Gianni Celati - Dieci lettere a Daniele Benati (1993-1998)

1.


Brighton aprile 1993

Caro Daniele,

bene! questa tua lettera è importante! perché ci deve essere qualcosa nell’aria, nel famoso Zeit Geist, in quanto negli ultimi mesi – dopo il mio tracollo (dentro di me) per avere fatto quel libro che non volevo, il primo che non volevo, Narratori delle riserve, [1] e dunque essermi messo in una grossa difficoltà col mio dentro e col mio fuori – negli ultimi mesi rimugino e giro attorno a domande e questioni come quelle che descrivi nella tua lettera.

Certo, qualcosa deve esserci, qualcosa si deve fare, per uscire dall’incanto giovanile: che sarebbe poi sempre una certa comodità con se stessi, la comodità di potersi pensare individui dissociati dal generale corso della vita, semplicemente perché siamo noi! E questo porta con sé anche tutto un genere di sentimentalità e di mollezza, con se stessi prima che con gli altri, che ti dispone a voler essere sempre sedotto da tutto ciò che ti lascia tale e quale. Così io credo che lo scrivere possa essere anche una disciplina di rafforzamento, antisentimentale e antimollezza: perché il nostro lavoro è di vedere in avanti dove porta una scintilla del senso (meaning, Meinung), avanti diciamo tra dieci o vent’anni, avanti rispetto alla vita morta o pensionaria o ospedaliera che vorrebbe dare il senso come scontato. Per questo sforzo di vedere la scintilla in avanti, al di là di tutte queste ceneri e spegnimenti che attraversiamo come un campo di battaglia, per questo sforzo bisogna in effetti seppellire il nostro io giovanile, che ci gratifica tanto anche da vecchi! E bisogna pensare che si deve morire, acconsentire a morire un poco per trovare quella scintilla di senso in avanti, e acconsentire anche alla nostra morte definitiva rinunciando al famoso lamento.

Sento che adesso qualcosa sta cambiando, e anche se ognuno di noi rimane sempre quello che era in partenza, è nel mettersi in questa sensazione di necessario cambiamento – nel mettersi cioè in unasituazione radicale – che si può pensare di trovare un po’ di senso in avanti. C’è tutto da ripensare, niente di cui pentirsi; riprendere quella via della narrazione, che è l’unica dei narratori non ospedalieri: la via radicale di chi è gettato nel mondo in povertà e solitudine, e deve ripensare tutto per conto suo, deve rivedere tutte le memorie con i suoi occhi, per trovare il senso di un posto dove sentirsi un po’ come a casa.

Voglio dire che è nel sentirsi stranieri, e stranieri ormai a qualunque luogo, che sta il sentimento e la necessità di trovare la scintilla di senso in avanti. Chi non si sente straniero non ne ha bisogno; chi crede di essere davvero padrone di un luogo non ha bisogno di queste risorse radicali per ripensare e rivedere tutto per conto proprio – va avanti con le generalità e basta.

Sabato prossimo (10 maggio) torno in Italia, e mi voglio mettere a lavorare sodo, in solitudine, per almeno un mese. La storia di venire al posto tuo a Cork[2] era solo una fantasia momentanea dettata dall’attuale carenza di soldi. Ma tutto si supera, bisogna lavorare molto. Ho finito la traduzione di Gulliver. [3] Dimmi quando torni, scrivimi in Italia.

Un abbraccio
Gianni

 

2.


Brighton 22 aprile 1993

Caro Daniele,

oggi ho riascoltato le prime canzoni di Bob Dylan, ed erano così convincenti, così belle e piene di pensiero, così immaginative e al tempo stesso contenute, compatte, chiuse in sé – che mi sembrano quasi un miracolo. E allora ho pensato come, per noi che cerchiamo di scrivere, e di scrivere con una voce che non sia quel modo standard di fare i toni secondo le regole, ma invece di scrivere con un tono che sia nativo e non forzato – ho pensato che straordinaria lezione di voce e di toni siano le parole di Bob Dylan.

E poi anche le storie nascoste, gli sfondi accennati, i personaggi: non è sempre una immaginativa di campagna, cioè campagnola e poi questo aprire ai grandi spazi, con le figure del giorno campagnole (la strada, il gallo, il vento, il fiume, la casa isolata), che fanno immaginare lo spazio e il tempo meglio delle figure di città. O almeno, è come il luogo dove tutto nello spazio e nel tempo ha un gusto di cosa singolare, unica, non in serie – e questo gusto è il gusto fondamentale campagnolo di quelle canzoni: il gusto della solitudine assoluta.

Mi sembra che noi possiamo imparare da Bob Dylan anche a tenere questo strano equilibrio tra la cosa immaginativa e quasi pazza, comunque strampalata nel modo in cui presenta le cose a ruota libera, e poi invece la compattezza del testo e del racconto dove tutto si raccoglie attorno a poche note chiave. Sì, io penso alla narrativa solo così (è forse il mio limite): come una cosa che si canta, e il racconto come un modo di cantare dei luoghi o delle figure che ti stanno a cuore.

Caro Daniele, ti volevo comunicare questi pensieri su Bob Dylan. Spero che tu riprendi il lavoro, e che riesci col tempo a portare a termine in modo soddisfacente il tuo libro. [4] Quando torni dobbiamo farci delle letture e darci degli incoraggiamenti a vicenda.

Per ora un abbraccio

Gianni

P.S. Quando avrai deciso se resti in Irlanda l’anno prossimo o no, fammi sapere. Io torno in Italia il 10 o 19 maggio. Volevo dirti che se lì, quando tu non ci sei più, volessero un tuo sostituto temporaneo – beh, ci sono io (devo trovare del lavoro, qui o in America, perché le cose finanziariamente vanno malissimo). Ne riparleremo.

 

3.


Brighton 22 aprile 1993[5]

Caro Daniele,

la reazione di Belpoliti a Reggio Emilia è che bisogna assolutamente fare questo giornale o almanacco letterario [6] nostro, indipendente, e meno noioso degli altri sul mercato. Di questo parleremo al tuo ritorno, per intanto io butterò giù il progetto e cercherò di trovare un finanziamento. La tua partecipazione sarebbe necessaria ed essenziale – l’ha detto anche Belpoliti!

Adesso un’altra cosa, che riguarda il tuo libro. Sto rileggendoL’Acacia di Claude Simon [7] e mi colpisce molto la struttura temporale, che forse potrebbe risolvere alcune questioni nel tuo libro (la questione della progressione, che lì per ora manca). Simon cosa fa? Dunque è un libro dove si mette a confronto il destino di due o tregenerazioni, legato alla guerra: il padre morto ai confini delle Fiandre, come ufficiale di cavalleria – il figlio che anche lui nella successiva guerra diventa ufficiale di cavalleria e va a combattere ai confini delle Fiandre. Il libro è organizzato per capitoli che sembrano andare ognuno per conto suo, e solo quando arrivi molto avanti cominci ad avere una visione globale della vicenda – e solo alla fine hai il senso di orientarti in tutta questa storia. Ti elenco alcuni capitoli, così capisci:

1 I – 1919 (Sulla madre che va in cerca del padre morto)

2 II – 17 mai 1940 (Sul figlio prima della battaglia)

3 III – 27 août 1914 (Sulla storia del padre)

4 IV – 17 mai 1940 (Il figlio dopo la battaglia)

5 V – 1880-1914 (La storia del padre e della madre)

6 VI – 27 août 1936 (Un viaggio del figlio in Russia prima della guerra)

Etc. Insomma, così ottieni che la faccenda della progressione narrativa sia demandata interamente al lettore, che deve mettere ordine nei fatti raccontati. Nello stesso tempo i vari episodi hanno sempre l’aria di appunti su un momento, non panoramici ma scenici, cioè dove tutto è molto focalizzato. E si leggono i vari episodi come racconti autonomi, salvo poi ricostruire un quadro più vasto man mano che si va avanti. Il che suggerisce, tra l’altro, al lettore la necessità di uno sguardo ampio che tenga conto di tutto allo stesso tempo: cioè epico, nel senso che tutto è investito d’un più lungo respiro. Io credo che la vecchia storia della narrativa che deve aumentare progressivamente l’attenzione del lettore, andando diciamo da A a B e da B a C (come in tutti i romanzi) sia sempre una narrativa un po’ meschina. Non volevo suggerirti di fare come Claude Simon: ma volevo indicarti che, se la mancanza d’una progressione (come nel suo libro) è una cosa che si sente e deprime l’estro di lettura, la progressione vera e propria poi (da A a B etc.) è sempre una cosa un po’ mediocre – perché lascia immaginare poco.

Dobbiamo cercare altri modi di organizzare le narrazioni (in Narratori delle pianure e Verso la foce io ho adottato l’organizzazione spaziale, invece di quella temporale). E questo è un punto da studiare e risolvere, per fare qualcosa di diverso dai cosiddetti “nuovi narratori”. Se noti, la questione posta da Claude Simon è quella del gioco a incastri tra i vari episodi, dove l’incastro collega punti diversissimi, e non solo due punti d’una linea – (Es è anche la questione che viene fuori da Perec, La vie mode d’emploi, [8] dove l’incastro tra i vari episodi è dato come criterio del puzzle).

Insomma, c’è da lavorare in questa direzione, che secondo me è la direzione epica – quella dello sguardo ampio e del lungo respiro, al di là delle psicologie del realismo. Questo è un resoconto di alcuni pensieri che ho fatto e che forse ti possono interessare – perché il problema del tuo libro è, secondo me, un problema di costruzione. La vecchia domanda: come faccio a tenere assieme tutto questo?

A parte ciò, io credo che se rilavori pezzo per pezzo, in modo che ogni pezzo si possa reggere autonomamente per sue virtù ritmiche o narrative (come, a quanto pare, quelli che hai letto a Reggio Emilia), dopo trovare l’incastro generale ti verrà molto facile.

Io credo che per ogni libro o racconto che si scrive si debba fare dentro di sé tutto un percorso che è come andare in psicanalisi – o meglio, è come compiere una completa elaborazione del lutto; come succede quando un amore ti va male, o quando ti muore qualcuno. Perché forse noi riconosciamo il senso dei libri non tanto dal loro contenuto specifico, ma da quanto ci hanno cambiato, ossia dalle esperienze a cui ci hanno esposti. Se un libro non ti cambia neanche un po’, se un racconto non ti cambia neanche un pensiero, vuol dire (secondo me) che è fasullo – quando scriviamo qualcosa di buono è l’esperienza del turbamento, dell’inquietudine massima e disperata, l’esperienza del limite della nostra identità, la vera prova che il nostro lavoro va bene – e dà sollievo.

Così, io spero molto che ti rimetti a scrivere e che un giorno o l’altro vieni fuori con una narrazione che ci dia a tutti un po’ di sollievo.

Un abbraccio

Gianni

 

4.


2 settembre 1993

Caro Daniele,

al telefono mi dicevi che forse non hai qualcosa nel carattere, per scrivere, come una mancanza congenita. Ebbene, dico io, perché poi si scrive se non a causa di simili mancanze, e simili inadeguatezze? E non già perché chi scrive sia un essere umano inadeguato a differenza degli esseri umani ben adeguati e pratici (è l’idea popolare del poeta), ma perché questa inadeguatezza all’esperienza – questo sbaglio nel carattere, quale che sia – è il fondamento stesso dell’essere al mondo per gli umani. Ossia: non possiamo mai coincidere con noi stessi, non possiamo mai coincidere con quello che dovremmo e vorremmo essere, e questa coincidenza avviene solo nella forma dell’identità morta – quella del cimitero, del passaporto, delle qualifiche istituzionali.

Perciò, mi sembra, proprio là dove questa inadeguatezza, questa non coincidenza con noi stessi diventa la nostra tortura, là (forse) abbiamo trovato la nostra disciplina. Nel senso che la disciplina è questa tortura, scrivere è questa tortura che mostra ogni momento l’impossibilità radicale di scrivere – simile a quella impossibilità radicale di “rappresentare una testa”, su cui si è torturato per tanti anni Giacometti.

Solo gli uomini istituzionali, quelli che vogliono e debbono riportare tutto ad una identità istituzionale, possono pensare allo scrivere come “gioco”, “passatempo”, “finzione”. Non vedono che ogni disciplina è una tortura, e che la nostra infelicità di esseri destinati a questa perpetua autotortura è anche la risorsa per momenti in cui “ci si sente fuori di galera”.

Mi sembrano così rari questi momenti in cui ci si sente fuori di galera, cioè invasi da quella specie di disperazione al rovescio che è la gioia, che di per sé valgono tutte le torture, forse. O forse non possiamo farci niente, l’ordine rituale che ci guida prevede tutto questo, e nell’infelicità d’ogni giorno possiamo solo sperare di non diventare una IDENTITÀ ISTITUZIONALE, ma di mantenere la non coincidenza con noi stessi da cui vengono tutti gli imprevisti.

Perciò scrivi, ti prego
Gianni

 

5.


Brighton 1994

Caro Daniele,

durante la telefonata mi sono dimenticato di chiederti se, in momenti di poca vena, te la sentiresti di ri-tradurre quel racconto di Ring Lardner. [9] Ce l’hai il testo inglese o devo mandarlo? Poi mi è venuto in mente questo: che quello là che va a Stoccarda a prendere il premio, si accorge chedappertutto è Stoccarda, e che tutti sono come lui in viaggio per prendere quel premio – e che tutto è insomma ripetizione dell’identico. [10]

Naturalmente si può pensare che, poniamo, uno che invece va a fare un’altra cosa a Bologna, se muore si troverà in una diversa ripetizione dell’identico, dove dappertutto è Bologna e tutti vanno a fare la sua stessa cosa. E questo mi sembra anche un procedimento immaginativo per vedere, al di là dello schermo della morte, cosa sia l’illusione che ognuno di noi si porta dietro per tutta la vita: cioè l’illusione di essere un essere unico, non intercambiabile, e in qualche modo l’ombelico del mondo. Vista al rovescio, cioè al di là dello schermo della morte, questa illusione diventa precisamente l’esperienza del meccanico a Stoccarda: cioè che tutti sono identici a lui, tutti stanno andando a prendere un premio, e dappertutto è Stoccarda.

Come raccontarlo poi non so, ma nel racconto della bocciofila [11] hai imparato a giostrare con i sintomi, le immagini, le sorprese del nulla, e penso che ce la farai. Ricorda quella idea indiana che c’è nelle Upanishad: per educare qualcuno bisognerebbe fargli passare davanti tutti gli uomini vivi o morti, e per ognuno ripetergli: “Questo sei tu!”. Nel senso che ognuno di noi è tutta la rappresentazione del mondo, e proprio per questo non riusciamo a vedere che c’è la ripetizione dell’identico in noi.

Ecco un po’ di idee per la tua fucina (se possono aiutare il pistone!)
Gianni

 

6.


Brighton 25 febbraio 1995

Caro Daniele,

la tua lettera mi fa ridere come i tuoi racconti, e questo mi sembra un ottimo segno che vai bene. Ho trovato in Swift questo motto latino: CURIS ACUUNT MORTALIA CORDA. Il cuore dei mortali è stimolato dagli affanni. E poi la sua parafrasi: Without this State of Imperfection where God placed things, life would stagnate. [12]

E in realtà la tua vita a Reggio Emilia stagnava, anche se avevi dei grattacapi. Gli Americani sono Americani, cosa vuoi farci? Io spero però che ti aggiusti presto e che ti torni la bellissima vena narrativa dell’altra estate. Tu per me hai scritto le uniche cose leggibili nel panorama italiano di questi anni, le uniche che mi tocchino un po’, e non soltanto perché siamo amici. Credo di non sbagliarmi. Ma non perderti nelle inutili incazzature.

Sento molto la tua mancanza nei nostri raduni italiani, anche se stavi sempre zitto. Sento anche la tua mancanza quando scribacchio qualcosa, perché mi piacerebbe leggertelo. Comunque anche se sei laggiù pensa a tutta questa baracca che stiamo mettendo in piedi, se Feltrinelli licet. [13] Io adesso da solo, solissimo, a Brighton, ho dovuto fare dei lavori massacranti (riscritte 600 pagine di Céline, finite le note brigosissime al Gulliver, [14] ma ancora non sono capace di scrivere la prefazione, ho un blocco cervicale). [15] Ma stare da solo mi ritempra, credo, e spesso ho un senso di appagamento delle mie giornate.

Pensa che dieci giorni fa credevo proprio di venire dalle tue parti, perché Tony Oldcorn[16] mi aveva proposto di insegnare per il team autunnale a Providence. Già mi vedevo che ci saremmo visti moltissimo, c’è un’ora di macchina da Providence a Boston. Invece poi è arrivata la notizia che avevano bisogno d’un fottuto prof. dell’Università di Bologna, dunque niente!

Ho voglia di venire dalle tue parti, ma non so né come né quando. Adesso le mie finanze sono sotto zero […. E così tiro avanti fino a maggio, quando andrò a insegnare a Reggio Emilia, all’università del progetto [17] – ma non so ancora cosa.

Un’altra idea che ho è questa. Siccome Gillian [18] a Dublino ha preso quell’appartamento sulla Liffey (Usher’s Island) per un anno, se avessi soldi dopo l’estate mi piacerebbe andarci a stare io per qualche mese. Money! Money! Ma è un momento per me bellissimo, perché durante le giornate adesso non penso più ai soldi, me ne frego altamente – e per me è una novità, perché ho sempre avuto una paura forsennata dei debiti.

Scusa se ti dico così alla spicciolata le cose che mi frullano in testa, ma mi fa sempre piacere parlare con te, e questa sera qui è come fare una conversazione.

Stamattina alle sette sono andato a fare una camminata in collina, c’era fango, e in un pendio sono scivolato e ho fatto un ruzzolone di dieci metri fino ad approdare su un cespuglio. Mi sono rialzato tutto dolorante, e mi è venuta in mente questa frase: La caduta dell’uomo. Poi tornando indietro mi sono fermato in un supermarket, e quando metto in moto m’accorgo che una ruota della macchina non girava. Ho dovuto fare circa un chilometro e mezzo con la ruota locked up (il freno a mano s’è incastrato) fermandomi ogni tanto per la puzza dei ferodi. Allora ho cercato un’altra frase per celebrare questa seconda caduta dell’uomo, così dipendente dai suoi mezzi meccanici. Ma non mi è venuto in mente niente.

Pain is our teacher. Take a good care of yourself.
Gianni

 

7.


Brighton 15 maggio 1995

Caro Daniele,

ti ricordi che ti avevo raccontato d’essere scivolato giù per un costone, causa fango? Be’, adesso non c’è fango, ma sono scivolato ancora peggio dell’altra volta, essendo soprapensiero, e facendo venti o trenta metri rotoloni, fino ad atterrare sul tronco d’un albero – dove la scossa, non so come, mi ha fatto diventare tutti viola i testicoli, e chi lo sa il povero cosiddetto pene cosa ne sarà di lui? Con l’aiuto d’un buon samaritano, essendo stato trasportato all’ospedale, ho avuto una diagnosi che non so dirti ma che mi obbliga a letto per giorni 15 – per cui ritarderò la partenza in Italia, dove mi aspetta il tuo racconto.

Per fortuna che non ho amori, né amanti, perché le mie povere pudende non potrebbero certo affrontare nessun certame amoroso! Tu non sai cos’è il male, se non hai avuto male ai coglioni!

Volevo pregarti di guardare in biblioteca un libro che io avevo, ma l’ho perduto, e non mi ricordo più se varrebbe la pena di tradurlo oppure no. Tu dacci un’occhiata, e nel caso fanne una fotocopia da esportare in Italia. Il libro in questione, che io ricordo molto comico, senza però ricordarmi altro, si chiama:

The Crockett Almanacks
– Neville Series 1835-1938

Edited by Franklin Meine,

Chicago: Caxton Club, 1955

Potresti anche sentire da chi ti aveva parlato dell’invito a Chicago, [19] se l’idea è ancora buona? e per quando? Perché in settembre mi hanno invitato in Svezia, dove è appena uscito Narratori delle pianure, così vorrei organizzarmi per passare qualche mese a Boston. Se mi rispondi, scrivi a Bologna (via Vincenzo Martinelli 2, 40137 BO), io partirò verso il 23-25 maggio, e dunque dovrei essere a casa ora che la risposta arriva. Per adesso un abbraccio

Gianni

8.


Brighton, 19 maggio 1995

Caro Daniele,

sto partendo e sarò in Italia verso il 22 o 23 maggio. Luca Buelli [20] mi dice che il tuo racconto[21] non è ancora rrivato. Invece Marianne [22] mi ha telefonato entusiasta del tuo racconto, che (dice) è bellissimo, e ancora più bello degli altri. Io le credo, perché il suo giudizio è sempre sicuro.

Ora spero che ti trovi abbastanza meglio, con l’abitudine, in quel paese dove sei. Quando io ero in America, mio padre mi scriveva sempre frasi del genere: “Ma cosa gli è venuto in mente a Cristoforo Colombo di andare a scoprire l’America? Non poteva stare a casa sua, quello zuccone?”. Però l’America sta arrivando qui, e anzi la sua parodia, la sua caricatura funzionalista diventa sempre più il nostro dogma di vita.

Cosa fare? Continua a scrivere i tuoi bei racconti, che sono un bel sollievo per tutti, quando li leggiamo.

Abbracci

Gianni

 

9.

 

[s.d., anteriore al luglio 1996]

Caro Daniele,

ho ricevuto la tua lettera. Può darsi che in luglio faccia un salto in Italia e ci vediamo. Ma ti scrivo soprattutto per parlarti del numero del «Semplice» che devi comporre. Con Ermanno [23] abbiamo detto che sarebbe meglio se lo componessi in collaborazione con Jean, [24] anche perché lui può occuparsene anche quando non ci sei.

Io suggerisco un filone iniziale con quel titolo “Descrizioni di territori e dei loro abitanti”, che dovrebbe aprirsi secondo me con quel diario di Ermanno sull’India. Poi ci dovrebbero essere cose che Jean sta macinando.
Poi quei tre pezzettini di Luigi:[25] 1)Ritorno da Sorrento, 2) L’omino, 3) Contarina- Prince,[26] con
alcune righe di presentazione di Giorgio Messori. [27] Poi bisogna vedere se è possibile riprendere quel testo di Lévi-Strauss sui Nambikwara, cucito insieme da Jean e scartato dal numero 2 per eccesso di pagine. [28]

Quanto a me: sto cercando di mettere a posto alcune pagine iniziali dei Viandanti, eventualmente da pubblicare con i nostri nomi. Ma non sono ancora sicuro che vengano bene. Alternativamente vorrei riscrivere quel mio pezzo sull’Emilia, “Ultimi contemplatori della nostra regione”. [29]

Quanto al racconto dell’editore suicida, 30] ho provato e provato, ma non riesco a cavarci un ragno dal buco. Dunque lo lascio da parte. Io ci terrei naturalmente che Beckett [31] venisse pubblicato, ma non so se gli altri siano del parere.

Dovresti anche telefonare a Marianne per sentire se ha qualcosa da suggerirti. Ah, poi bisogna vedere se quel brano di Clément Rosset [32] tradotto da Jean è utilizzabile, non so.

Questo è tutto per ora,

a presto

Gianni

 

10.


1 aprile 1998

Caro Daniele,

ho riflettuto sulla tua telefonata, a proposito d’un trasferimento a Oxford. Qualunque cosa tu possa dire, secondo me l’Inghilterra è un paese molto più funerario degli Stati Uniti, e Oxford deve essere un posto insopportabile (con minori scappatoie dai tentacoli accademici).

Ma poi la verità è che sei tu il portatore del disagio, e Boston o Oxford secondo me non cambia niente. Adesso per te è come un periodo luttuoso, perché dopo tanti anni di lavoro e di aspettative sei riuscito a fare un bel libro,[33] e ti senti come uno buttato via – per gli esiti nella stampa, e per la disattenzione generale.

Ma io volevo ricordarti che quando a Boston scrivevi i tuoi racconti, ti dimenticavi tutto. E allora, c’è poco da dire, scrivere se non altro serve per questi scopi terapeutici, e il resto è secondario, io penso.

Ti devo anche raccontare che, prima di venirti a trovare a Boston, io ho passato circa 4 anni con la tua stessa sensazione, di essere uno buttato via. Tanto più quando è uscito il mio Boiardo, [34] di cui nessuno si è accorto, e che ha venduto un migliaio di copie. Poi a Boston con te mi sono ripreso, perché sono stato bene e la tua compagnia era curativa.

Ma non voglio che questa lettera prenda troppo un tono paterno. No, è per dirti che io sono sbandatissimo come te, e senza voglia di far niente (tranne studiare) perché veramente ogni libro è una delusione, sia che ti lodino sia che ti caghino. Adesso sto leggendo e rileggendo Leopardi a tappeto, e trovo il suo pessimismo così confortante!

Vorrei poter venire in USA il prossimo autunno. Se ci sarai ancora. E vorrei sapere da Pertile[35] o Fido [36] se vorrebbero un seminarietto leopardiano (sullo Zibaldone) anche magari gratuito.
Lo farei per stare con la testa su queste cose. Ma per ora non preoccuparti, scriverò io a Pertile e si vedrà.

Saluti a Myriam

Gianni



Pubblicato il 14/07/2017


]*] Le lettere sono riportate integralmente, ad eccezione di due omissioni necessarie (un numero di telefono e dati bancari), segnalate con i tre puntini in parentesi quadra ([...]). Gli interventi sui testi si limitano a minime normalizzazioni tipografiche: i titoli in stampatello o sottolineati sono dati in corsivo; le espressioni da rimarcare sottolineate nel testo vengono qui volte al corsivo. Le grafie dei nomi, la punteggiatura e le particolartà ortografiche sono conservate, senza inserire segnalazioni nel testo, rimandando alle note per eventuali precisazioni, se necessarie.

[1] G. Celati (a cura di), Narratori delle riserve, Milano, Feltrinelli («I Narratori»), 1992. Si tratta di una raccolta di racconti usciti sul quotidiano «il manifesto» fra l’ottobre del 1988 e l’ottobre del 1989 nella rubrica domenicale omonima, in cui Celati pubblicava testi scritti, raccolti o tradotti da altri, accompagnandoli con una breve nota introduttiva. Di Benati vi compare il racconto Sanremo. Benati aveva già pubblicato nella rubrica il racconto Long Vehicle Scania, («il manifesto», 23 aprile 1989, pp. 12-13).

[2] Nel corso dell’anno accademico 1992/93, Benati si trova in Irlanda, dove lavora per un anno come Full time Lecturer presso l’University College di Cork.

[3] La traduzione del romanzo I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels, 1726) di Jonathan Swift uscirà nell’aprile del 1997, nella collana «I Classici» di Feltrinelli, con un ampio studio introduttivo, note al testo e apparato bibliografico.

[4] Si allude a Silenzio in Emilia, uscito per Feltrinelli nella collana «I Narratori» nel 1997, con in copertina la riproduzione di un dipinto a olio di Daniele Benati; poi Quodlibet, collana «Compagnia Extra», 2009.

[5] Le lettere 2 e 3 portano la medesima data. Dal contenuto delle stesse non è possibile stabilire se siano state effettivamente scritte lo stesso giorno o se una delle due sia stata erroneamente datata.

[6] Marco Belpoliti aveva progettato una rivista che avrebbe dovuto intitolarsi «L’Astolfo dei narratori». Nei quaderni conservati nel Fondo manoscritti della Biblioteca «Panizzi» di Reggio Emilia compare in quegli anni un altro titolo ideato da Celati, «Almanacco delle riserve», che ricorre in vari appunti databili 1989-1990, in cui si indicano alcuni temi da trattare e i collaboratori da interpellare.

[7] Claude Simon, L’Acacia, Paris, Minuit, 1989. Si tratta di un romanzo a sfondo autobiografico, in cui Simon ricostruisce parti significative della sua vita e della storia familiare fra il 1880 e il 1940, organizzando la narrazione per blocchi non saldati fra di loro, senza seguire l’ordine cronologico naturale, con frequenti spostamenti nel tempo. Figura centrale è quella di un giovane uomo, che ha i tratti dello stesso Simon, cresciuto in una famiglia della piccola nobiltà francese e coinvolto nelle vicende della seconda guerra mondiale.

[8] G. Perec, La vie mode d’emploi, Paris, Hachette («POL»), 1978; trad. it. di D. Selvatico Estense, La vita. Istruzioni per l’uso, Milano, Rizzoli («La scala»), 1984.

[9] Si tratta di Who Dealt (1924) di Ring Lardner, racconto tradotto con il titolo Chi ha dato le carte?, poi incluso nell’antologia Storie di solitari americani, a cura di G. Celati, D. Benati, con un saggio di G. Celati, Milano, Bur, 2006. Dello scrittore statunitense, il cui nome completo è Ringgold Wilmer Lardner Jr. (Chicago, 1915 – New York, 2000), Benati ha poi tradotto e curato Tagliando i capelli (Haircut, 1925), Milano, Marcos y Marcos, 2006, con una sua Postfazione.

[10] Celati fa qui riferimento a Un meccanico in Germania, un racconto poi incluso in D. Benati, Silenzio in Emilia, cit., che narra la vicenda di Claudio Mammi, un operaio di Massenzatico che si ritrova, dopo la sua morte, in una Stoccarda immaginaria, invitato dalla ditta Tudor a ritirare un premio conferitogli per il merito di aver montato nella sua vita una grande quantità di batterie per automobili prodotte dalla stessa Tudor. Mammi si muove in uno spazio che si può definire comico-fantascientifico, costituito da un proliferare di edifici-batteria percorsi da fantasmi che potrebbero essere suoi replicanti. Il racconto esce per la prima volta in «Il Semplice. Almanacco delle prose», n. 3, a cura di M. Borsari, G. Celati, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 55-72.

[11] Il racconto a cui si allude è Il giocatore di bocce, incluso in «Il Semplice. Almanacco delle prose», n. 2, a cura di E. Cavazzoni, J.Talon, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 115-127, poi in em>Silenzio in Emilia, cit. Il protagonista è Franco Badodi, un pensionato uscito di casa una sera per andare alla bocciofila di San Martino e ritrovatosi poi sperduto in una terra desolata, un aldilà domestico in cui le cose di sempre gli appaiono sotto un aspetto nuovo e inquietante.

[12] La citazione è tratta da Pensieri su vari argomenti (1726) di Swift, un trattato satirico in forma di raccolta di brevi aforismi. Il testo originale è parzialmente diverso; cfr. J. Swift,Thoughts on various Subjects, in The Works of the Rev. Jonathan Swift, arranged by T. Sheridan, vol. V, London, Baldwin and Son, 1801, p. 462: «but wherever God has left to man the power of interposing a remedy by thought or labour, there he has placed things in a state of imperfection, on purpose to stir up human industry, without which life would stagnate, or indeed rather could not subsist at all: Curis acuunt motralia corda». Questo passaggio della raccolta di aforismi di Swift non è contenuto nell’edizione italiana delle Opere, a cura di M. D’Amico, Milano, Mondadori, 1983, che ricorre a un’edizione precedente rispetto a quella definitiva dei Pensieri su vari argomenti.

[13] Dal 1994 al 2001, Benati insegna come Lettore di italiano del Ministero degli Affari esteri presso alcune università americane: University of Massachusetts, Harvard University, Massachusetts Institute of Technology (Mit). La sua vita nella città americana è stata d’ispirazione per la costruzione degli spazi e dei personaggi del romanzo Cani dell’inferno, pubblicato per Feltrinelli, collana «I Narratori», nel 2004. La ‘baracca’ a cui allude Celati è l’avventura della rivista «Il Semplice», che prenderà avvio nell’autunno del ‘95.

[14] Si allude alla traduzione di Guignol’s band I e II uscita a sua cura nella «Pléiade» di Einaudi-Gallimard, nel 1996, e alle note contenute nella già citata edizione italiana dei Gulliver’s Travels.

[15] La prefazione al volume già citato è un saggio molto ampio e documentato a cui Celati ha lavorato nell’arco di quasi dieci anni, di cui esistono appunti conservati nel Fondo Celati che risalgono alla fine degli anni Ottanta e ai primi anni Novanta.

[16] Tony Oldcorn, italianista e dantista, è professore emerito alla Brown University di Providence (Rhode Island), dove Celati è stato ospite, come visiting professor, nel 1990 e nel 2001.

[17] L’Università del progetto (Udp) è stata fondata nel 1989 da Giulio Bizzarri, Paolo Bettini e Gian Franco Gasparini a Reggio Emilia, con l’intento di formare abilità orientate verso le professioni del design, della grafica e della comunicazione. Sono stati coinvolti nell’impresa, fra gli altri, Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Giorgio Celli, Luigi Ghirri, Concetto Pozzati, Franco Vaccari, Olivo Barbieri, Alessandro Mendini, Enrico Ghezzi, Alessandro Bergonzoni e Claudio Bisio.

[18] Gillian Haley, traduttrice, è la moglie di Celati.

[19] L’invito a Chicago era un’idea di Franco Nasi, allora Lettore di Italiano del Ministero degli Affari Esteri presso la Loyola University (Chicago) e la University of Chicago. Celati sarà ospite dell’Istituto di Cultura di Chicago nel dicembre del 1995 – durante il periodo passato da Benati a Boston – per presentare il primo numero del «Semplice», con Nasi e Rebecca West. In seguito Celati tornerà a Chicago nel 2000, in occasione dell’uscita della monografia a lui dedicata: R. West, Gianni Celati. The Craft of Everyday Storytelling, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 2000. Un’altra occasione ci fu quando Celati presentò insieme a Daniele Benati il libro di Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, curato da Paolo Cherchi per i Millenni di Einaudi. «Quello fu un evento bellissimo – mi scrive Franco Nasi – Gianni leggeva e Daniele Benati faceva le note a piè di pagina. Cherchi introduceva. Un pezzo di teatro fantastico». Celati sarà poi invitato nel 2003 presso l’University of Chicago con una borsa di studio Fulbright a svolgere un seminario sullo Zibaldone di Leopardi.

[20] Luca Buelli, ex allievo di Celati al Dams, ha fondato a Bologna la casa di produzione cinematografica «Pierrot e la Rosa», con cui Celati ha girato tutti i suoi film. Per notizie ulteriori si veda G. Celati, Cinema all’aperto. Tre documentari e un film, Roma, Fandango, 2011.

[21] Si tratta di Silenzio in Emilia, il racconto che darà il titolo alla raccolta del 1997, uscito in «Il Semplice. Almanacco delle prose», n. 1, a cura di E. Cavazzoni, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 13-24, poi incluso in apertura nel volume omonimo.

[22] Marianne Schneider, amica di Celati, traduttrice di molti suoi libri, conosciuta in occasione della traduzione di Narratori delle pianure in tedesco (Erzähler der Ebenen, Berlin, Wagenbach, 1986; poi Frankfurt am Main, Fischer, 1993).

[23] Con gli amici fraterni Ermanno Cavazzoni e Jean Talon, citato poco oltre, Celati ha condiviso molti progetti culturali, fra cui l’avventura della rivista «Il Semplice. Almanacco delle prose» (1995-1997), una straordinaria palestra di sperimentazioni, che ha pubblicato i primi testi di Daniele Benati (nasce qui il suo Learco Pignagnoli), Ugo Cornia, Giorgio Messori, e ha ospitato scritti degli irregolari delle nostre lettere come Giorgio Manganelli, Antonio Delfini e Luigi Malerba, con traduzioni di testi rari di grandi autori stranieri o racconti di scrittori poco
conosciuti in Italia.

[24] Jean Talon ha tradotto e curato, insieme a Celati, H. Michaux,Altrove, Macerata, Quodlibet, 2005 e Id., Viaggio in Gran Garabagna, Macerata, Quodlibet, 2010.

[25] Con il grande fotografo Luigi Ghirri – conosciuto nei primi anni Ottanta in occasione del progetto di Viaggio in Italia – Celati ha condiviso idee, letture, progetti, libri, mostre, film. Fra i numerosi studi dedicati alle loro collaborazioni artistiche, si segnala la monografia di Marco Sironi, Geografie del narrare. Insistenze sui luoghi di Luigi Ghirri e Gianni Celati, Reggio Emilia, Diabasis, 2004.

[26] I racconti di Ghirri sono usciti con il titolo comune di Paesaggi e una breve nota introduttiva di Mauro Sargiani su «Il Semplice. Almanacco delle prose», n. 5, a cura di D. Benati, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 43-51.

[27] Giorgio Messori (Castellarano, 1955 – Reggio Emilia, 2006), amico fraterno di Benati, ha collaborato al numero con il racconto Il salto fuori («Il Semplice. Almanacco delle prose», n.5, cit., pp.125-133). Il suo racconto-diario Nella città del pane e dei postini, pubblicato da Diabasis nella collana «Al buon corsiero» nel 2005, ha ottenuto quello stesso anno il Premio per il reportage narrativo «Sandro Onofri», è stato finalista al Premio Viareggio nella sezione «Opera prima» e ha vinto il Premio nazionale di narrativa Bergamo. Nel 1992, Messori ha collaborato con Luigi Ghirri, suo grande amico, al progetto sull’Atelier Morandi, un viaggio fotografico e narrativo nello studio del pittore Giorgio Morandi.

[28] Si tratta della prima stesura di Vita sessuale dei Nambikwara, racconto etnografico tratto dal saggio di Claude Lévi-Strauss,La vie familiale et sociale des Indiens Nambikwara del 1948 ( La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, trad. it. di P. Caruso, Torino, Einaudi, 1970). Il racconto, rielaborato e riscritto, è ora pubblicato nella raccolta Incontri coi selvaggi, cit., pp. 137-142.

[29] La pièce teatrale Quattro viandanti magri è tutt’ora inedita. Ultimi contemplatori della nostra regione, presente in dattiloscritto presso il «Fondo Celati» di Reggio Emilia, è uscito con il titolo Ultimi contemplatori, in «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», V, 1997, 3, pp. 25-27.

[30] Racconto che Benati ha scritto e poi ha deciso di non includere in Silenzio in Emilia.

[31] S. Beckett, Da un lavoro abbandonato, «Il Semplice. Almanacco delle prose», n. 6, a cura di G. Celati, M. Schneider, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 15-24.

[32] L’idea di pubblicare un brano di Clément Rosset, filosofo francese anticonformista, autore del pamphlet Lettre sur les chimpanzés (1965), in cui si scaglia contro le mode culturali e i luoghi comuni del pensiero filosofico, e di una trilogia dedicata alle illusioni della realtà contemporanea (Le réel et son double, 1976; Le réel: traité de l’idiotie, 1977; L’objet singulier, 1978) non ha avuto seguito.

[33] Si allude a Silenzio in Emilia, cit.

[34] Gianni Celati, L’Orlando innamorato raccontato in prosa, Torino, Einaudi («I Coralli»), 1994.

[35] Lino Pertile, medievista e specialista di letteratura rinascimentale, è Professore di Lingue e letterature romanze all’Università di Harvard. Ha insegnato nelle Università di Reading, del Sussex e di Edimburgo, prima di giungere a Harvard, dove è stato nominato Harvard College Professor, uno speciale riconoscimento assegnato a quei docenti che hanno investito la maggior parte del loro tempo e della loro energia nell’insegnamento universitario.

[36] Franco Fido, italianista, esperto di letteratura Rinascimentale e specialista di Carlo Goldoni, era allora direttore del Dipartimento di italianistica ad Harvard, Università in cui è oggi professore emerito.