Italo Calvino e La forma dello spazio (Le cosmicomiche, 1965)
«Quale racconto più bello di: Si dicono parallele due linee che si incontrano all’infinito».
(Italo Calvino, C’è ancora possibilità di narrare una storia? Conversazione tra Italo Calvino e Daniele Del Giudice, in «Pace e guerra», I, novembre 1980, 8, p. 26)
Sommario: 1. QUATTRO MOTIVI PER LEGGERE ITALO CALVINO - 2. IL “PRIMO” CALVINO E IL “SECONDO” CALVINO - 3. NELLA PALUDE DELLA DISPERAZIONE: LA STRADA DI SAN GIOVANNI (1962) E LA GIORNATA DI UNO SCRUTATORE (1963) - 4. LA RIFLESSIONE CRITICA: ALCUNI SAGGI DEGLI ANNI SESSANTA - 5. MITO, SCIENZA E FANTASCIENZA: LA LEZIONE DI GIORGIO DE SANTILLANA E L’ESEMPIO DI PRIMO LEVI - 6. VERSO LE COSMICOMICHE - 7. LE COSMICOMICHE DEL 1965 - 8. LA SFIDA DELLA SCRITTURA COSMICOMICA - 9. LE COSMICOMICHE E LA FANTASCIENZA - 10. LA FORMA DELLO SPAZIO: IL SOGNO DELLE RETTE PARALLELE CHE SI “INCONTRANO”
LINK: La forma dello spazio – Parte Prima
1. QUATTRO MOTIVI PER LEGGERE ITALO CALVINO
Il centenario della nascita di Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, L’Avana 15 ottobre 1923 – Siena 19 settembre 1985), degnamente celebrato con convegni di studio e numerose iniziative editoriali, ha fornito l’occasione per fare il punto su una delle figure di spicco dell’intera cultura italiana del secondo Novecento e domandarsi, senza retorica, perché e in che modo leggere oggi questo autore.
Per più di un quarto di secolo le opere di Calvino hanno goduto di un’ampia popolarità, tanto da trovare un posto assicurato tra le letture assegnate agli studenti della scuola italiana, in virtù di un costante ripudio della trasgressione linguistica e grammaticale, di un’esemplare chiarezza e concisione dello stile,[1] di contenuti il più delle volte resi intelligentemente edificanti attraverso una polarizzazione di problematiche complesse.[2] Ma proprio questa divulgazione a tappeto, come accade il più delle volte, non ha giovato alla comprensione dell’autore e ha finito, nel tempo, con l’usurare il senso e le vere ragioni della sua scrittura in perenne costruzione, le cui fortune, in verità, erano già state appannate dalle severe critiche di chi ne censurava la superficialità dei temi e l’inautenticità delle soluzioni letterarie, specialmente di quelle che, a partire dagli anni ’60, si avvalevano degli apporti della scienza, della linguistica e dello strutturalismo.[3]
Per contro, va segnalata una stringata scheda (non priva di qualche trascuratezza) della Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968 di Gianfranco Contini, nella quale si apprezza la narrativa di Calvino come l’autentica erede di una tradizione letteraria che da Aldo Palazzeschi passa per Tommaso Landolfi. L’allontanamento progressivo dall’impegno politico-sociale verso atmosfere fiabesche e, poi, l’approdo a «temi addirittura fantascientifici in chiave grottesca o burlesca» sono, a parere di Contini, connaturati all’opera calviniana, rappresentandone «un’evoluzione comprensibile partendo da un impianto pressoché settecentesco, illuministico». Di questa nuova narrativa, proprio per il suo carattere apparentemente d’evasione rispetto a quella precedente, emerge il carattere riflessivo e demistificatorio: «[…] questa elusione prova che il rapporto con la realtà è rimasto critico e la problematica aperta».[4]
Ora, per iniziare più che altro a ricucire i fili che uniscono la vastissima e variegata opera di Calvino a quel prezioso ordito culturale novecentesco da cui è stata generata e che essa stessa ha contribuito a generare, proviamo ad avanzare alcune considerazioni preliminari:
1) Al di là del giudizio sui singoli libri e sulle diverse fasi creative della lunga carriera dello scrittore, il valore immediatamente riconoscibile della vastissima (labirintica?) opera di Calvino sta nel suo essere un itinerario problematico attraverso la cultura del secondo Novecento. Il che significa itinerario qualitativamente sempre elevato, ma non rettilineo, dalle svolte sorprendenti[5] e, talvolta, accidentato, come si evince dalla faticosa gestazione di alcuni testi, dai rifacimenti, dalle continue riflessioni e ripensamenti, dalle riprese e rifiniture.[6]
2) Calvino è uno scrittore estremamente acuto e ricettivo, sensibile ai problemi e alle tensioni che attraversano la società e la cultura contemporanee. Basta solo osservare la gran mole di saggi, articoli, commenti e interviste, che riempiono oggi interi volumi, per farsi un’idea dell’ampia e inesausta curiositas anche nei confronti dei più disparati aspetti del «mondo non scritto», cioè di quegli aspetti della realtà che stanno oltre i tradizionali confini della letteratura;[7] è una curiositas da cui scatta un’attività pubblicistica frenetica che si muove con agilità sulle varie ramificazioni del dibattito culturale contemporaneo, in un cimento continuo che sembra inverare anche sul versante dell’impegno critico l’immagine di Calvino come «scoiattolo della penna», secondo la famosa definizione coniata da Cesare Pavese nel 1947 a proposito del Sentiero dei nidi di ragno.[8]
3) Le problematiche della modernità, così puntualmente recepite, vengono trasformate in stimoli costanti di ricerca letteraria. La scrittura di Calvino è un continuo “ricercare” che nasce da un’istanza gnoseologica ed etica e si esprime, a partire da una sintassi sobria, variata e limpida,[9] nelle forme di un’elegante architettura, in una prosa di equilibrata cantabilità e in un gioco contrappuntistico di variazioni su un tema enunciato, ovvero uno «stile» conoscitivo aperto. Abbiamo, così, l’infinita rincorsa delle Città invisibili, gli aerei vagabondaggi di Cosimo di Rondò nel Barone rampante, le esplorazioni dalla realtà all’immaginario dei Sentieri dei nidi di ragno. Ma è soprattutto a partire dagli anni Sessanta che l’esplorazione letteraria di Calvino lascia sempre più spesso l’impressione di qualcosa di irrisolto, incompiuto e sospeso. A tal proposito, prendendo spunto da un racconto di T con zero, Benvenuto Terracini parlò di «cocente rimorso»[10] e di insoddisfazione che non riguarda lo «stile» in sé, ma lo stile come espressione del punto di vista storico e culturale che condiziona la conoscenza. La questione si era già manifestata quasi negli stessi termini nella riflessione-ripensamento che Calvino aveva dedicato al neorealismo, qualificandolo come espressione di un momento cruciale della storia italiana nella Presentazione (1966) all’edizione scolastica di Marcovaldo[11] e nella Prefazione (1964) al Sentiero dei nidi di ragno.[12] Ogni risultato raggiunto dallo scrittore è provvisorio e si rivela rapidamente pretenzioso e antiquato.[13] Una frustrazione che Calvino descrive come «la continua scontentezza che ci si porta dietro nello scrivere».[14]
4) Che cosa significa “scrivere”?
In un’intervista della fine degli anni Settanta, Calvino sembra voler tirare le somme della sua lunga e prolifica carriera di scrittore, inquadrandola nella temperie di quel particolare momento storico:
«Appartengo – dichiara Calvino – all’ultima generazione che ha creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società. E l’uno e l’altro sono saltati in aria. Tutta la mia vita è stata un riconoscere validità a cose cui avevo detto «no». Ma le attribuzioni di valore fondamentale restano quanto più le si sente negare».[15] L’impegno etico e la negazione sono le due facce complementari della scrittura che si propone di gettare uno sguardo critico sul mondo e di affrontare le sue contraddizioni, come già al tempo del neorealismo, ma senza più l’ottimismo e le velleità ideologiche di quella stagione.[16] Con l’allontanamento dalla politica militante, che avviene dal 1957,[17] dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, Calvino comincia a manifestare apertamente il proprio scetticismo nei confronti dell’ideologia che appare sempre più come un metodo per travisare la realtà e imporre una interpretazione dei fatti basata sull’equivoca sovrapposizione di giudizi di valore e giudizi di fatto.[18] A partire dai primi anni Sessanta lo scrittore modifica il suo approccio al molteplice del reale, ipotizzando che sia possibile descriverlo e ordinarlo, benché provvisoriamente, solo per via di astrazioni, ricorrendo al linguaggio della matematica e della scienza, alle metafore geometriche e del calcolo combinatorio. «Naturalmente – scrive Calvino - questa accentuazione della componente astratta nelle Cosmicomiche dev’essere accompagnata da una presenza continua della rappresentazione, attraverso materiali linguistici e figurali che diano lo spessore della vita reale».[19] Nella letteratura, dunque, si attua una convergenza tra l’astrazione scientifica e la rappresentazione concreta della realtà; inoltre, le procedure della scienza diventano procedure della narrazione, in relazione alle quali «scrivere ha senso solo se si ha di fronte un problema da risolvere»[20] e il risultato a cui deve tendere l’opera dello scrittore è, metaforicamente, una forma che si trova nella struttura dei «cristalli che rispondono a una razionalità impersonale».[21] Con l’apporto di diverse discipline scientifiche, tra cui spiccano l’antropologia e l’astronomia, Calvino si cimenta in un’esplorazione eterodossa dell’infinita e inesauribile complessità del mondo; ma la scrittura, una volta messi in atto i procedimenti della scienza, alla fine subisce inevitabilmente uno scacco e rivela la sua inadeguatezza: «Nell’opera finita – scrive Calvino - c’è sempre qualcosa di arbitrario e di impreciso che mi lascia insoddisfatto».[22] Esiste, infatti, una divaricazione fra l’ethos e le finalità raggiungibili dal discorso letterario rispetto al discorso della scienza: la scienza procede con maggiori certezze (in un campo determinato, con un linguaggio determinato e secondo definiti principi epistemologici che le sono propri); la scrittura racconta la concretezza recependo le suggestioni del metodo e del linguaggio scientifico, per vedere cosa ne sortisce, ma stemperando il tutto con una buona dose di ironia e di disinvolta sensibilità “casalinga”.
2. IL “PRIMO” CALVINO E IL “SECONDO” CALVINO
Nella produzione narrativa di Calvino si possono individuare due distinte fasi: la prima prende l’avvio da Il sentiero dei nidi di ragno (romanzo del 1947 ispirato alle vicende della Resistenza) e comprende i Racconti (uniti in un’unica raccolta nel 1958), Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), romanzi confluiti, poi, in ordine non cronologico nel ciclo de I nostri antenati (dal 1960), le Fiabe italiane (1956), La speculazione edilizia e Marcovaldo ovvero le stagioni in città (entrambi del 1963); alla seconda vanno ascritte le opere da metà degli anni Sessanta, ovvero le varie edizioni delle Cosmicomiche (1965, 1968, 1984), T con zero (1967), Le città invisibili (1972), Il castello dei destini incrociati (1973), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) e Palomar (1983), a cui va aggiunto Sotto il sole del giaguaro (edito postumo nel 1986).[23]
Schematicamente, ma senza riproporre rigide contrapposizioni, tentiamo di sintetizzare le caratteristiche delle due fasi:
CARATTERISTICHE DELLA PRIMA FASE
a) Realismo esistenziale (inizialmente neorealismo, ma non linguistico, e poi assonanze con la narrativa toscana di Bilenchi, Benedetti, Cassola e altri narratori stranieri)
b) “Impegno” sociale e politico; iscrizione al partito comunista
c) Rappresentazione della realtà tendente alla dimensione fiabesca e allegorica (Elio Vittorini coniò a tal proposito la fortunata formula di «realismo a carica fiabesca»)
d) Discorso letterario come “ragionamento” illuministico, lucido e aperto nei confronti del lettore (vedi introduzione dei Racconti, 1958)
e) Narrativa di impianto tradizionale caratterizzata dalla continuità del dettato, non solo di misura breve, ma anche romanzi (alcuni solo in abbozzo)
CARATTERISTICHE DELLA SECONDA FASE
a) Tendenza all’astrazione e superamento dell’antropocentrismo. Interesse per la scienza (astronomia, fisica, biologia, antropologia), poi per le discipline del linguaggio e dell’interpretazione (linguistica, epistemologia, semiologia, strutturalismo)
b) Disimpegno e allontanamento dalla politica (1957)
c) Riflessione sulla realtà fondata sul paradosso, sull’immaginario rigorosamente logico, sulla precisione allucinata
e) Discorso letterario induttivo e deduttivo, ancorato al codice e ai procedimenti della scienza. Sfida al labirinto e cristalli
f) Frammentazione programmatica della narrazione, metanarrativa e gioco combinatorio. Narrativa breve fondata su riscritture parziali, intertestualità e tecnica combinatoria
3. NELLA PALUDE DELLA DISPERAZIONE: LA STRADA DI SAN GIOVANNI (1962) E LA GIORNATA DI UNO SCRUTATORE (1963)
In realtà, se è vero che alla produzione letteraria di Calvino manca una linearità evolutiva,[24] è vero tanto più che il passaggio fra il “primo” e il “secondo” periodo non avviene in modo lineare; i due periodi mantengono, nella discontinuità, analogie importanti, in particolare per quanto riguarda l’idea di letteratura come espressione di una visione complessiva del mondo e come strumento per modificare la realtà storica. A cavaliere fra le due fasi si pongono due racconti lunghi che sono fra le prove migliori dell’intera opera di Calvino, La strada di San Giovanni (1962)[25] e La giornata di uno scrutatore (1963).[26] Non a caso in esse si coglie un rovello dello stile che è testimonianza immediata della crisi creativa ed esistenziale dell’autore protrattasi per lungo tempo, nonché della travagliata elaborazione di nuove forme espressive e conoscitive.
Nel primo racconto, rammemorazione degli anni di gioventù vissuti nella casa di famiglia in Liguria e omaggio commosso alla memoria del padre Mario, morto nel 1951, Calvino confessa di aver avuto nei confronti della natura un originario sentimento di estraneità e indifferenza; alla letteratura, retrospettivamente, viene assegnata una sorta di funzione salvifica, quale possibile strumento per cercare di superare questa conflittualità e raggiungere un rapporto autentico con la realtà: «Di fronte alla natura restavo indifferente, riservato, a tratti ostile. E non sapevo che stavo anch’io cercando un rapporto, forse più fortunato di quello di mio padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo significato a tutto, e d’un tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e tangibile e possedibile e perfetta, ogni cosa di quel mondo ormai perduto».[27]
Il secondo racconto, La giornata di uno scrutatore, un’opera severa e sofferta, da cui traspare amarezza e sfiducia, ha una genesi dilatata nei tempi e una gestazione ancor più tormentata (giugno 1953- febbraio 1963).[28] La sua natura sperimentale, poligenetica e polimorfa, viene con una certa ironia così descritta dallo stesso Calvino: «[La giornata di uno scrutatore è] un racconto ma nello stesso tempo una specie di reportage sulle elezioni al “Cottolengo”, e un pamphlet contro uno degli aspetti più assurdi della nostra democrazia, ma anche una meditazione filosofica su che cosa significa far votare i deficienti e i paralitici, su quanto in ciò si rifletta la sfida alla storia d’ogni concezione del mondo che tiene la storia per cosa vana; ed è anche un’immagine inconsueta dell’Italia e un incubo del futuro atomico del genere umano; ma soprattutto una meditazione su se stesso del protagonista (un intellettuale comunista) una specie di Pilgrim’s Progress d’uno storicista che vede a un tratto il mondo trasformato in un immenso “Cottolengo” e che vuole salvare le ragioni dell’operare storico insieme ad altre ragioni, appena intuite in quella giornata, del fondo segreto della persona umana».[29] Il protagonista del racconto, Amerigo Ormea, un intellettuale iscritto a un partito di opposizione e alter ego dello scrittore Italo Calvino,[30] svolge la funzione di scrutatore alle elezioni politiche del 1953 nel seggio elettorale della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, il cosiddetto Cottolengo, dove, secondo la suggerita immagine del Pilgrim’s Progress, finisce per arenarsi come un moderno pellegrino senza fede nella palude della disperazione, tra un’umanità dolente ed esclusa che rappresenta icasticamente la negazione di ogni possibilità di riscatto individuale e il fallimento delle utopie razionalistiche della storia. Immerso nell’atmosfera incolore ed equivoca del Cottolengo, Amerigo Ormea incrocia faticosamente le sue contraddittorie riflessioni su libertà e destino, egoismo e pietà, ragione e religione.[31] Scrive Calvino: «Nel mondo-Cottolengo (nel nostro mondo che potrebbe diventare, o già essere, “Cottolengo”) Amerigo non riusciva più a seguire la linea delle sue scelte morali […] sentiva aprirsi sotto ai suoi piedi la vanità del tutto. Era questa, che chiamano una “crisi religiosa”?».[32] Dubbi e inquietudini che investono, a maggior ragione, anche la funzione conoscitiva e propositiva della letteratura:
La sua biblioteca era ristretta. Col passare degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo […] Ma non sapeva trovare un libro che facesse al caso suo, tra quelli che aveva lì: classici, un po’ a caso, e di moderni soprattutto filosofi, qualche poeta, e libri di cultura. Da tempo cercava di allontanare da sé la letteratura, quasi vergognandosi della vanità di aver voluto essere, in gioventù, uno scrittore. Era stato svelto a capire l’errore che c’è sotto: la pretesa d’una sopravvivenza individuale, senza aver fatto nient’altro per meritarla che mettere in salvo un’immagine – vera o falsa – di sé. La letteratura delle persone gli pareva una distesa di lapidi di cimitero: quella dei vivi e quella dei morti. Ormai nei libri cercava altro: la sapienza delle epoche o semplicemente qualcosa che servisse a capire qualcosa. Ma, siccome era abituato a ragionare per immagini, continuava a scegliere nei libri dei pensatori il nocciolo immaginoso, cioè a scambiarli per poeti, oppure a cavar fuori la scienza o la filosofia o la storia ragionando come Abramo va per sacrificare Isacco, e come Edipo s’acc[i]eca, e re Lear nella bufera perde il senno».[33]
Il rifiuto così chiaramente espresso da Amerigo Ormea della «letteratura delle persone» in quanto «distesa di lapidi di cimitero», utili al più per una sorta di ludus donchisciottesco con cui identificare personaggi della vita reale in quelli fittizi della letteratura,[34] così pure come la critica dell’abitudine al «ragionare per immagini» che genera l’errore di leggere i pensatori come se fossero poeti immaginosi, o viceversa la poesia come se fosse un immaginoso travestimento della scienza e della filosofia, sembra preludere alla seconda stagione dell’opera calviniana, con la ricerca di una espressività letteraria nuova che, superato lo scacco gnoseologico ed estetico della prima fase, sia in grado di interpretare la complessità e la profondità del reale.
4. LA RIFLESSIONE CRITICA: ALCUNI SAGGI DEGLI ANNI SESSANTA
In dissonanza con il clima di ottimismo e spensieratezza dell’Italia del boom economico, Calvino dichiara, dunque, di voler abbandonare il filone magico e “favolistico” (I nostri antenati e Marcovaldo, intimamente legati alle Fiabe italiane alla cui riscrittura lavora dal 1954 al 1956), che gli aveva assicurato un così grande successo, per dedicarsi a una «riflessione morale sulle esperienze della nostra epoca»[35] con un libro che risulta «quanto più lontano dal clima di facilità e piacevolezza che imperversa ora in Italia»[36] e, come di consueto, accompagna la ricerca di una nuova tipologia di narrazione con una copiosa produzione saggistica.
A mo’ d’esempio e in modo forzatamente selettivo si possono ricordare alcuni interventi critici del periodo. Nel primo, risalente all’ottobre del 1959 e pubblicato, col titolo Il Mare dell’oggettività, nel febbraio dell’anno successivo sul numero 2 de «Il Menabò», Calvino denuncia in modo battagliero lo smarrimento in atto da anni nella cultura occidentale: «Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata, negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro stesso atteggiamento verso il mondo. Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza la volontà il giudizio individuali e dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando o siamo passati a una cultura in cui quel primo termine è sommerso dal mare dell’oggettività, dal flusso ininterrotto di ciò che esiste».[37] Calvino è convinto che all’affermazione prorompente e ribelle della soggettività, tipica delle avanguardie della prima metà del secolo, sia subentrata un’incapacità di segno totalmente opposto: «Ora è il contrario: è l’oggettività che annega l’io».[38] L’opposizione alla resa incondizionata all’oggettività serve a propugnare attraverso la letteratura la ripresa dell’intervento attivo dell’uomo sul mondo che produca la «non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni».[39]
Al di là dei toni apodittici, nel discorso di Calvino rileva, particolarmente, il rifiuto di un’idea di uomo necessitato dai meccanismi della realtà oggettiva e l’assegnazione alla letteratura di una funzione energetica liberatoria, come scaturigine «dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto»[40] dell’individuo schiacciato sotto il peso dei condizionamenti del mondo.
Il Dialogo di due scrittori in crisi è il testo di una conferenza replicata in varie città della Svizzera nel marzo e aprile del 1961 ed è congegnato come resoconto di un dialogo di genere diatribico avvenuto con l’amico Carlo Cassola in un caffè di via Veneto a Roma: «Parlavamo della tragedia e della felicità, e intorno avevamo questo finto scenario di finta gioia, di finta eccitazione, di finta ricchezza; un fiume di auto immobilizzate dal solito ingorgo del traffico impazziva a frizione schiacciata in un concerto di clackson, le donne più belle del mondo andavano incontro ad amori stolti, le vetrine esponevano merci inutilmente perfette».[41] Dopo aver disquisito sulle forme di narrazione e rappresentazione della realtà moderna che hanno soppiantato la narrativa romanzesca, rendendola anacronistica (cinema, cronaca e inchiesta giornalistica, l’analisi politica ed economica, gli studi e le relazioni sociologiche,[42] Calvino espone idee ancora più esplicite sulla crisi del mestiere del romanziere:
Perché attardarci a scrivere un romanzo? Insomma, se gran parte dei temi che parevano precipui del romanzo ora sono fatti propri da altri strumenti di conoscenza, nessuno di questi strumenti dà quello che la letteratura dava: però il romanzo è una pianta che non cresce sul terreno già battuto; deve trovare una terra vergine per piantare le sue radici. Il romanzo non può più pretendere di informarci su come è fatto il mondo; deve e può scoprire però il modo, i mille, i centomila nuovi modi in cui si configura il nostro inserimento nel mondo, esprimere via via le nuove situazioni esistenziali. Qui soltanto forse possiamo riconoscere che la poesia non avrà mai fine, e così quel caso particolare della poesia che chiamiamo romanzo: la poesia come primo atto naturale di chi prenda coscienza di se stesso, di chi si guarda attorno con lo stupore di essere al mondo.[43]
Dunque, la letteratura di domani, i cui sviluppi sono ancora imprevedibili,[44] dovrà esplorare nuovi territori, per ora non ancora individuati, e rispondere al contempo al bisogno esistenziale di trovare una relazione autentica con il mondo e con se stessi, per «trovare le fondamenta vere dell’uomo d’oggi».[45]
Da ultimo, il celebre saggio La sfida al labirinto, apparso su «Il Menabò» nel luglio 1962,[46] è un passaggio cruciale verso la letteratura “cosmica” della metà degli anni Sessanta. L’immagine del labirinto esprime la complessità del presente di fronte alla quale lo scrivere assume il significato di una sfida, in quanto tentativo di affrontare la complessità del reale rifiutando, da una parte, di ridurlo semplicisticamente a una visione conforme alle nostre abitudini e accettando, dall’altra, come condizione dell’uomo contemporaneo la possibilità di perdersi in questo labirinto infinito e senza vie d’uscita. Nella conclusione del saggio Calvino esprime l’esigenza di una nuova forma di letteratura che preconizza lo sviluppo del genere cosmicomico: «Oggi cominciamo a richiedere dalla letteratura qualcosa di più d’una conoscenza dell’epoca o d’una mimesi degli aspetti esterni degli oggetti o di quelli interni dell’animo umano. Vogliamo dalla letteratura un’immagine cosmica (questo termine è il punto di convergenza del mio discorso con quello di Eco[47]), cioè al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco».[48]
Cosa intende Calvino con «livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco»? Intende la «scienza», concordemente a quanto Umberto Eco scriveva nell’articolo apparso sul medesimo fascicolo de «Il Menabò», con il titolo Del modo di formare come impegno sulla realtà : «Nella letteratura, con gli strumenti che le sono propri, bisogna realizzare un’immagine del cosmo quale è suggerito dalla scienza, in modo tale da esprimere il “disagio” della condizione umana».[49] La scienza, insomma, suggerisce alla letteratura di parlare della “condizione umana” non con un discorso intimistico o solipsistico, ma in relazione a una visione complessiva dell’esistente.
Qualche anno dopo Calvino, ritornando sulla questione, dichiarò che, tenendo presenti le differenze tra linguaggio della scienza e linguaggio letterario, il problema affrontato nelle opere degli anni Sessanta era di uscire dalle consuetudini dell’immaginazione e allontanarsi dall’esperienza quotidiana per sperimentare «una letteratura come una serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo ma in qualche modo non inutile».[50]
5. MITO, SCIENZA E FANTASCIENZA: LA LEZIONE DI GIORGIO DE SANTILLANA E L’ESEMPIO DI PRIMO LEVI
I racconti che Primo Levi invia nel 1961 a Calvino, in quanto «consulente responsabile per la letteratura» della casa editrice Einaudi[51], costituiscono un sicuro antecedente diretto della letteratura «cosmicomica». Calvino mostra, in particolare, di apprezzare il loro carattere «fantabiologico»[52], l’utilizzo di un dato di partenza scientifico, da cui scatta il meccanismo narrativo fantastico, le suggestioni intellettuali e poetiche che ne derivano, l’umorismo e il «garbo» che garantiscono un controllo intellettuale e culturale di una materia facile a degenerare in un triviale pastiche narrativo e a cadere a livello di ‘sottoletteratura’. Ma è il richiamo a un «panorama culturale-etico-scientifico» europeo, «una civiltà comune» ignorata da quasi tutta la letteratura italiana, che sembra interessare prevalentemente Calvino e che si conforma con i nuovi orientamenti della sua narrativa[53].
La sfida a umanizzare la scienza in forme narrative viene raccolta dopo l’illuminante incontro con il fisico Giorgio de Santillana (1902-1974), conosciuto per la prima volta a Boston nel 1960. Calvino fu fortemente impressionato dalla conferenza su Il fato nell’antichità e nell’era atomica[54] tenuta da Giorgio De Santillana nel marzo del 1963 al Teatro Carignano di Torino. De Santillana proponeva una visione dell’universo come kosmos perfettamente ordinato e necessitato secondo leggi matematiche. L’uomo, quindi, non sarebbe altro che una porzione infinitesimale di questo meccanismo ineluttabile di costellazioni e galassie che l’astronomia antica ha cercato di tracciare, interpretare e collegare. I miti arcaici rappresentano, dunque, la residua tradizione orale dell’arcana scienza dei moti celesti e, attraverso un linguaggio simbolico e metaforico, narrano in modo enigmatico i passaggi originari dell’universo, nonché le catastrofi che ne hanno cambiato repentinamente il volto[55].
Passarono più di venti anni prima che Calvino riconoscesse pubblicamente l’influsso determinante di questa conferenza in un articolo che è un omaggio a Giorgio de Santillana e insieme un lucido resoconto autobiografico, straordinariamente importante per comprendere la genesi delle Cosmicomiche:
Ascoltando la conferenza nel 1963, ne ebbi come la rivelazione d’un nodo di idee che forse già ronzavano confusamente nella mia testa ma che m’era difficile esprimere; e sarebbero state difficili da esprimere anche dopo, ma da quel momento sono stato cosciente d’una distanza da colmare, d’una cosa a cui “far fronte”. (Santillana: «Ed è cosa da poco che il nome stesso di scienza in greco, epistème, significhi far fronte?») dico l’idea che nessuna storia e nessun pensiero umani possano darsi se non situandoli in rapporto a tutto ciò che esiste indipendentemente dall’uomo; l’idea d’un sapere in cui il mondo della scienza moderna e quello della sapienza antica si riunifichino. Rileggendo ora il testo, ritrovo l’emozione di quando Santillana uscì con l’esempio inaspettato di Pierre Bezuchov in Guerra e pace, che fatto prigioniero e in pericolo di vita guarda le stelle e pensa che tutto questo cielo è in lui, è lui[56].
6. VERSO LE COSMICOMICHE
Nel periodo successivo al marzo 1963, da poco terminata La giornata di uno scrutatore[57], Calvino lavora alacremente alle prime quattro Cosmicomiche (La distanza della luna, Sul far del giorno, Un segno nello spazio, Tutto in un punto[58]) che saranno poi pubblicate sulla rivista «Il Caffè» nel novembre del 1964[59], accompagnate da una breve nota esplicativa dell’autore che declina in modo faceto i molteplici modelli che lo hanno ispirato: «Le Cosmicomiche hanno dietro di sé soprattutto Leopardi, i comics di Popeye (Braccio di Ferro), Samuel Beckett, Giordano Bruno, Lewis Carroll, la pittura di Matta e in certi casi Landolfi, Immanuel Kant, Borges, le incisioni di Grandville»[60]. Altri tre racconti cosmicomici (Senza colori, Giochi senza fine, Lo zio acquatico) vengono pubblicati su «Il Giorno» tra aprile e ottobre del 1965; nel mese di novembre dello stesso anno abbiamo, infine, la prima edizione in volume delle Cosmicomiche, in cui vengono impaginati oltre ai sette racconti già pubblicati anche cinque inediti (Quanto scommettiamo, I dinosauri, La forma dello spazio[61], Gli anni-luce e La spirale).
7. LE COSMICOMICHE DEL 1965
«Cosmicomica» è una parola-macedonia coniata dall’autore per definire un nuovo genere di racconto che, nato dalla sollecitazione di letture scientifiche, specialmente astronomiche e cosmologiche, tende a rappresentare in forme concrete ed episodi narrativi le astrazioni irrappresentabili e le teorie controintuitive della scienza moderna:
Combinando in una sola parola i due aggettivi cosmico e comico – scrive Calvino – ho cercato di mettere insieme varie cose che mi stanno a cuore. Nell’elemento cosmico per me non entra tanto il richiamo dell’attualità spaziale, quanto il tentativo di rimettermi in rapporto con qualcosa di molto più antico. Nell’uomo primitivo e nei classici il senso cosmico era l’atteggiamento più naturale, noi invece per affrontare le cose troppo grandi ed eccelse abbiamo bisogno d’uno schermo, d’un filtro, e questa è la funzione del comico[62].
Il tema comune a tutta la prima serie di Cosmicomiche è la cosmogonia favolosa dall’indistinto al distinto, affrontata in una prospettiva comica e antropomorfica. L’antropomorfismo consiste nel «far parlare cellule come se fossero uomini» e nel «fingere figure e linguaggi umani nel vuoto delle origini»[63] ed è il procedimento letterario che rende possibile il racconto mitico ed eziologico del mondo. A proposito dei racconti «cosmicomici» e della critica all’antropomorfismo diffusa dai seguaci del nouveau roman e in particolare da Alain Robbe- Grillet, è particolarmente importante ciò che Calvino, intervistato nel 1968, dichiara su scienza e letteratura:
Invece io questo antropomorfismo l’ho accettato e rivendicato in pieno come procedimento letterario fondamentale, e – prima che letterario – mitico, collegato a una delle prime spiegazioni del mondo dell’uomo primitivo, l’animismo. Non che il discorso di Robbe-Grillet non mi avesse convinto: ma è successo che poi scrivendo mi è venuto da seguire la via opposta, con dei racconti che sono una specie di delirio dell’antropomorfismo, dell’impossibilità di pensare il mondo se non attraverso figure umane, o più particolarmente smorfie umane, borbottii umani. Certo anche questo è un modo di mettere alla prova l’immagine più ovvia e pigra e vanagloriosa dell’uomo: moltiplicare i suoi occhi e il suo naso tutt’intorno in modo che non sappia più dove riconoscersi […]. L’importante è che il lettore trovi nel racconto dei materiali fantastici che entrino in risonanza col suo particolare linguaggio, muovano in lui reazioni e contrasti[64].
Insomma, la scienza e il «comico». Il «comico» letterario, che Calvino distingue e separa nitidamente dalla satira moralistica e canzonatoria, muove ad una visione straniata del mondo e dell’uomo ed è inteso come metodo per passare dallo sguardo limitato e focalizzato sul particolare ad una visione ampia e complessa dei singoli fenomeni:
Quel che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca o fumistica è la via d’uscita dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla in almeno due modi: un modo per cui chi la dice vuol dire quella cosa e solo quella; e un modo per cui si vuol dire sì quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il modo è molto più complicato e vasto e contraddittorio. L’ironia ariostesca, il comico shakespeariano, il picaresco cervantino, lo humour sterniano, la fumisteria di Lewis Carroll, di Edgar Lear, di Jarry, di Queneau valgono per me in quanto attraverso ad essi si raggiunge questa specie di distacco dal particolare, di senso della vastità del tutto[65].
L’incrocio fra scienza, antropomorfismo e comico produce nelle Cosmicomiche risultati eterogenei: si va da quadri e avventure scaturiti dalla fantasia fiabesca alla rievocazione delle fasi aurorali di elementi primi senza connotazione di suono, luce, colore, tempo, spazio; oppure, all’esposizione del manifestarsi delle inclinazioni concrete e complesse dell’animo, nonché della naturale tendenza all’adattamento della specie. Tutto, sullo sfondo di cicli di milioni di anni luce, è dominato dal movimento e dalla perpetua trasformazione. In questo senso le Cosmicomiche sono piccole Metamorfosi in prosa, generate da concetti scientifici. Se per Giorgio de Santillana i miti erano una prima spiegazione scientifica della natura[66], per Calvino è la scienza, al contrario, che genera il mito lasciando, però, nel mito una nitida impronta di raziocinio.
Ognuna delle prime «cosmicomiche» (fino alla Parte terza di T con zero) è, infatti, preceduta in exergo da uno o più enunciati scientifici che dovrebbero rendere esplicito il rapporto generativo tra scienza e racconto. Tuttavia, alla lettura risulta invece evidente che il testo narrativo non intende tradurre programmaticamente in forma letteraria un problema scientifico, ma piuttosto riflettere alla luce della logica e del linguaggio della scienza su comportamenti e sentimenti umani, quali, ad esempio, la paura e l’odio, l’amore e la gelosia, la gioia e la speranza.
8. LA SFIDA DELLA SCRITTURA COSMICOMICA
In modo progressivo, a partire dai primi anni Sessanta, Calvino giunge a riconoscere che la scienza è l’attività guida della cultura contemporanea e che il mondo contemporaneo è un mondo eminentemente scientifico. Questo convincimento rende inevitabile ricorrere anche in ambito letterario alle metodologie e alle conquiste della conoscenza scientifica e, di conseguenza, all’uso di un linguaggio a essa adeguato, preciso ed elegante, nel solco ritrovato della più alta tradizione italiana che va da Dante ad Ariosto, da Galileo e Leopardi, il che, secondo Calvino, comporta riscoprire la vocazione profonda della letteratura italiana a concepire «l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile, lo scrivere mosso da una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria»[67].
È, dunque, possibile narrare partendo dalle acquisizioni della scienza? E far nascere dalla scienza il mito, la fiaba? Le immagini scientifiche hanno una funzione mitopoietica, cioè la capacità di generare miti moderni? Il “metodo cosmicomico”, distinto da quello seguito negli altri racconti, viene spiegato così in un passo di Visibilità, la quarta delle cosiddette Lezioni americane:
Dunque nell’ideazione d’un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni. Nell’organizzazione di questo materiale che non è più solo visivo ma anche concettuale, interviene a questo punto anche una mia intenzione nell’ordinare e dare senso allo sviluppo della storia – o piuttosto quello che io faccio è cercare di stabilire quali significati possono essere compatibili e quali no, col disegno generale che vorrei dare alla storia, sempre lasciando un certo margine di alternative possibili. Nello stesso tempo la scrittura, la resa verbale, assume sempre più importanza; direi che dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che conta: prima come ricerca d’un equivalente dell’immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell’impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo. Sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l’espressione verbale scorre più felicemente, e all’immaginazione visuale non resta che tenerle dietro.
Nelle Cosmicomiche il procedimento è un po’ diverso, perché il punto di partenza è un enunciato tratto dal discorso scientifico: il gioco autonomo delle immagini visuali deve nascere da questo enunciato concettuale. Il mio intento era dimostrare come il discorso per immagini tipico del mito possa nascere da qualsiasi terreno: anche dal linguaggio più lontano da ogni immagine visuale come quello della scienza d’oggi. Anche leggendo il più tecnico libro scientifico o il più astratto libro di filosofia si può incontrare una frase che inaspettatamente fa da stimolo alla fantasia figurale. Siamo dunque in uno di quei casi in cui l’immagine è determinata da un testo scritto preesistente (una pagina o una singola frase in cui io m’imbatto leggendo) e ne può scaturire uno sviluppo fantastico tanto nello spirito del testo di partenza quanto in una direzione completamente autonoma[68].
Ma le citazione potrebbero essere moltiplicate:
Al profano che legge libri scientifici […] ogni tanto una frase risveglia un’immagine. Ho provato a segnarne qualcuna, e a svilupparla in un racconto: in uno speciale tipo di racconto “comicosmico” (o “cosmicomico[69].
Oppure:
È da un paio d’anni che li scrivo [n.d.r., i racconti cosmicomici]. Ho cominciato così: avevo preso l’abitudine di segnarmi le immagini che mi venivano in mente leggendo un libro per esempio di cosmogonia, cioè partendo da un discorso lontano dal meccanismo dell’immaginazione che mi è consueto. […] Mi è bastato prenderne nota per trovarmi ad avere un certo numero di inizi, di motivi di partenza[70].
Si può dire che il problema del rapporto tra scienza e letteratura venga risolto nelle Cosmicomiche con una sorta di sincretismo narrativo dove, all’interno di un sempre documentato quadro scientifico di riferimento, vengono messe in atto «operazioni stregonesche» capaci di trasformare delle astrazioni in ben costruite strategie diegetiche[71].
9. LE COSMICOMICHE E LA FANTASCIENZA
A Calvino non si addice l’alea. Egli è ben consapevole di non essere un “giocatore”, di non sapersi abbandonare al caso e all’azzardo, tanto da scrivere nella Postfazione a un’antologia di scritti di Tommaso Landolfi: «se giocassi avrei per sola regola il minimo rischio»[72].
Il passaggio dalla trilogia dei Nostri antenati (opere di grande fortuna e molto popolari) alla fase “cosmica” non è una “scommessa”, ma avviene dunque gradualmente come un “calcolo”, una “sfida” ben ponderata, anche attraverso la partecipazione a un dibattito intellettuale e pubblico, unitamente alla perspicacia con cui vengono colte le trasformazioni sociali e culturali.
Non si può, infatti, ignorare che contribuiscano alla svolta degli anni ’60 elementi dell’attualità politica, la cronaca giornalistica e l’attenzione dell’opinione pubblica per le scoperte nello spazio e del contesto culturale del tempo che il rapido metabolismo intellettuale e l’arte stregonesca dello scrittore Calvino hanno trasformato in ingredienti della narrativa «cosmicomica»:
La contiguità del genere «cosmicomico» con la fantascienza rende, però, ancora più importante rimarcarne le differenze che, peraltro, erano state subito individuate nelle prime recensioni. Eugenio Montale giudicò le Cosmicomiche un genere «fantascientifico alla rovescia, proiettato cioè verso il più oscuro passato e non verso le conquiste della scienza futura»[73]; lo seguì Franco Antonicelli: «Nella moda della fantascienza, sorta dalle meraviglie della scienza vera, invece di un fantafuturo Calvino ha inserito un fantapassato»[74]; mentre Sergio Solmi presentò il libro delle Cosmicomiche «ben difficilmente classificabile» come «un esempio di letteratura tout court che si intride nelle opere più recenti di elementi fantascientifici»[75].
In uno scritto del 1968, al momento di dichiarare «esaurita» l’esperienza della Cosmicomiche[76], lo stesso Calvino ricorda, ancora una volta, che la prima evidente differenza tra la science- fiction e i racconti cosmicomici consiste nel tempo dell’ambientazione, in quanto la prima tratta del futuro scientifico tecnologico, mentre la seconda di un remoto passato, come una sorta di «mito delle origini»[77]. A ciò lo scrittore aggiunge una importante precisazione sul modo di utilizzare i dati scientifici per l’invenzione fantastica: «Io vorrei servirmi del dato scientifico come di una carica propulsiva per uscire dalle abitudini dell’immaginazione, e vivere anche il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza; la fantascienza mi pare che tenda ad avvicinare ciò che è lontano, ciò che difficile da immaginare, che tenda a dargli una dimensione realistica o comunque a farlo entrare in un orizzonte d’immaginazione che fa parte già di un’abitudine accettata»[78].
10. LA FORMA DELLO SPAZIO: IL SOGNO DELLE RETTE PARALLELE CHE SI “INCONTRANO
LINK: La forma dello spazio – Parte Prima
Un esempio concreto di come uscire dalle «abitudini dell’immaginazione», per riformulare la narrazione di vari aspetti dell’esperienza quotidiana attraverso immagini originali suggerite dalla scienza, si può trovare nella decima Cosmicomica (1965), intitolata La forma dello spazio[79], che si cimenta con la narrazione di un sogno.
L’impresa non è da poco, visto che il discorso onirico, per sua natura, si sottrae agli a priori universali (spazio, tempo e causalità) e alle rigide categorie della logica ed è, quindi, per definizione, a-razionale e non-scientifico. L’annettere il sogno al dominio del linguaggio scientifico assume per Calvino anche un significato polemico: «L’ideologia militante lascia sguarnite le trincee dell’individuale; e il territorio che due secoli e più di storia del pensiero laico sono riusciti a sottrarre al dominio dei teologi è sul punto di cadere in mano ai negromanti»[80].
Nella più generale battaglia contro l’irrazionalità e le pseudo-scienze, la letteratura deve riappropriarsi dell’“individuale”, riscattare ciò che è irriflesso, inconscio, e ammetterlo al linguaggio della veglia, al calcolo del pensiero o alle meravigliose geometrie della scienza, come suggerite nella Forma dello spazio.
La forma dello spazio, dichiaratamente analoga anche nel titolo a una precedente «cosmicomica» intitolata Un segno nello spazio[81], prende spunto da una delle consuete piccole «introduzioni scientifiche» poste in exergo alle prime Cosmicomiche[82]: «Le equazioni del campo gravitazionale che mettono in relazione la curvatura dello spazio con la distribuzione della materia stanno già entrando a far parte del senso comune»[83]. Al lettore naïf, in verità, questa concezione dello spazio, che varca il limite delle possibilità dell’immaginazione, si presenta come un postulato un po’ sibillino da accettare pianamente come un’idea vulgata[84], un’etichetta paratestuale necessaria per interpretare il racconto sul doppio binario scientifico – letterario, già a partire dall’incipit:
Cadere nel vuoto come cadevo io, nessuno di voi sa cosa vuol dire. […] Io vi parlo di quando non c’era sotto nessuna terra né nient’altro di solido, neppure un corpo celeste in lontananza capace di attirarti nella sua orbita. Si cadeva così, indefinitamente, per un tempo indefinito. Andavo giù nel vuoto fino all’estremo limite in fondo al quale è pensabile che si possa andar giù, e una volta lì vedevo che quell’estremo limite doveva essere molto più sotto, lontanissimo, e continuavo a cadere per raggiungerlo. Non essendoci punti di riferimento, non avevo idea se la mia caduta fosse precipitosa o lenta. Ripensandoci, non c’erano prove nemmeno che stessi veramente cadendo […] Ammesso dunque che si cadesse, si cadeva tutti con la stessa velocità senza sbalzi[85] (rr. 1-18).
Con forte effetto di straniamento, l’accenno didascalico all’astratta formula dell’equazione gravitazionale viene ripreso nella «cosmicomica» come indicazione referenziale di ciò che può risultare vero e indiscutibile, mentre l’esperienza del cadere, raccontata in prima persona dalla voce narrate, con le agili strutture sintattiche del parlato[86], è illusoria e fallace.
D’altra parte, il primordiale «cadere nel vuoto» (r. 1), richiamato dal narratore- protagonista come una vivida memoria del passato, riproduce evidentemente una delle più comuni esperienze oniriche prive di un autonomo contenuto di verità, ma la sua rappresentazione avviene con riferimento a sobri e indiscutibili elementi scientifici (le anzidette «equazioni del campo gravitazionale»), una sorta di contrainte (“vincolo”, “costrizione”, “norma”) da cui prende le mosse e viene regolato un ragionamento deduttivo che si spinge fino alla controfattuale indimostrabilità logica della caduta stessa, richiedendo di conseguenza al lettore la necessaria accettazione della pura percezione soggettiva del cadere nel vuoto da parte del protagonista[87]. Il plot della cosmicomica (semplicemente la schermaglia amorosa che oppone il protagonista-narratore all’antagonista, il Tenente Fenimore, per la conquista del personaggio femminile, Ursula H’x) si sviluppa, pertanto, su una relazione binaria: le leggi fisiche dell’equazione accennata nell’epigrafe iniziale, che ha valore referenziale, e le parole della voce narrante alle quali rimane la funzione emotiva ed espressiva, ma pur sempre ancorata al rispetto dell’enunciato scientifico di partenza.
È da notare, infatti, che quando il racconto, composto a Forte dei Marmi tra il 24 luglio e l’8 agosto 1965, apparve per la prima volta su l’«Espresso» (14 novembre 1965), il cappello “scientifico” introduttivo mancava e il titolo Cadendo con Ursula, forse redazionale, rendeva più generico ed estrinseco l’inquadramento scientifico della vicenda rispetto alla successiva pubblicazione in volume. L’attenzione a rinsaldare i legami tra scienza e narrazione si coglie anche nei mutamenti apportati al testo. Ad esempio, «… si cadeva tutti con la stessa velocità senza sbalzi»[88] (rr. 17-18) è una variante che corregge «… si cadeva tutti con la stessa velocità e accelerazione», presente nel primo testo del novembre 1965, a riprova della volontà di correggere le incongruenze logiche della narrazione in ossequio al dettato scientifico di partenza.
Che cosa, pertanto, si proponga di narrare “scientificamente” La forma dello spazio è presto detto: il movimento e le relazioni “sentimentali” di tre “personaggi-funzioni” in uno spazio primordiale, completamente vuoto, che si trasforma allorquando «la materia vi provoca una curvatura o tensione che obbliga tutte le linee in esso contenute a tendersi o curvarsi»[89]; in tal modo ogni personaggio-funzione si muove nello spazio su «una retta nel solo modo in cui una retta può essere retta cioè deformandosi di quanto la limpida armonia del vuoto generale è deformata dall’ingombro della materia, ossia attorcigliandosi tutto in giro a questo gnocco o porro o escrescenza che è l’universo nel mezzo dello spazio»[90]. Così, conformemente all’idea di sistema–mondo, tipica di Calvino, nello stato primordiale ogni minima presenza di materia modifica «la forma generale dello spazio in tutte le sue dimensioni»[91].
L’enunciata metamorfosi delle forme nello spazio, tra equilibrio e disequilibrio geometrico, è omologa alle simmetrie e asimmetrie vere o immaginarie che nel racconto si alternano via via nelle relazioni fra i tre personaggi–funzione: l’anonimo narratore – protagonista, più che altro uno sguardo e una voce che descrive stati emozionali e riporta congetture scientifiche[92]; Ursula H’x, stereotipa rappresentazione del femminile e oggetto del desiderio; il Tenente Fenimore, odiato antagonista nell’amore per Ursula.
Seguendo in senso stretto le indicazioni dell’autore che distingueva le Cosmicomiche in «storie di Qfwfq» (sigla palindromica che indica un personaggio-narratore «che ha l’età dell’universo»[93] e «racconti deduttivi»[94], si potrebbe classificare La forma dello spazio come una cosmicomica intermedia, di tertium genus, in quanto Qfwfq, il narratore-protagonista di altre Cosmicomiche, scompare ma viene rimpiazzato da un narratore intradiegetico che mescola il punto di vista soggettivo («Una volta lo sorpresi – credeva che io non vedessi – mentre faceva dei segni a Ursula H’x»[95]) con il ragionamento deduttivo («Ma poteva anche darsi che gli universi fossero sempre stati lì, fitti intorno a noi, e non si sognassero di muoversi, e noi neppure ci muovevamo, e tutto era fermo per sempre, senza tempo, in un buio punteggiato solo da rapidi scintillii quando qualcosa o qualcuno riusciva per un momento a spicciarsi da quella torpida assenza di tempo e accennare una parvenza d’un movimento»[96].
In questa commistione tra elemento soggettivo-psicologico (l’impulso irrefrenabile che lo spinge a desiderare Ursula) ed elemento oggettivo-razionale (l’eventualità, secondo il dettato dell’equazione gravitazionale, che le rette parallele s’incontrino all’infinito) lo sguardo del protagonista trapassa senza soluzione di continuità dalla veglia al territorio onirico: «Vi dirò che un incontro delle nostre parallele io lo avevo tanto sognato, in tutti i suoi particolari, che esso ormai faceva parte della mia esperienza come se l’avessi già vissuto»[97]. Il congiungimento con Ursula è un sogno tanto ricorrente da essere esperito ormai nei minimi dettagli con una struttura che si ripete così articolata:
Struttura: sogno bipartito, ovvero da sogno (rr. 41-66) a incubo (rr. 67-84).
Parte prima: il sogno (rr. 41-66)
Contesto: caduta nel vuoto dei personaggi, indefinitamente, alla stessa velocità e per traiettorie assolutamente parallele (rr. 1-25).
Oggetto: realizzazione del desiderio di incontrarsi con il personaggio femminile («non sognavo altro che d’incontrarmi con Ursula H’x», r. 41).
Frequenza: ricorrente e inizialmente gradevole («l’avevo tanto sognato», r. 48).
Tempo onirico: futuro, sogno della possibilità/eventualità di un accadimento (rr. 44-46); rapidità e imprevedibilità («tutto sarebbe avvenuto da un momento all’altro», r. 50).
Qualità: è analitico («in tutti i suoi particolari», r. 48-49) e vivido quanto un’esperienza vissuta («esso faceva parte ormai della mia esperienza come se l’avessi già vissuto», rr. 49-50).
Stato d’animo del sognatore: speranza (r. 47), continua eccitazione (r. 47), estremo desiderio («dopo tanto andar separati … averla sentita estranea, prigioniera del suo tragitto parallelo», rr. 51-52).
Spazio: modifica della consistenza dello spazio («da impalpabile a più tesa e molle, un infittirsi del vuoto… non da fuori, ma da dentro di noi», rr. 53-56).
Esito: incontro e fusione delle parallele («avrebbe stretto insieme me e Ursula… la linea invisibile che percorrevo io e quella che lei percorreva sarebbero diventate una sola linea occupata da una mescolanza di lei e me», rr. 61-63).
Immagini: visione di Ursula («già mi bastava chiudere gli occhi per vederla venire avanti in un atteggiamento che sapevo suo anche se diverso da tutti gli atteggiamenti a lei soliti: le braccia tese all’in giù, aderenti ai fianchi, torcendo i polsi come se si stirasse e nello stesso tempo accennasse a un divincolamento che era anche una maniera quasi serpentina di protendersi», rr. 56-61).
Acme e scioglimento: percezioni tattili («dove quanto di lei era morbido e segreto veniva penetrato, anzi, avvolgeva e quasi risucchiava quanto di me con più tensione era andato fin lì soffrendo d’essere solo e separato e asciutto» rr. 63-66).
Seconda parte: l’incubo (rr. 67-84).
Contesto: continua la caduta nel vuoto («continuavo la mia caduta», r. 85).
Oggetto: paura dell’incontro delle due parallele del narratore e di Ursula con la terza parallela dell’antagonista Tenente Fenimore («non di me e di Ursula H’x avrebbe segnato l’incontro ma pure – prospettiva esecrabile! – del Tenente Fenimore», rr. 70-71).
Frequenza: si alterna al sogno positivo («In questo alternarsi di speranze e di apprensioni», r. 85).
Tempo onirico: futuro come eventualità/possibilità («Nel momento stesso in cui Ursula H’x avrebbe cessato di essermi estranea, un estraneo con i suoi sottili baffetti neri si sarebbe trovato a condividere le nostre intimità in modo inestricabile», rr. 71-74); rapidità e istantaneità («succede ai sogni più belli di trasformarsi a un tratto in incubi», r. 67).
Qualità: è deduttivo, dalla riflessione incubo («a me veniva adesso in mente che il punto d’incontro delle nostre parallele poteva essere quello in cui si incontrano tutte le parallele esistenti nello spazio… [quindi anche] del tenente Fenimore», rr. 67-84).
Stato d’animo del sognatore: climax crescente di astio («nella mia astiosa parzialità», r. 78) e di gelosia («questo pensiero bastava a gettarmi nelle più strazianti allucinazioni della gelosia. […] e qui la mia gelosia raggiungeva il delirio», rr. 75 e 80).
Spazio: è il vuoto assoluto e infinito (rr. 1 e 7-11) nelle cui profondità il personaggio narratore non smette di scrutare («se mai qualcosa annunciasse un cambiamento attuale o futuro della nostra condizione», rr. 86-88).
Esito: immagina l’unione tra il Tenente Fenimore e Ursula H’x attraverso una serie di sensazioni uditive («Sentivo il grido che il nostro incontro – di me e di lei – ci strappava fondersi in un unisono spasmodicamente gioioso … ed ecco che […] da esso si staccava lancinante il grido di lei violata […] e nello stesso tempo il grido di volgare trionfo del Tenente, ma forse […] - questi loro gridi – di lei e di lui- potevano anche non essere così diversi e dissonanti, potevano raggiungere essi pure un unisono, sommarsi in un unico grido addirittura di piacere», rr. 75-83).
Acme e scioglimento: l’allucinazione onirica viene parossisticamente interrotta dal grido del sognatore («grido dirotto e disperato che sarebbe sgorgato dalle mie labbra», rr. 83-84).
Il sogno delle parallele che si incontrano è, insomma, un racconto di gelosia e, pertanto, si configura nella tipologia dei racconti di amori contrastati e infelici così frequenti nella narrativa calviniana[98]. È, tuttavia, importante notare come l’approfondimento psicologico sia del tutto secondario rispetto al “montaggio” delle sequenze oniriche, alle quali, nel loro dipanarsi ineluttabile tra impulsi, presentimenti e deduzioni razionali, è affidato il carico di angoscia onirica[99].
Per avere un diverso esempio del “raziocinio onirico” calviniano si può andare al capitolo V de La giornata d’uno scrutatore (I ediz. Torino, Einaudi, 1963). Mentre in un seggio elettorale del Cottolengo si svolge una prolungata discussione su una scheda di voto contestata, il protagonista del racconto, Amerigo Ormea, si estranea sprofondando in un sogno ad occhi aperti che dalla meditazione sull’importanza della bellezza nel mondo passa alla contemplazione delle belle e desiderabili forme della donna da lui amata[100], in una vera e propria proiezione eidetica del desiderio «(e davanti a sé vedeva Lia nuotare, il dorso a filo del mare)»[101].
Per distinguere nettamente il piano della realtà (il seggio e la discussione fra gli scrutatori) e interporre quello della fantasia (elucubrazioni del protagonista che «navigava in pensieri lontani, come in sogno»[102] quasi investito da «un fluido ipnotico»[103] ), Calvino usa le parentesi tonde (come in un a parte teatrale), ripetendo ogni volta un verbo-didascalia («pensare», «sentire», «domandarsi», «apparire nel ricordo», «sommergere») per introdurre il discorso quasi sempre indiretto sulla bellezza.
I due piani reale e onirico sono contigui e uniti nel personaggio; all’inizio troviamo la formula di raccordo: «D’improvviso gli venne da pensare…»[104] e alla fine della fantasticheria, più ampiamente: «E nella parte sveglia di sé, rifletteva che…»[105].
Nella «cosmicomica» La forma dello spazio il sogno si interrompe quando il protagonista, immaginando in un delirio di gelosia l’unione di Ursula col Tenente, fa erompere dalle sue labbra un «grido dirotto e disperato»[106]. Si torna, allora, alla non meno estraniante narrazione primaria del perpetuo cadere nel vuoto: «In questo alternarsi di speranze e apprensioni continuavo la mia caduta, senza smettere di scrutare nelle profondità dello spazio se mai qualcosa annunciasse un cambiamento attuale o futuro della nostra condizione»[107]. Nell’interminabile presente della caduta parallela, accade che si immagini un possibile incontro dei personaggi a causa della curvatura dello spazio provocata dalla presenza di corpi (in particolare le descritte graziose forme corporee di Ursula H’x), per l’intervento del campo gravitazionale di qualche nebulosa o galassia lontana, o ancora, utilizzando una sorta di funambolica dissolvenza cinematografica, per assimilazione della traiettoria rettilinea di caduta nel vuoto alla linea d’inchiostro della scrittura corsiva con cui viene vergato sul foglio bianco la storia della Forma dello spazio. Così, con splendida arguzia, il racconto al passato del cadere nel vuoto viene a coincidere col dipanarsi al presente del ductus della scrittura del narratore, e ne viene assorbito[108]. Alla fine del racconto si scopre che tutto ciò che è stato narrato altro non è che la successione di congetture irrealizzabili e che lettere e parole della scrittura potrebbero indifferentemente essere srotolate in un filo nero di rette continue parallele che non significano altro che se stesse senza incontrarsi mai «così come – chiosa il narratore protagonista - non ci incontriamo mai nella nostra continua caduta io, Ursula H’x, il Tenente Fenimore, tutti gli altri»[109]. Il sogno iniziale appare, allora, come una sorta di mise en abîme dell’intera cosmicomica, una digressione raziocinante sulla solitudine dell’uomo e un amaro apologo sulla consistenza puramente finzionale dei desideri e dei sentimenti più umani, accertata ricorrendo alla logica di un discorso scientifico.
Si potrebbe dire di Calvino quello che Queneau diceva a proposito di Flaubert, e che Calvino riscrive in Molteplicità, il quinto dei Six memos for the next millenium: «Flaubert è per la scienza nella precisa misura in cui essa è scettica, riservata, metodica, prudente umana. Ha orrore dei dogmatismi metafisici, dei filosofi (Segni, cifre, lettere)»[110].
Calvino non vuole essere uno scrittore scientifico, ma vuole giocare con la scienza e lasciarsi incantare dalle immagini e dalle suggestioni che ne derivano[111].
Nella sua prosa tersa e leggera, calibrata e composta, la scienza è una sorta di antidoto contro le idées reçues contemporanee ed è, insieme all’ironia, l’habitus di uno scettico che è erede della più alta tradizione della prosa italiana e nel quale oggi è davvero giusto riconoscere «una delle voci più precise della disperazione contemporanea»[112].
11 giugno 2024
[1] Scrive in proposito Pier Paolo Pasolini: «Il rapporto di Calvino con l’italiano medio sta tra quello di Soldati, di Delfini e di Moravia: non è polemico. C’è un’accettazione della normatività, e un’assunzione di essa su un reticolato europeo, specialmente francese: e tutto ciò è reso possibile dal distacco ironico» (P.P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche, in «Rinascita», 26 dicembre 1964; ora in Id. Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 19912, p. 9). Sulla prosa di Calvino sono ancora oggi di fondamentale importanza le puntuali osservazioni di Vittorio Spinazzola: «L’ordinamento sintattico è il suo punto di forza più sicuro: è ammirevole la maestria con cui Calvino fronteggia, alterna, compensa un periodare simmetricamente proporzionato, ritmicamente scandito, con un fraseggiato dinamico dalle movenze fresche e sciolte» (V. Spinazzola, L’Io diviso di Italo Calvino, in «Belfagor», 42, V, 1987, p. 512).
[2] Calvino è stato autore di un’antologia di letture per la scuola (La lettura. Antologia per la scuola media, a.c. di I. Calvino e G. Salinari, Bologna, Zanichelli, 1969, voll. 3), nonché curatore di edizioni scolastiche delle proprie opere, anche con il blando pseudonimo anagrammatico di Tonio Cavilla (cfr. I. Calvino, Prefazione 1965 all’edizione scolastica del Barone rampante, Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, con Prefazione di J. Starobinski e Introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2003, vol. 1, pp. 1225-1232).
[3] Emblematico è il giudizio di Franco Fortini: «Do invece un’importanza molto minore alla serie legata all’ideologia scientista, alle opere fantastiche, alle combinazioni di tipo struttural-linguistico. E giudico in modo molto negativo le Lezioni americane: una serie di banalità a uso degli stranieri, presentate con il sistema, molto americano, delle schede fatte per gente che non ha familiarità con la nostra cultura e in totale disprezzo della dimensione storica» (in «Wimbledon», I, 1990, 4, pp. 2-4); altrettanto tranchant A. Moresco, Il Paese della merda e del galateo. Note contro Calvino, in Id., Il vulcano. Scritti critici e visionari, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
[4] G. Contini, Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968, Firenze, Sansoni, 19836, pp. 931 e 1008
[5] I. Calvino, Intervista a Maria Corti, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 2921-2922; vedi anche la lettera a Guido Almansi del 27 febbraio 1978: «Io da libro a libro cambio metodo e quadro di riferimento perché non riesco a credere mai due volte di seguito alla stessa cosa, dunque sono “volpe”» (in I. Calvino, in Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 1336).
[6] A proposito del travaglio di questa attività, vedi l’intervista rilasciata da Calvino a Paolo Monelli: «Non ho mai scritto una pagina senza torturarmi. Cancello continuamente, correggo, cancello di nuovo» (I contemporanei al girarrosto, intervista in «Il Successo», giugno 1961).
[7] I. Calvino, Nelle Cosmicomiche continuo il discorso dei romanzi fantastici, in Id., Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 2012, pp. 175-176.
[8] Ci si riferisce alla recensione a Il sentiero dei nidi di ragno apparsa su «L’Unita» del 26 ottobre 1947 (ediz. romana), poi in C. Pavese, Saggi letterari, Torino, Einaudi, 19732, pp. 245-247. La fortuna della formula di Pavese è testimoniata dal suo ricorrente uso nella titolazione di pubblicazioni su Calvino, da quelle di critica letteraria (cfr. A. Battistini, Lo scoiattolo della penna. L’arte combinatoria di Italo Calvino, in Osmosi letterarie. Sei paradigmi moderni a cura di F. Mattesini, Novara, Interlinea, 2003), a quelle sul Calvino “politico” (cfr. L. Di Bari, Lo scoiattolo della penna. Profilo di Italo Calvino dall’impegno politico alla rottura con il PCI, Lecce, Pensa Multimedia, 2009), a quelle biografiche (cfr. F. Gambaro, Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventura di Calvino a Parigi, Milano, Feltrinelli, 2023) o a quelle di divulgazione per ragazzi (cfr. G. Biferali, Italo Calvino. Lo scoiattolo della penna, Roma, La nuova frontiera junior, 2017).
[9] M. Barenghi, Introduzione a Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a.c. di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 2007, t. 1, p. XXXVI.
[10] B. Terracini, Stelloncino di «Cronaca» dell’«Archivio glottologico italiano» del 1966, pp. 94-97; poi, Uno “Stelloncino” di Cronaca dell’«Archivio». Calvino, Un segno nello spazio, in I segni, la storia, a cura di G.L. Beccaria, Napoli, Guida, 1976, pp. 359-363.
[11] La Presentazione 1966 si legge ora in I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Prefazione di J. Starobinski, Introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2002, vol. 1, pp. 1235-1236.
[12] In I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. 1, p. 1187.
[13] I. Calvino, Un segno nello spazio (Le Cosmicomiche), in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. 2, pp. 113-114).
[14] I. Calvino, lettera a Benvenuto Terracini, 24 aprile 1967, in Id., Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 954.
[15] D. Del Giudice, Colloquio con I. Calvino. Un altrove da cui guardare l’universo, in «Paese Sera», 7 gennaio 1978; vedi anche Situazione 1978, in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, t. 2, pp. 2828-2834.
[16] cfr. I. Calvino, Per chi si scrive?, in «Rinascita», n. 46, 24 novembre 1967; ora in Id., Una pietra sopra, fa parte di Saggi 1945-1985, cit., t. 1, pp. 199-204.
[17] Calvino rassegna ufficialmente le dimissioni dal P.C.I. con una lettera molto articolata del 1° agosto 1957 (Cfr. Lettera alla segreteria della cellula «G. Pintor» e della 2a sezione «A. Gramsci» - Torino. Alla segreteria della Federazione Torinese. Alla segreteria del Partito Comunista Italiano. Alla direzione dell’«Unità», 1° agosto 1957, in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2000, pp. 502-505.
[18] G. Guglielmi, Appunto sul romanzo, in Id., Letteratura come sistema e come funzione, Torino, Einaudi, 1968, p. 41.
[19] I. Calvino, Lettera a G. C. Ferretti, 15 febbraio 1966, in Id., Lettere 1940-1985, cit., pp. 919-921. La tendenza al «rigore dell’astrazione» viene in seguito sempre confermata da Calvino: «ogni illusione d’armonia nelle cose contingenti è mistificatoria» (D. Del Giudice, Colloquio con I. Calvino. Un altrove da cui guardare l’universo, in «Paese Sera», 7 gennaio 1978; vedi anche Situazione 1978, in I. Calvino, Saggi 1945-1985, cit., vol. 2, p. 2830).
[20] Ibidem, p. 2829.
[21] Ibidem, p. 2831.
[22] Ibidem, p. 2831.
[23] cfr. D. Calcaterra, Il secondo Calvino. Un discorso sul metodo, con Prefazione di A. Zaccuri, Milano-Udine, Mimesis, 2014.
[24] C. Milanini, Introduzione a I. Calvino, Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, con Prefazione di J. Starobinski, Milano, Mondadori, 2003, vol. 1, p. XXXVIII.
[25] La strada di San Giovanni apparve in «Questo e altro», n. 1, s.d. (ma, in realtà, pubblicato nel 1962).
[26] La stampa della Giornata di uno scrutatore fu terminata il 23 febbraio 1963 presso l’editore Einaudi (Collana «I Coralli», n.175; in sopracoperta un disegno di Paul Klee).
[27] I. Calvino, La strada di San Giovanni, in I. Calvino, Romanzi e racconti, a cura di C. Milanini, M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 20226, vol. 3, p. 25.
[28] Cfr. I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. 2, pp. 1311-1317; D. Scarpa, Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, Milano, Hoepli, 2023, pp. 265-268 e passim.
[29] I. Calvino, Il 7 giugno al Cottolengo, intervista ad A. Barbato, in «L’Espresso», 10 marzo 1963, p. 11.
[30] Anche nella nota del risvolto di copertina della prima edizione del racconto l’autore ricorda che la vicenda narrata è una “allegoria” ispirata alla sua reale esperienza come scrutatore nelle elezioni del 1953 e 1961, per cui cfr. I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. 2, pp. 1311-1317.
[31] A proposito della Giornata di uno scrutatore sono rivelative le parole che Umberto Eco ebbe a scrivere in occasione della morte di Italo Calvino: «[Calvino] aveva dato con quel libretto uno dei testi di più alta e grande religiosità che avessi mai letto». U. Eco, Allora tanto vale che mi conceda un riposo millenario, in «la Repubblica», 20 settembre 1985.
[32] I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. 2, p. 42.
[33] I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. 2, pp. 48-49.
[34] I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. 2, pp. 49.
[35] I. Calvino, Lettera a L. Caretti, 8 febbraio 1963, in I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Torino, Einaudi, 1991, p. 424.
[36] Ibidem, p. 424.
[37] I. Calvino, Il Mare dell’oggettività, in «Il Menabò», n. 2, febbraio 1960, poi in Id. Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società (1980); ora in Saggi 1945-1985, cit., t. 1, pp. 52-60, in particolare p. 52.
[38] Ibidem, p. 54.
[39] Ibidem, p. 60.
[40] Ibidem, p. 60.
[41] I. Calvino, Dialogo di due scrittori in crisi in Id., Saggi 1945-1985, cit. t. 1, pp. 83-89), specificamente p. 85.
[42] Ibidem, pp. 87-88.
[43] Ibidem, p. 89.
[44] Ibidem, p. 86.
[45] Ibidem, p. 83.
[46] I. Calvino, La sfida al labirinto, in Saggi 1945-1985, cit., t. 1, pp. 105-123.
[47] U. Eco, Del modo di formare come impegno sulla realtà, in «il menabò», fasc. 5, luglio 1962.
[48] I. Calvino, La sfida al labirinto, in id., Saggi 1945-1985, cit. p. 123.
[49] U. Eco, Del modo di formare come impegno sulla realtà, cit.
[50] I. Calvino, Intervista rilasciata a Madeleine Santschi, in «Gazette de Lausanne», 3-4 giugno 1967.
[51] Sul ruolo ricoperto da Calvino nella casa editrice Einaudi, vedi Lettera a Johannes Hoesle, 19 dicembre 1961, in Id., Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 698.
[52] I. Calvino, lettera a P. Levi, 22 novembre 1961, in Id., Lettere 1940-1985, cit., pp. 695-696.
[53] Ivi.
[54] cfr. G. De Santillana, Fato antico e fato moderno, Roma, Donzelli, 2011.
[55] cfr. G. De Santillana, Fato antico e fato moderno, cit.; sulle informazioni cosmologiche e astronomiche presenti nel mito antico, vedi anche G. de Santillana, Il mulino di Amleto, Milano, Adelphi, 2009, p. 184 e passim.
[56] I. Calvino, Il cielo sono io, in «la Repubblica», 10 luglio 1985, ora col titolo Fato antico e fato moderno di Giorgio de Santillana in Id. Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, t. 2, pp. 2088-2089; per l’incontro a Boston con de Santillana nel 1959 e i temi della conferenza del Teatro Carignano del 1963, cfr. anche l’intervista rilasciata a Ernesto Ferrero con il titolo Se lo scrittore sapesse che la scienza è anche fantasia, in «Tuttolibri», X, 390, 21 gennaio 1984 e le cd. Lezioni americane (Esattezza), in I. Calvino, Saggi 1945-1985, cit. t. 1, p. 677.
[57] I. Calvino, Meglio il silenzio che le chiacchiere dei notabili, intervista di Alberto Arbasino, «Il Giorno», 6 maggio 1963; ora in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano Mondadori, 1995, t. 2, pp. 2760-2768.
[58] I. Calvino, Lettera a G.B. Vicari, 29 ottobre 1963, in I. Calvino in Lettere 1940-1985, cit., pp. 738-739.
[59] I. Calvino, Lettera a G.B. Vicari, 9 marzo 1963, in I. Calvino I libri degli altri, Torino, Einaudi, p. 429.
[60] I. Calvino, Le Cosmicomiche, in «Il Caffè politico e letterario», novembre 1964, p. 40.
[61] La forma dello spazio apparve contemporaneamente su «L’Espresso» del 14 novembre 1965, col titolo Cadendo con Ursula.
[62] I. Calvino, Postilla 1975 a La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2022, vol. 2, p. 1305.
[63] I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, in Id. Una pietra sopra (1980), ora raccolte nei Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, t. 1, pp. 233-234.
[64] I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura (1968), in Id. Una pietra sopra (1980), ora raccolte nei Saggi 1945-1985, cit., t. 1, pp. 233-234 e 236).
[65] I. Calvino, Definizioni di territori: il comico (1967), in Id. Una pietra sopra (1980), ora Saggi 1945-1985, cit., pp. 197-198.
[66] Scrive Santillana: «Le figure mitiche, è vero, nascono e trapassano, ma non come noi mortali… Se si cercasse di definirle come persone e cose, sicuramente svanirebbero ai nostri occhi, quanto i frutti di una fantasia malata. Ma se si rispetta la loro vera natura, riveleranno questa natura come “funzioni”. Funzioni di che? Dell’ordine generale delle cose così come lo si poteva concepire. Queste figure esprimono il comportamento di quel complesso di variabili un tempo chiamato cosmo. Esse combinano in sé varietà, eternità e ricorrenza, poiché tale è la natura del cosmo stesso» (G. De Santillana, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Milano, Adelphi, 1983, p. 73).
[67] I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, in Id. Una pietra sopra (1980), ora raccolte nei Saggi 1945-1985, cit., t. 1, p. 233.
[68] I. Calvino, Visibilità da Lezioni americane, in Id., Saggi 1945-1985, cit., t. 1, pp. 704-705.
[69] I. Calvino, Nota alle Cosmicomiche in «Il Caffè», XII, 4, novembre 1964; ora anche in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. 2, p. 1321, e con lievi modifiche in Id., Premessa 1968 a La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, in Romanzi e racconti, cit., vol. 2, p. 1300.
[70] I. Calvino, Presentazione, in Le Cosmicomiche, Milano, Mondadori, 1993.
[71] Marco Antonio Bazzocchi, in un saggio denso di riferimenti e di spunti di riflessione, ha giustamente osservato: «Narrare – per Calvino – significa svolgere un’attività da scienziato meticoloso tenendo a mente anche le operazioni primitive di uno stregone. Lo scienziato calcola, tenta combinazioni, opera nel mondo dell’esattezza. Lo stregone, invece, entra in contatto con forze misteriose del passato e le richiama per sortilegi più o meno improvvisati». Oltre che con il Leopardi delle Operette morali, Bazzocchi rileva affinità dell’opera di Calvino con Stendhal e Valéry. (cfr. M. A. Bazzocchi, Italo Calvino: immagine e racconto, in Id., L’immaginazione mitologica. Leopardi e Calvino, Pascoli e Pasolini, Bologna, Pendragon, 1996, pp. 83 e 95).
[72] I. Calvino, Postfazione a Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino, Milano, Rizzoli, 1982, ora in Id., Saggi 1945-1985, cit. t. 1, p. 1102.
[73] E. Montale, È fantascientifico ma alla rovescia, in «Corriere della Sera», 5 dicembre 1965.
[74] F. Antonicelli, Nuove fantasie di Calvino, in «Radiocorriere Tv», 5 dicembre 1965.
[75] S. Solmi, Letteratura e società. Saggi sul fantastico. La responsabilità della cultura. Scritti di argomento storico e politico, a.c. di G. Pacchiano, Adelphi, Milano, 2000.
[76] (I. Calvino, Premessa (1968) a La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, in Romanzi e racconti, cit., vol. 2, p. 1302.
[77] Ibidem, p. 1300.
[78] Ivi.
[79] I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. 2, pp. 182-192.
[80] I. Calvino, La sfida al labirinto, in «Menabò» 5, 1962; poi in Una pietra sopra (1980); ora In Saggi 1945-1985, cit., p. 118. Questa convinzione resta ben salda in Calvino, come si evince, ad esempio, da un’intervista ad Alberto Arbasino del 1963: «Tutto il terreno della persona umana è diventato da noi una specie di no man’s land, territorio “non culturale”, e così viene lasciato in mano ai negromanti».
[81] A questo proposito Calvino scrive a L. A. Veršinin, traduttore e curatore delle sue opere in lingua russa: «Prima di scrivere la Spirale il racconto che mi piaceva di più era un Segno nello spazio. È uno dei primi che ho scritto ma ho continuato a lavorarci, correggendolo e riscrivendolo più volte. Dopo Un segno nello spazio ho provato più volte a scrivere qualcosa che gli assomigliasse, per esempio con la Forma dello spazio e Gli anni-luce (altri due racconti cui tengo, specie il secondo. Avrà capito che tengo di più ai racconti più astratti, ai paradossi geometrici, a quelli che hanno a che fare con concezioni dello spazio al limite delle possibilità d’immaginazione». (I. Calvino, Lettera a Lev A. Veršinin, 27 aprile 1966, in Id., Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 926. Sulla diffusione delle opere di Calvino nell’U.R.S.S., cfr. I. Sicari, La ricezione di Italo Calvino in URSS (1948-1991): per una microstoria della diffusione della letteratura straniera in epoca sovietica, Tesi di Dottorato di Ricerca – Ciclo XXIX (2017), supervisione di D. Possamai, esperto esterno E. Zemskova (VŠE Mosca), Università Ca’ Foscari, Venezia (in http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/11970/825246-1186315.pdf?sequence=2).
[82] I. Calvino, Premessa (1968) a La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, in Romanzi e racconti, cit., vol. 2, p. 1302)
[83] I. Calvino, La forma dello spazio in Le Cosmicomiche (1965), ora in Id., Racconti e romanzi, cit., vol. 2, p. 182.
[84] P.V. Mengaldo ha giustamente osservato che il lessico scientifico di Calvino «non supera generalmente una certa soglia media di specialismo, e cioè di intelligibilità» (P. V. Mengaldo, Aspetti della lingua di Calvino, in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, p. 285.
[85] Ibidem.
[86] Sulla sintassi di Calvino vedi E. Testa, Sintassi, in Le parole di Calvino, a.c. di M. Motolese, Treccani, 2023, pp. 147-159.
[87] C. Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, Milano, Vita e Pensiero, 2016, pp. 31-34. Le contraintes sono le restrizioni assunte nella composizione delle opere del gruppo Oulipo (ad esempio, i lipogrammi). Calvino ne fa cenno anche in una lettera ad Andrea Zanzotto del 11 gennaio 1976: «Caro Zanzotto, con gran piacere ho ricevuto la tua e gli allegati. I sonetti m’hanno molto rallegrato: approvo questo ritorno alle forme chiuse: credo sempre di più alla necessità delle contraintes» (I. Calvino, Lettere. 1940-1985, cit., pp. 1289-1291).
[88] I. Calvino, La forma dello spazio, in Racconti e romanzi, cit., vol. 2, pp. 1343.
[89] Ivi, pp. 188-189.
[90] Ibidem.
[91] Ibidem.
[92] M. Lavagetto, Le carte visibili, in Id., Dovuto a Calvino, Torino, Bollati-Boringhieri, 2001, p. 22.
[93] I. Calvino, Lettera a G. Contini, 17 dicembre 1964, in Id., Lettere 1945-1985, cit., p. 840.
[94] cfr. I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. 2, p.1319.
[95] I. Calvino, La forma dello spazio, in Racconti e romanzi, cit., vol. 2, p. 183.
[96] Ivi, p. 186.
[97] Ivi, p. 184
[98] Vedi, ad esempio, I Dinosauri, il racconto che precede La forma dello spazio, in cui il narratore-protagonista Qfwfq, “dinosauro” scampato all’estinzione, racconta una vicenda in cui l’amore si rivela come desiderio inafferrabile.
[99] Andrea Battistini ha giustamente rilevato: «Calvino toglie l’ethos aristotelico, cioè l’introspezione, l’approfondimento psicologico, secondo i canoni della verisimiglianza e della oggettività, a tutto vantaggio del mythos, dell’intreccio, dell’avventura» (A. Battistini, Lo scoiattolo della penna. L’arte combinatoria di Italo Calvino, in Osmosi letterarie. Sei paradigmi moderni a cura di F. Mattesini, Novara, Interlinea, 2003).
[100] I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, in Racconti e romanzi, cit., vol. 2, p. 24.
[101] Ibidem, p. 27.
[102] Ivi.
[103] Ibidem, p. 24.
[104] Ivi.
[105] Ibidem, p. 27.
[106] I. Calvino, La forma dello spazio, in Racconti e romanzi, cit., vol. 2, p. 185.
[107] Ivi.
[108] Cfr. G. Guglielmi, Le «finzioni» di Calvino, in Id., La prosa italiana del Novecento II, Torino, Einaudi, 1998, pp. 154-173.
[109] Ibidem, p. 192. Nel finale della Forma dello spazio, Claudio Milanini segnala l’importanza che assume il «tema autobiografico del risucchio della vita nella scrittura, e del filo della scrittura “come metafora della sostanza pulviscolare del mondo” (… fulminante definizione dalle Lezioni americane)» (C. Milanini, Introduzione a I. Calvino, Racconti e romanzi, cit., vol. 2, p. XXV).
[110] I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi 1945-1985, cit., t. 1, p. 725.
[111] Vedi in proposito quanto scrive Margherita Hack criticando gli errori di Palomar in campo astronomico (M. Hack, Il divario fra due culture, in «Corriere della Sera», 14 ottobre 1975, p. 5).
[112] G. Bollati, Calvino (anche) editore, in «Micromega», 1991, 1, pp. 203-213; poi Id., Calvino editore, in Calvino e l’editoria, a cura di l. Clerici e B. Falcetto, Marcos y Marcos, 1993.