Federico Lorenzo Ramaioli - Qualche considerazione sull’eredità di Ariosto e sulla sfida del suo “miglior plettro”

Relazione letta in apertura della conferenza “Ariost in Deutschland. Seine Wirkung in Literatur, Kunst und Musik” – Friburgo in Brisgovia, 6 – 9 giugno 2018

La ricezione dell’opera di Ludovico Ariosto in Germania non può che essere una tematica attraverso la quale indagare l’influenza della letteratura e della poetica italiane nel resto d’Europa, a partire da quel Rinascimento in cui l’Italia si è ritrovata ad essere il cuore pulsante della cultura europea.  E ciò vale sì per l’Orlando Furioso e per i Cinque Canti, ma anche, a ben guardare, per l’ironia sferzante delle Satire, in cui è possibile ritrovare quel fenomeno, anch’esso trascendente i confini d’Italia, delle dinamiche del mecenatismo cortigiano, con i suoi vizi e le sue virtù. Si tratta, quindi, di un corpus che, sebbene dominato dagli intrecci del poema, si sostanzia in qualcosa di ancora più ampio, e finisce per costituire un mondo a sé stante, così tanto diverso dal nostro per incanti e meraviglie, ma a ben vedere anche così tanto simile, per l’approfondita, ironica e sfaccettata analisi della natura umana che il suo autore ne rende.

Come Matteo Maria Boiardo prima di lui, infatti, Ariosto costruisce un proprio universo fantastico, crea un vero e proprio mondo, un immenso palcoscenico, mescolando le grandi tradizioni cavalleresche europee del ciclo bretone e del ciclo arturiano; un mondo sempre fluido e in movimento, in cui non esistono certezze, e in cui tutto si muove, tutti si perdono, e nessuno si ritrova mai.

La commistione dei due grandi cicli cavallereschi, felice intuizione del conte di Scandiano e del suo Innamorato, è in grado di rinnovare completamente la materia del poema epico, portandola ad un punto di svolta. Siamo infatti lontani dalla rigorosa e severa Chanson de Roland, dai poemi di Chrétien de Troyes sempre in lingua d’oil, e anche dall’anonimo[1] trecentesco La Spagna. Siamo altresì lontani, ancora, per spirito ed innovazione, da opere quali il Guerrin Meschino e I Reali di Francia di Andrea da Barberino, che pure costituiranno, indubbiamente, una fonte di ispirazione per i poemi successivi. Siamo di fronte, in questo caso, ad un nuovo genere che mescola le antiche tradizioni medievali alle liriche d’amore provenzali, il raffinato ludus cortese alle nuove visioni dell’umanesimo italiano, e tuttavia, proprio per la pluralità delle fonti, si caratterizza già come un fenomeno potenzialmente di portata europea, che origina dall’Italia ma che va oltre gli stessi confini della penisola[2].

Un fenomeno europeo, quindi, e non solo per la ricchezza delle ispirazioni, ma anche per la suggestione che ha esercitato non soltanto sulle corti italiane, ma anche su quelle francesi e spagnole, inglesi e, ovviamente, tedesche. E se l’Innamorato non ancora rifatto da Francesco Berni, con la sua particolarità linguistica profondamente legata ai luoghi del suo autore[3], era destinato a rimanere per molti una curiosità tutta padana[4], il Furioso nella sua edizione definitiva ed ampliata del 1532, con la sua limpida lingua toscana[5], riuscirà a imporsi anche oltre i confini delle signorie e dei principati italiani come un nuovo e fondamentale fenomeno poetico e narrativo.

Con Ariosto, risulta subito chiaro che le dinamiche della narrativa cavalleresca non sarebbero state più le stesse, e l’influenza del poeta sulle generazioni successive, sino ad oggi, è stata notevole. Del resto, come aveva già fatto Dante accennando alle «miglior voci»[6] che dopo di lui avrebbero invocato le Muse, lo stesso Ariosto, con l’ironia che lo contraddistingue, sfida scherzosamente la posterità a raccoglierne l’eredità. È nel canto XXX, infatti, che il poeta stesso, riprendendo Orazio[7], scriverà il celebre verso «Forse altri canterà con miglior plettro»[8].

Siamo giunti al punto in cui Angelica, sposatasi con Medoro ed esaurito il proprio ruolo all’interno delle complesse trame del racconto, torna nel nativo Catai insieme allo sposo, intenzionata a consegnargli lo scettro del nuovo regno orientale. La bella donna dell’Oriente, che dall’Innamorato, dal tempo del suo arrivo alla corte carolingia, era stata il vero motore delle linee d’azione dei due poemi, scompigliando le dinamiche in precedenza consolidate e fin troppo austere della narrativa cavalleresca e dell’epica medievale[9], esce ora di scena definitivamente, e Ariosto apre alla possibilità che altri, dopo di lui e con uno stile forse migliore, raccontino degli eventi futuri e di cosa, in fine, ne sia stato di lei. 

Sebbene vi siano anche altre linee narrative non portate a compimento nel Furioso[10], ivi comprese le vicende degli incompiuti Cinque Canti[11], è la sorte di Angelica e Medoro, che paradossalmente rispetto alla cornice narrativa del poema è una storia già conclusa, ad incuriosire vari poeti ed artisti, proprio per quell’esplicito invito alla continuazione.

Se i presupposti per lo sviluppo di un nuovo racconto astrattamente esistono, e comprendono un’ambientazione esotica, dei nuovi protagonisti, e tutta quella serie di trame non ancora completamente risolte dal Furioso e che sarebbero state successivamente oggetto degli incompiuti Cinque Canti, è la funzione di questo nuovo poema a non apparire necessaria, alla luce delle dinamiche e dei rapporti tra i personaggi dell’epopea. Nel contesto ariostesco, infatti, Angelica aveva rappresentato un amore fin troppo terreno che, con le sue fughe e i suoi capricci, si sottrae al ruolo stereotipato che analoghi personaggi avevano ricoperto nei secoli precedenti; successivamente, con il suo matrimonio, la sua reale funzione di esistere viene meno, e non può che esaurirsi anche il suo ruolo nella cornice narrativa, rendendola ormai soltanto una donna fra le donne, e non più l’amante sfuggente e ingannevole il cui fascino aveva tratto nella propria rete anche gli eroi più austeri e più severi.

Se, quindi il Furioso non risolve in se stesso – né potrebbe[12] – il nuovo e sconfinato ciclo poetico inaugurato da Boiardo, visto il mutare dei ruoli e dei rapporti di Angelica all’interno della trama, l’invito ad una prosecuzione appare sì allettante, ma a ben guardare già sterile fin dall’origine. Se Angelica, ormai privata del suo carattere “rivoluzionario” all’interno della storia poetica cavalleresca, diviene dopo il suo matrimonio più simile ad una stereotipata donna angelicata capace di provare un vero amore, essa si trova costretta ad uscire dalla tela ariostesca per non rientrarci necessariamente mai più. Dopo Medoro, non può esistere più Angelica[13]. Il miglior plettro invocato da Ariosto, appare quindi come qualcosa di destinato a non ascoltarsi mai.

Considerato quanto sopra, e nonostante l’indicazione del canto XXX fosse evidentemente giocosa, e ben inserita in quell’ironia sottile che porta Ariosto a continuare la pretesa di riscrivere l’antico manoscritto del vescovo Turpino[14], non si può dire che sia stata ignorata, subito dopo la morte del poeta ed anche nei secoli a venire, per giungere sino ad oggi.

Molti infatti sono gli esempi che si possono citare, già immediatamente successivi alla vita di Ariosto. A tal proposito, è possibile menzionare gli anonimi Dodici Canti provenienti dalla corte di Urbino[15], che mostrano una piuttosto vivace e spontanea ripresa dei temi ariosteschi, fin dal prologo e dalla dedica, collocandosi tuttavia in un punto imprecisato dell’epopea dell’Innamorato e del Furioso, in maniera non sempre coerente con l’evoluzione successiva degli eventi. È interessante notare che la composizione dell’opera, lasciata incompiuta dall’autore, è databile tra il 1534 e il 1538, in ragione degli eventi storici menzionati nel testo, e che essa quindi si colloca immediatamente a ridosso della pubblicazione dell’edizione definitiva del capolavoro ariostesco[16], che, nella sua versione rivista, stava già esercitando una notevole influenza poetica nelle varie corti italiane.

È possibile, inoltre, citare i poemi scherzosi di Pietro Aretino, che riprendono e dissacrano i personaggi del Furioso, senza mai avere la pretesa di trasformarsi in veri e propri poemi. Il poliedrico Aretino, con tono che sa passare con facilità dal serio al faceto, è infatti autore di diversi brevi poemetti dai significativi titoli di Astolfeida, Marfisa, Orlandino, e Angelica. In quest’ultimo, a titolo di esempio, riprenderà le vicende di Angelica e Medoro, accennando alla celebre chiusa ariostesca sull’argomento, affermando che lo sposo di Angelica «tosto risplenderà de la corona / del gran Catai»[17], riprendendo quindi, anche se a titolo scherzoso, la sfida del “miglior plettro”.

Un ulteriore tentativo non solo di ripresa della materia del Furioso tramite la prosecuzione di alcuni intrecci e di alcune storie dell’epopea, ma di vera e propria prosecuzione, si deve a Sigismondo Paolucci già nel 1543, con il suo Continuatione di Orlando Furioso, in cui l’autore afferma di voler raccogliere «le reliquie sparse / del mio dolce Ariosto»[18]. Si tratta del tentativo di un autore che non conobbe affatto una fortuna paragonabile ai suoi due illustri predecessori, ma che è cionondimeno significativo se si considera come, già negli anni appena seguenti alla pubblicazione della versione definitiva poema ariostesco, l’influenza della sua fama si era già sparsa, susicitando vari – e vani – tenativi di emulazione.

Nel 1562 assistiamo invece alla pubblicazione della prima prova poetica di un certo peso del diciottenne Torquato Tasso, con il suo Rinaldo come antefatto del Furioso e dell’Innamorato. Da questo punto di vista, l’opera giovanile del Tasso, che talora segue e più spesso si discosta dagli stilemi propri della generazione appena antecedente, con le loro stanze ariose e la loro ironia leggera, per adottare uno stile più grave e dolente, costituisce indubbiamente uno dei tentativi più originali di ripresa e rilettura dell’epica ariostesca, interpretata secondo una luce del tutto nuova e che, per certi aspetti, già anticipa il codice manieristico e la Gerusalemme Liberata. Nonostante le vistose differenze di stile e di narrazione, in cui campeggia l’abbandono del metodo narrativo ariostesco e boiardesco dell’intreccio in favore di una narrazione più lineare, e più in linea con quanto già sperimentato dal padre Bernardo con il suo Amadigi, il giovane Torquato mostra tuttavia di considerare il Furioso come un proprio modello, non fosse altro che per la ripresa fedele di personaggi già consacrati, in fatto di caratterizzazione, dall’Ariosto. Il giovane Tasso, nella chiusa del poema, non esita a raccogliere, anch’egli, la sfida di Ariosto alla posterità, pur optando per la narrazione di un antefatto e non di un prosieguo, arrivando ad ambire di porre il suo poema «tra quei de le cui lodi il mondo è pieno»[19].

Nei secoli successivi, l’attenzione per l’Ariosto non diminuisce, e non cessa di ispirare nuove generazioni di poeti ed artisti che, inseguendo quel miglior plettro, continueranno ad inserire nelle proprie opere dei rimandi agli intrecci cavallereschi, o, addirittura, si avventureranno nuovamente nell’ardua impresa di continuare la materia del Furioso con nuovi poemi. Questo è il caso, per esempio, dell’abate Gaetano Palombi e del suo postumo Medoro Coronato[20], come anche di diversi altri autori[21]. Il Palombi, a tal proposito,  riprende pedissequamente lo schema narrativo del poema ariostesco, pur difettando nel suo testo sia l’introspezione caratteriale dei personaggi sia la varietà delle situazioni e dell’intreccio, stante ad ogni modo un apprezzabile uso dell’ottava. Nel suo poema è interessante notare come il tema encomiastico, ripreso anche nella matafora del «ceppo» e del «ramo», si sviluppa a partire dal personaggio di Sacripante. Da notare, inoltre, che il titolo Medoro Incoronato[22] era già stato usato per una tragedia secentesca dedicata al Duca Francesco II d’Este, e che, poco più di un secolo dopo il Furioso, si proponeva anch’essa di continuarne la narazione raccogliendo la sfida del miglior plettro.

Ci troviamo, comunque, in contesti letterari del tutto diversi da quelli che, secoli prima, avevano ispirato il triste sognatore conte Boiardo e, poi, il cortigiano ribelle Ariosto nella corte estense, troppo diversi per poter produrre un seguito efficace a quella che si presenta ormai come un’epopea sì immortale, ma pur sempre figlia di un periodo unico e irripetibile[23]. Né, del resto, l’imitazione neoclassica di autori quali Trissino o Alamanni riuscirà a riportare in auge un modello poetico figlio di un preciso momento storico che dopo aver vissuto la sua favolosa stagione, inevitabilmente, si avviava verso il suo declino.

Se proprio per il mutato contesto sociale ed artistico l’idea di un seguito al Furioso non convince del tutto, più convincenti appaiono senza dubbio le riletture e le riscritture dell’epopea ariostesca, e tutte quelle opere che, anche al di là della poesia e della letteratura, disfano i fili dell’intreccio del poema per prenderne singole storie e personaggi, dando il via a nuove storie e a nuove opere. Non si tratta, in questo caso, di imitazioni o pedisseque riprese di stilemi ormai votati al tramonto, quanto piuttosto della rivisitazione e del riadattamento di storie, personaggi e singole vicende a nuovi e più attuali modelli espressivi, sino a trasformare la materia del Furioso in nuova materia “vivente” attraverso il gusto delle nuove epoche storiche, senza tuttavia tradirne lo spirito.

Tra le riscritture meritano una menzione anche le traduzioni dell’opera, che, come sempre nel caso della poesia, necessitano, per essere condotte a compimento, di veri poeti. Numerose, infatti, sono quelle che, a partire dallo stesso Cinquecento e nei secoli successivi, vedono l’opera ariostesca trasposta in spagnolo[24], francese, tedesco, e inglese, e in molte altre lingue. In considerazione della maggiore affinità dell’originale italiano con le lingue romanze, particolarmente interessanti appaiono le versioni in spagnolo, che si sostanziano in vere e proprie riscritture poetiche rispettose della forma metrica e dell’andamento del testo, e in francese[25], anche se altrettanto interessanti appaiono le versioni inglese[26] e, cosa che maggiormente riguarda questa sede, tedesca[27].

Proprio in Germania, il Furioso ebbe una fortuna particolare, anche al di là del campo della poesia e delle traduzioni. Si pensi, per esempio, alla musica, ambito nel quale l’epopea ariostesca, con i suoi personaggi intenti ad inseguirsi e a rincorrersi, con i suoi amori tristi e con le sue fortune vicendevoli, costituì un’irresistibile ispirazione. Già nel 1727 era andato in scena a Venezia il dramma musicale Orlando, composto da Antonio Vivaldi, che ispirerà pochi anni dopo altre opere tratte dai personaggi del poema, ad opera di compositori tedeschi. A tal proposito, è possibile ricordare le opere di Georg Friedrich Händel[28], che più di ogni altro compositore tedesco trarrà ispirazione del poema ariostesco, trasponendo in musica diversi suoi episodi e rileggendo alla luce della sua arte gli intricati passaggi del mondo cavalleresco con tutti i suoi personaggi. È il caso di menzionare Orlando, del 1733, Ariodante, del 1734, e Alcina, del 1735, tutte composte da Händel ed ispirate a vari episodi del poema. Vale la pena di menzionare anche l’Orlando Paladino di Franz Joseph Haydn, del 1782. Successivamente, nel 1801, verrà per la prima volta rappresentato a Trieste un ulteriore spettacolo ispirato al poema, ossia il dramma eroico del compositore tedesco Simon Mayr, la Ginevra di Scozia, basato su uno degli episodi del Furioso già ripreso nel citato Ariodante di Händel.

Nonostante i secoli trascorsi, anche la nostra contemporaneità non ha smesso di considerare la poesia ariostesca una fonte di ispirazione. Con l’inesorabile tramonto dei grandi cicli epico – cavallereschi, e del poema come allora inteso più in generale, era ormai evidente che il Furioso e il suo immaginifico mondo avrebbero potuto sì influenzare la cultura europea di oggi, anche e soprattutto popolare, ma attraverso nuove forme e nuovi modi di narrare.

Come già visto per la musica, il grande palcoscenico ariostesco è così destinato a prendere vita, nella modernità e nella contemporaneità, in forme nuove e inaspettate, talvolta sorprendenti. Singoli episodi e singoli personaggi vengono così vivificati e reinterpretati da opere di arte visuale, di musica, da racconti e dal teatro.

Per quanto riguarda le interpretazioni del Furioso, il pensiero non può non correre alla versione riletta e commentata di Italo Calvino[29], che, con un linguaggio schietto e contemporanea ma pur sempre elegante ed evocativo, porta la vasta materia del poema ai lettori di oggi, rendendola accessibile e stimolando l’interesse per un “atlante della natura umana[30] che, per le sue stesse caratteristiche, rimane sempre attuale. Sempre Calvino, aveva altresì già ripreso nel suo Cavaliere Inesistente[31] i personaggi del Furioso, muovendosi destramente tra le complesse genealogie degli eroi fin troppo umani dell’Ariosto, e reinventando una seppur breve attualizzazione del racconto, anche se secondo percorsi diversi. E lo stesso Calvino, ancora una volta, riprenderà nuovamente il tema della pazzia di Orlando nel Castello dei destini incrociati[32], a riprova della duratura influenza delle trame ariostesche sulla sua produzione letteraria.

Non è possibile non pensare, ancora, alla tradizionale Opera dei pupi siciliani, dichiarato dall’UNESCO patrimonio immateriale dell’umanità, che, pur riprendendo i classici personaggi del ciclo carolingio di antica tradizione, si rifà spesso agli intrecci e alle vicende dell’epopea ariostesca, rivisitandoli e adattandoli alla tradizione del folklore locale. Dopo secoli da quel lontano 1532, e al netto delle influenze precedenti come quella della Chanson de Roland e di altri poemi, le vicende del Furioso continuano a parlarci attraverso questa particolarissima forma di espressione teatrale, che, sullo scenario degli scontri tra cristiani e pagani, fanno rivivere le mille vicende del poema, tramandandone in tal modo la memoria alle generazioni future [33].

Una versione visuale più moderna, se vogliamo, ed al contempo sognatrice e visionaria, è costituita dalla messa in scena teatrale del 1969, ripresa successivamente per la televisione nel 1975, ad opera di Luca Ronconi, che riesce nell’impresa pressochè impossibile di adattare l’immensa tela del poema al palcoscenico[34]. Lo spettacolo di Ronconi, in particolare, rivela un interesse mai sopito della cultura contemporanea europea per il grande universo ariostesco, e lo fa con lo strumento più improbabile, e allo stesso tempo più originale: se infatti la vastità dello spaccato che Ariosto ci offre e la complessità degli intrecci non hanno mai veramente consentito di concepire una efficace trasposizione teatrale, televisiva o cinematografica, Ronconi riesce nell’impresa di rivisitare il classico poema uscendo dagli schemi teatrali sino a quel momento consolidati, creando un lavoro unico nel suo genere, immerso in atmosfere sognanti e nostalgiche, secondo ritmi variabili che ben si adattano al carattere vorticoso delle storie del poema, offerta ad uno smaliziato occhio contemporaneo.[35]

Il mondo di Ariosto, in conclusione, nonostante sia nato e si sia sviluppato in un preciso contesto storico–letterario, acquista una dimensione sempre attuale proprio in ragione della sua varietà, della sua versatilità, e della sua capacità di individuare il terreno di scontro, il campo di battaglia, non tanto e non solo nella contrapposizione militare tra cristiani e pagani, come era stato per la Chanson o per la Spagna, ma nella stessa natura umana, con i suoi vizi e le sue virtù, che cambia sempre ma resta sempre uguale a se stessa.

 

Pubblicato il 18 luglio 2019

 

Note

 

[1] In realtà l’ultima ottava del poema riporta che l’autore sarebbe un certo Sostegno di Zanobi, fiorentino, di cui comunque non si saprebbe nulla. L’attribuzione è comunque incerta e tale indicazione non compare in tutti i manoscritti, ragion per cui sovente il poema è riportato come opera di un anonimo.

[2] Sulle fonti del Furioso si veda l’ormai classico testo di Pio Rajna, Le fonti dell’Orlando Furioso. Ricerche e studi, G. C. Sansoni editore, Firenze 1900.

[3] Mentre il Boiardo lirico, nei suoi Amorum Libri, si mostra alla costante ricerca di una lingua maggiormente aderente al modello toscano, nell’Innamorato si abbandona ad una più genuina espressione padano–emiliana, che, pur costituendo una sua ricchezza e peculiarità, ne costituisce anche evidentemente un limite di diffusione. Come osserva Bigi, si tratta di “somiglianza col discorso parlato, sintassi analitica, uso di una lingua ibrida e dialettale non ancora letterariamente consacrata, metafore e similitudini tratte dalla vita comune”: cfr. Emilio Bigi, La poesia del Boiardo, C. G. Sansoni editore, Firenze 1941, p. 144.

[4] Poco conosciuta oggi è la “giunta” fatta all’Innamorato da parte di Niccolò degli Agostini, che pur non manca di spunti interessanti, sebbene in tutto surclassata dal Furioso ariostesco, pubblicata insieme ai tre libri dell’Innamorato in Orlando innamorato del Signor Mateo Maria Boiardo Conte di Scandiano, insieme co i tre libri di Nicolo degli Agostini, per Comin da Trino di Monferrato, Venezia 1560. Sul rapporto tra i libri dell’Innamorato composti da Niccolò degli Agostini e il Furioso, secondo un interessante parallelismo Agostini/Ariosto e Avellaneda/Cervantes, si veda Angela Matilde Capodivacca, “Forsi altro canterà con miglior plectio”: l'innamoramento di Angelica in Ariosto e Niccolò degli Agostini, in Versants. Rivista svizzera delle letterature romanze, n. 59, Fascicolo italiano. L'Orlando Furioso e la tradizione cavalleresca, a cura di Annalisa Izzo, Berna 2012, pp. 67 – 84. Altrettanto poco conosciuta è la continuazione dell’Innamorato condotta dall’anonimo dell’Inamoramento de Rinaldo di Montalbano, per Giovanni Angelo Scinzenzeler, Milano 1501.

[5] Il Furioso si presenta infatti come un testo «del tutto “depadanizzato” anzi “toscanizzato”, a dimostrare che la nuova letteratura ora “fiorentinizzata” poteva svilupparsi liberamente indipendentemente da Firenze»: cfr. Giuseppe Anceschi, Corti e cortigiani. Arte di governo e buone maniere nella vita di corte, Interlinea, Novara 2005, p. 63. Per un approfondimento sulla lingua dell’Ariosto, con l’analisi delle tre edizioni del Furioso da un punto di vista linguistico, si veda Bruno Migliorini, Sulla lingua dell'Ariosto, in Italica, vol. XXIII, n. 3, Bloomington, settembre 1946, pp. 152 - 160.

[6] Il riferimento è alla celebre terzina “Poca favilla gran fiamma seconda: / forse di retro a me con miglior voci / si pregherà perché Cirra risponda”, in Paradiso, I, 34 - 36.

[7] Del resto, Orazio in fatto di citazioni è pur sempre una presenza costante nel Furioso. Cfr. sul punto Rosanna Alhaique Pettinelli, “Ma grandemente commendava Orazio […]”. Presenza oraziana nel Furioso, in Forme e percorsi dei romanzi di cavalleria da Boiardo a Brusantino, Bulzoni editore, Roma, 2004, pp. 19-44.

[8] Furioso, 1532, XXX, 16, viii. Da notare che il verso è ripreso, sebbene con diversa lezione, quale citazione finale della prima edizione del Don Quixote di Miguel de Servantes Saavedra, pubblicata nel 1605, ed anche, con tanto di spiegazione aggiuntiva, nel secondo volume.

[9] Angelica, se vogliamo, rappresenta il vero momento di rottura con la tradizione poetica precedente, ed è sempre la donna che, dal primo canto del primo libro dell’Innamorato, innesca una serie di eventi che condurranno non solo al propagarsi delle varie linee d’azione della trama che si comporranno definitivamente – o quasi – solo con il Furioso, ma anche allo scardinamento di un ordine poetico–cavalleresco per il suo superamento nel nuopvo e unico genere letterario che emergerà i due poemi. L’azione rivoluzionaria di Angelica, da questo punto di vista, inerisce sia al piano interno del racconto, sia a quello esterno della concezione dell’epica cavalleresca. Si noti a tal proposito che «come già in Boiardo, è angelica d’aspetto, ma è lontana dalle donne angelo della tradizione lirica. Beatrice conduceva alla salvezza, Laura induceva Petrarca al peccato, ma in morte lo guida alla virtù, Angelica sconvolge l’ordine sociale e mentale, e porta Orlando alla pazzia, cioè alla punizione divina»: cfr. Romano Luperini, La scrittura e l'interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea, Palumbo, Palermo 1998, p. 183.

[10] Due, a titolo di esempio, sono le vicende non risolte nel poema: la prima, e più ovvia, è la morte di Orlando nella rotta di Roncisvalle, fin troppo nota perché vi fosse un effettivo bisogno di menzionarla, e che comunque ricorre nel testo; la seconda, dopo la futura morte di Ruggero, la vendetta contro i maganzesi ad opera di Bradamante, che «con la cognata forte / distruggerà Pontieri a ferro e a fuoco» (Furioso (1532), XLI, 66, v – vi), secondo una profezia che si colloca nell’ambito della funzione encomiastica del poema e della discendenza della casa di Este dai figli di Ruggero.

[11] Una funzione particolare acquistano qui i frammenti del Rinaldo Ardito, immediatamente posteriore al Furioso, la cui paternità è discussa e, per ragioni linguistiche, non è necessariamente ascrivibile allo stesso Ariosto come invece è indicato sulle edizioni ottocentesche. Tali frammenti lacunosi sembrano indicare l’inizio di un nuovo poema in continuazione del Furioso, lasciato tuttavia incompiuto, che comunque non mostra la completezza e l’organicità dei Cinque Canti. Per una difesa dell’autenticità del testo si veda la Prefazione a Rinaldo Ardito di Lodovico Ariosto, tipografia Piatti, Firenze 1846, pp. v–xxiv.

[12] La vastità degli intrecci, che conducono il lettore ad immergersi in un mondo sconfinato, non può essere risolto nel poema ariostesco, che, se conduce a compimento alcuni racconti, come quello di Angelica o della pazzia di Orlando, ne apre altri lasciandoli incompiuti, in un affresco che deve rimanere, per sua propria costituzione, aperto, anche mediante la decisione del poeta di non includerci la giunta dei Cinque Canti.

[13] Angelica, infatti, rappresenta il primo motore dell’azione proprio in quanto sfuggente oggetto dei desideri impossibili dei suoi inseguitori, e solo in questa dimensione può assolvere al suo ruolo narratologico. Non è un caso, infatti, che sia proprio sul suo arrivo prima e sulla sua fuga poi che si aprono rispettivamente l’Innamorato e il Furioso. Si noti a tal proposito che «all'inizio del poema ariostesco, Angelica che fugge nella selva ci trascina subito in un mondo dove tutti agiscono in stati di incantamento o di fissazione prodotti dal gioco della sorte»: cfr. Gianni Celati, Angelica che fugge. Una lettura dell’Orlando Furioso, in Griseldaonline, n. 3, 2003-2004 (https://site.unibo.it/griseldaonline/it/gianni-celati/gianni-celati-angelica-fugge-lettura-orlando-furioso). Per un’approfondita trattazione del ruolo di Angelica nel Furioso si veda Mario Santoro, L'Angelica del Furioso. Fuga dalla storia, in Esperienze letterarie. Rivista trimestrale di critica e di cultura , A. 3, n. 3, Pisa–Roma, luglio–settembre 1978, pp. 3-28.

[14] Anche l’idea di basarsi su di un racconto antico, che Ariosto eredita da Boiardo e da altri prima di lui, secondo la consolidata tradizione che vedeva Turpino vescovo di Reims quale cronachista di Carlo Magno e fonte fittizia di poemi e romanzi cavallereschi, sarà destinata ad essere ereditata come topos da molti autori, passando dal Manzoni dei Promessi Sposi e giungendo fino ad Umberto Eco con il suo Il Nome della Rosa.

[15] Sull’autore misterioso dei Dodici Canti si veda Ferdinand Castets, I Dodici Canti, in Revue des langues romanes, Société pour l'étude des langues romanes, Montpellier 1898. L’ipotesi di Castets sulla possibile identità tra l’autore dell’opera e Luigi Alamanni appare tuttavia poco convincente.

[16] L’incipit del poema mostra chiaramente l’influenza dell’esordio del Furioso nella sua versione definitiva del 1532, e non viceversa, nella lezione del primo verso delle due versioni precedenti.

[17] Pietro Aretino, D’Angelica di M. Pietro Aretino. Due primni canti, per Bernardino de Vitali, Venezia, senza data, I, 32, iii–iv.

[18] Sigismondo Filogenio Paolucci, Continuatione di Orlando Furioso, con la morte di Ruggiero, per Gioann'Antonio e Pietro fratelli, di Nicolini da Sabio, senza luogo 1543, I, 3, i-ii. Da notare come il testo presenti, insieme alla dedica a Francesco Gonzaga, una lettera introduttiva dello stesso Pietro Aretino.

[19] Torquato Tasso, Rinaldo, XII, 92, v. 8. Edizione di riferimento: Opere di Torquato Tasso, vol. II, a cura di Bortolo Tommaso Sozzi, UTET, Torino 1956.

[20] Gaetano Palombi, Il Medoro Coronato. Opera postuma dell'Abate Gaetano Palombi in continuazione dell'Orlando Furioso dell'immortale Ariosto, Tipografia Olivieri, Roma 1818.

[21] Per un elenco di vari poemi cavallereschi che riprendono la materia e i personaggi del Furioso, talora in chiave epica e talora in chiave farsesca, si consulti Giulio Ferrario, Bibliografia dei romanzi e dei poemi romanzeschi d’Italia, in appendice a Storia ed analisi degli antichi romanzi di cavalleria e dei poemi romanzeschi d’Italia, tipografia dell’autore, Milano 1829.

[22] Conte Prospero Bonarelli della Rovere, Il Medoro Incoronato, tipografo Francesco Moneta, Roma 1652.

[23] Cfr. Albert N. Mancini, I capitoli letterari di Francesco Bolognetti. Tempi e modi della letteratura epica fra l'Ariosto e il Tasso, Federico & Ardia, Napoli 1989, p. 135.

[24] Per quanto riguarda le traduzioni spagnole, si veda Amos Parducci, Note sulle traduzioni spagnole dell’Orlando Furioso, in Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere, Storia e Filosofia, serie II, vol. 4, n. 4, Pisa 1935, pp. 313-325.

[25] Le traduzioni francesi in versi sono molto posteriori rispetto a quelle in spagnolo. Si vedano a tal proposito quelle di Michel Orcel,  Roland Furieux, 2 vol., Seuil, Parigi 2000, e di André Rochon, Roland Furieux, 4 vol., Les Belles Lettres, Parigi 1998–2002.

[26] Nonostante le difficoltà di adattamento linguistico, numerose sono state le traduzioni poetiche inglesi, a partire da quella di Sir John Harington del 1591. Rimarchevole è la traduzione in otto volumi di William Stewart Rose, pubblicata tra il 1823 e il 1831. Si veda sul punto Lucetta J. Teagarden, Theory and practice in English versions of “Orlando Furioso”, in The University of Texas Studies in English, vol. 34, Austin 1955, pp. 18–34. 

[27] Per quanto riguarda le traduzioni tedesche, si vedano gli approfondimenti degli altri autori del presente testo. Basti ricordare, a tal proposito, che la prima edizione del Furioso tradotta in tedesco venne pubblicata già nel 1636 a Lipsia. Da ricordare anche la traduzione in versi uscita tra il 1819 e il 1825 ad opera di Karl Streckfuß, autore anche di una Gerusalemme Liberata.

[28] Sul rapporto tra la letteratura di Ariosto e le opere di Händel, si veda Franziska Bolli-Zwahlen, Alcina. Zauberoper von Georg Friedrich Händel. Dramaturgie der Entmachtung, Konstanzer Online-Publikations-System, Costanza 2010, pp. 27 – 37.

[29] Italo Calvino, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Einaudi, Milano 1970.

[30] La felice definizione è di Segre: «Quasi un atlante della natura umana, il Furioso; o piuttosto il culmine della scoperta dell’uomo (nella sua libertà e nelle sue determinazioni casuali), portata a conclusione dal pensiero filosofico e politico del Rinascimento»: cfr. Cesare Segre, Introduzione a L. Ariosto, Orlando Furioso, Mondadori, Milano 2008, p. xxi.

[31] Italo Calvino, Il Cavaliere Inesistente (1959), in I nostri antenati, Einaudi, Milano 1960.

[32] Id., Il castello dei destini incrociati, in Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, Franco Maria Ricci editore, Milano 1969.

[33] Nelle parole di Calvino, «nell'Italia meridionale questa fortuna popolare continuò fino ai nostri giorni coi cantastorie a Napoli (almeno fino al secolo scorso), col Teatro dei Pupi in Sicilia (che ancor oggi sopravvive) e con le pitture sulle fiancate dei carretti siciliani. Il repertorio del Teatro dei Pupi, che attingeva ai cantari, ai  poemi cinquecenteschi e a compilazioni ottocentesche, comprendeva storie cicliche che venivano rappresentate a puntate, e continuavano per mesi e mesi, fino a uno anno e più»: cfr. Italo Calvino, nella prefazione all’edizione di Orlando Furioso, vol. I, a cura di Lanfranco Caretti, Einaudi, Milano 1966, p. xxix.

[34] Per un’edizione accompagnata da scritti di Ronconi e Sanguineti, autori della sceneggiatura dello spettacolo, si vedano Luca Ronconi, Edoardo Sanguineti, Orlando Furioso di Luca Ronconi e Edoardo Sanguineti, Rizzoli, Milano 2012.

[35] Si consideri a tal proposito che «coniugando ironia e straniamento Ronconi enfatizza l’elemento favoloso e fantastico del poema, accentuando la dimensione magica, rincorrendo la partecipazione del pubblico chiamato a confrontarsi con un attacco alle tradizionali logiche narrative ed espositive, scardinate dalle audaci soluzioni espressive del regista. (...) I personaggi risultano figure irreali calate in una dimensione evocativa e favolistica, tra sperimentazione e recupero della grande tradizione figurativa rinascimentale»: cfr. Aldo Grasso, Radio e televisione. Teorie, analisi, storie, esercizi, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 122.