciagura a noi! /Ci hanno lasciati / orfani i barbari – e noi riponevamo / in loro ogni speranza / di soluzione delle nostre grane».
Nelle speranze di Pasolini e Kavafis il ruolo dei barbari si prospetta quindi come quello di un rinnovamento auspicato, il ritorno della palingenesi apocalittica capace di porre fine ai nostri affanni, alle nostre amarezze più segrete, perché – questo è il punto decisivo delle immagini della modernità – i veri barbari sono già tra noi, hanno già occupato i nostri villaggi, sciamano senza ritegno nei templi della nostra civiltà, si affacciano con aria sbrigativa e distratta per sbirciare le nostre collezioni artistiche più preziose, comprano, senza saperle apprezzare davvero, le più raffinate creazioni del nostro talento creativo. Non appartengono però alle avanguardie dell'invasione multietnica tanto temuta, non sembrano gli avventurieri replicanti della globalizzazione. Hanno i volti dei nostri figli, anzi, sono i nostri figli.
Sta avvenendo una mutazione, sostiene Alessandro Baricco nel suo saggio sui Barbari, destinata ad archiviare per sempre l'epoca Romantica in cui ancora viviamo, retaggio del pensiero e dei valori fondativi della borghesia un tempo trionfante. Si può addirittura pensare che si stia per concludere un'epoca ancor più antica, che per millenni ha visto nell'aggregarsi delle comunità di coltivatori il centro del mondo, che ha elevato di rango la stanzialità da cui sono nate le nostre orgogliose città e con esse le patriottiche e bellicose nazioni, che ha relegato le donne in un ruolo ancillare (come sostiene l'antropologa Germaine Tillion) a causa proprio della sedentarizzazione e del potere acquisito da chi deteneva la padronanza sacrale delle tecniche agricole. Siamo forse giunti al termine del Neolitico e una nuova era è finalmente pronta a dispiegarsi dopo la rivoluzione delle macchine e dell'elettronica.
4.5 La mutazione
Il paradigma della mutazione intravista da Baricco consiste essenzialmente nel progressivo spostamento verso l'orizzontalità dell'acquisizione del sapere, contrapposta allo scavo nella dura pietra della profondità delle cose. Google rappresenta l'epitome di questa nuova fede abbracciata dai barbari. La superficialità di Google, la fragile autorevolezza di Wikipedia testimoniano in realtà soltanto il movimento dell'animale mutante, certamente non il suo modo di intendere «l'esperienza». È proprio il modo di concepire l'esperienza che mette in luce l'essenza della mutazione: non più la ricerca lenta e faticosa per accedere all'intimità delle cose, non più viaggi in profondità. L'acquisizione diventa una «traiettoria» esperienziale.
Le loro traiettorie nascono per caso e si spengono per stanchezza: non cercano l'esperienza, lo sono, Quando possono, i barbari costruiscono a loro immagine i sistemi in cui viaggiare: la rete, per esempio. Ma non gli sfugge che la gran parte del terreno percorribile è fatto di gesti che loro ereditano dal passato, e dalla loro natura: vecchi villaggi. Allora quel che fanno è modificarli fino a quando non diventano sistemi passanti: noi chiamiamo questo, saccheggio.
I luoghi del sapere diventano accessori d'uso per poter trarre l'energia sufficiente a proseguire la navigazione, smettono di essere centri di culto e vengono ridefiniti in oggetti gravitazionali capaci di imprimere una spinta inerziale. Entrare e uscire con disinvoltura dai sistemi passanti costituisce in sé la nuova esperienza barbarica di cui il "multitasking" delle nuove generazioni fornisce un valido esempio.
Quanto a capire in cosa consista, precisamente questa mutazione, quello che posso dire è che mi pare poggi su due pilastri fondamentali: una diversa idea di cosa sia l'esperienza, e una differente dislocazione del senso nel tessuto dell'esistenza. Il cuore della faccenda è lì: il resto è solo una collezione di conseguenze: la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell'analisi, il surf al posto dell'approfondimento, la comunicazione al posto dell'espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica. Uno smantellamento sistematico di tutto l'armamentario mentale ereditato dalla cultura ottocentesca, romantica e borghese. Fino al punto più scandaloso: la laicizzazione brusca di qualsiasi gesto, l'attacco frontale alla sacralità dell'anima, qualunque cosa essa significhi.
I barbari dilagano, come hanno sempre dilagato anche al cospetto della Grande Muraglia, simbolo del raffinato impero cinese. È vero, come ricorda Baricco, che il vero scopo dell'immane costruzione non era tanto militare ma filosofico: serviva a definire "la civiltà" e non a respingere i barbari, rappresentava un monumento celebrativo di potenza più che un'opera di difesa. Ma non è detto che oggi sia ancora possibile concedersi un tale lusso, continuare a recriminare sulla irreversibile perdita di sapere, come si legge ogni giorno sui quotidiani. Si perde qualcosa da un lato e si guadagna qualcosa dall'altro: l'orizzontalità estende le facoltà di conoscenza al prezzo di sacrificare l'indagine profonda. Il mondo si fa più vasto e genera nuove opportunità, ma spesso risultiamo stranieri in casa nostra. Resta il fatto che i "link" di Google, benché simili a palombari apprendisti, continuano potenzialmente a svolgere quel ruolo di esploratori del profondo che un tempo attribuivamo ai sacri testi e che, volendo intraprendere uno scavo, resta sempre la possibilità di fermarsi un momento, osservare il pozzo e decidere se sia il caso di esplorarlo. Nulla potrà impedirlo purché si abbia la consapevolezza di muoversi «nella mutazione» e non contro di essa.
4.6 Frontiere come muri o come ponti?
Come Žižek anche Tzvetan Todorov ritiene che sia proprio la paura dei barbari «ciò che rischia di renderci barbari». Combattere questa sconfortante deriva significa respingere il dettato di due opposti populismi, entrambi sollecitati dalle stesse forme di potere: bisogna essere in grado di sfuggire tanto alle ipotesi reazionarie quanto al politically correct progressista. Entrambi i populismi sono fortemente identitari e quindi destinati all'insuccesso: se le istanze reazionarie propongono un'identità di nazione da difendere con la xenofobia (la colpa è degli stranieri) il populismo progressista che invoca il multiculturalismo – spesso con scarse conoscenze delle diversità culturali in gioco – prospetta uno schema identitario individuale (le diversità esistono a causa della distribuzione delle ricchezze). In entrambi i casi si perde di vista la realtà, e i veri attori in gioco diventano figure dai contorni sfuggenti. Bisognerebbe, dice Todorov, riconoscere la necessità delle frontiere e tuttavia essere pronti a trasformarle in «ponti»; riconoscere le diversità e integrarle, ove possibile, non nella direzione del "tutto è lecito" (tipico del relativismo culturale e di tanto pensiero post-moderno) e nemmeno in quella che predica la conversione "alle nostre usanze e ai nostri costumi" (pretesa di spoliazione culturale, tipica di tanto pensiero di destra), ma cercando i punti comuni già esistenti, valorizzandoli e facendone occasioni di riferimento normativo condiviso.
In un quadro del genere le differenze si trasformerebbero non più in situazioni di attrito ma in vere opportunità di scambio poiché – come ricorda Todorov – «"una medesima legge non significa una medesima cultura"», non esistendo nei fatti «un'umanità universale». «Se gli esseri umani venissero privati di ogni cultura specifica, cesserebbero semplicemente di essere uomini».
Occorrerebbe, in definitiva, rovesciare il paradigma costruito – sottolinea Žižek – dall'«ideologia egemonica del multiculturalismo democratico» basato sulle "differenze tra uguali" per trasformarlo nel nuovo modello, auspicato da Todorov, fondato sulle "condivisioni tra diversi", nel quale prima di chiedersi "che cosa ci divide" occorre porsi piuttosto la domanda "che cosa ci unisce».
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