Incontro di Mario Luzi e Foglie di Giorgio Caproni
‘Come le foglie’: Incontro di Mario Luzi e Foglie di Giorgio Caproni
di Michele Abbati
Premessa
“Fare” la poesia contemporanea a scuola sembra ai più un’impresa disperata e i motivi sono molti, non tutti di carattere strettamente didattico: il tempo dedicato in aula alle discipline (sempre più ristretto ed eroso, senza criterio, da attività “extracurricolari” le più svariate), i programmi ipertrofici, da cui risulta oggettivamente difficile decurtare in itinere qualcosa, con la conseguenza di restringere o cancellare lo studio della contemporaneità (si tratta, insomma, di affrontare la questione del canone), la struttura e gli argomenti degli esami di Stato al termine del ciclo di studi (e in questo le cd. Indicazioni nazionali certo non aiutano), la scarsa disposizione a recepire qualunque discorso di carattere eminentemente culturale che non abbia nell’immediato evidenti ricadute pratiche (fa pensare, a tal proposito, la trasformazione “tecnica” degli indirizzi liceali sia nei curricola ministeriali sia nella didassi attuata autonomamente dalle singole scuole; così, appare rappresentativo del milieu culturale antiumanistico il quadro legislativo prima della “Alternanza scuola-lavoro” e successivamente dei cd. P.C.T.O.), la svalutazione dell’educazione letteraria come fattore di modernità, decretata mediaticamente da autorevoli accademici propugnatori di una scuola tecnica e scientifica (si ricordano di recente sui più importanti quotidiani nazionali gli attacchi all’istruzione classica, intessuti per metà di virulente accuse di classismo, tanto surreali quanto anacronistiche e rancorose e, perciò, sospette, e per metà intrisi di uno spirito settario acre e poco illuminato, alla Hard times di Dickens).
Ai fattori sommariamente elencati, se ne aggiungono almeno altri due, intrinseci alla natura della poesia:
1) nella poesia c’è sempre una dose di eccentricità, una spinta soggettiva e individualistica, un certo grado di straniamento. Il discorso poetico tramite la violazione sistematica delle norme dell’ordinario linguaggio referenziale, con cui peraltro rimane in rapporto dialettico, immette in uno spazio di libertà espressiva dove a livello ritmico, fonico, semantico ed emozionale emergono nuove prospettive di significazione. L’écart della parola poetica rispetto alla prosa genera un effetto di spaesamento e una visione del mondo problematica; frequentare i testi poetici significa “abitare poeticamente” il mondo, il che significa, parafrasando le ossimoriche definizioni heideggeriane, avere un habitus familiare con ciò che è estraneo e che si rivela nascondendosi, ricercandone l’essenza, i significati, i valori. Leggere poesia, insomma, è perdere e ritrovare il senso, è sempre un’esperienza singolare, soggetta a un principio di eccezione, tendenzialmente anarchica e, quindi, refrattaria all’insegnamento istituzionale;
2) assai di frequente la poesia contemporanea presenta una forma ardua e impervia (per dissoluzione o implosione), significati ostici e talora inintelligibili (per densità o rarefazione), un rapporto con la tradizione oscuro (per eccesso o per difetto) e sembra aver rinunciato ad ogni aspirazione di comunicare alcunché al lettore, se non appunto l’impossibilità di comunicare qualcosa.
Come affrontare, dunque, una lettura scolastica di un testo poetico contemporaneo?
Dato per scontato che la situazione contingente determina, alla fine, le scelte didattiche operative, consideriamo tuttavia che, in generale, una lezione di poesia, intesa innanzitutto come lectio, rappresenta con le sue dinamiche di partecipazione e ascolto un’occasione rarissima, se non unica, di far fruttare nel calore del dialogo lo spessore polifonico della lingua e la multidimensionalità del testo, come a dire tutte le implicazioni e le risonanze che rendono la lettura un’esperienza profonda e non effimera, al di là della pagina scritta.
La lezione diventa, poi, indispensabile, se pensiamo che la lirica moderna spesso si presenta di primo acchito respingente, il che comporta un decreto di esclusione dai programmi scolastici di autori già storicizzati e imprescindibili. In via preliminare, è necessario individuare proposte didattiche appropriate e un valido criterio per calibrarle può a tutt’oggi essere desunto da un celebre saggio di Franco Fortini del 1991, nel quale si distinguono due tipologie di poesia lirica in base ai parametri di «oscurità» e di «difficoltà»[1]. L’«oscurità» è la caratteristica della poesia indecifrabile in assoluto, perché determinata da una catena di associazioni mentali arbitrarie e intransitive. In un testo l’«oscurità» è intraducibile e non parafrasabile, in quanto non produce equivalenze razionali o rispondenti a una logica individuabile. La «difficoltà» è, invece, un enigma provvisorio dovuto alla forma frammentaria o allusiva, ovvero all’omissione di elementi che rendono la lettera del testo comprensibile. La «difficoltà» non è dunque costitutiva, ma momentanea e può essere risolta dall’acquisizione di un più alto grado di competenze da parte del lettore.
In tal senso sono emblematici i testi che qui proponiamo, Incontro di Mario Luzi e Foglie di Giorgio Caproni, due autori che, nonostante il rilievo che hanno avuto non solo per la poesia, ma in generale per tutta la cultura del secondo Novecento, restano ancora ai margini dei programmi scolastici. Caratterizza i due testi il reimpiego del classico topos delle foglie che, originalmente rigenerato nella forma del contenuto e nella forma dell’espressione, rappresenta esemplarmente il modo di fare poesia di Luzi e Caproni e di sentire il rapporto con la tradizione.
Il topos delle foglie
La similitudine tra uomini e foglie, di ascendenza omerica (Iliade 6, 145-149; XXI 462-67; Odissea IX 51-52), entra stabilmente a far parte della tradizione letteraria occidentale già dall’età antica. Ricorre più volte nella lirica e nel teatro greco, dall’età arcaica all’età classica (Mimnermo, fr. 2 W; Simonide di Ceo, frr. 19-20 W; Bacchilide, V 65 e ss.; Pindaro, Ol. 12.12-16; Bacchilide 5.64-67; Eschilo, Ag. 79-82; Soph. O.T. 1186-88; Aristoph. Av. 686-88) e nella poesia latina (Virgilio, Georgiche III 66 e ss.; Eneide, VI, 309 e ss.; Orazio, Arte Poetica, 60 e ss.), mantenendo l’impronta della matrice epica, ma distaccandosene subito sul piano dei contenuti che vengono variati e adattati di volta in volta nei diversi contesti.[2] Per la poesia in volgare il discorso non muta, innumerevoli sono le riprese e le reinterpretazioni dell’immagine; naturalmente il pensiero corre a Dante, Inferno III 112-117, ma anche al Paradiso XXXIII 64-66, dove la memoria poetica delle «foglie levi» della Sibilla virgiliana si sovrappone all’immagine della neve che «si disigilla», struggente malinconia dell’animo umano che anela alle sublimi esperienze irrimediabilmente perdute.[3] E per finire alle soglie del Novecento come non pensare alla trasformazione della similitudine delle foglie nel linguaggio pascoliano di Novembre (1893): «Silenzio, intorno: solo, alle ventate, / odi lontano, da giardini ed orti, / di foglie un cader fragile. È l'estate, / fredda, dei morti».
In tutti i casi il tertium comparationis che mette in azione l’inlustrans (le foglie) e l’inlustrandum (gli uomini) esprime, con oscillazioni, l’idea di un’esistenza caduca, fragile, labile, malinconica. Senza entrare nel merito delle modifiche formali e degli spostamenti di significato che il riuso della similitudine delle foglie, di origine greco-latina, ha specificamente comportato nel tempo, è chiaro, comunque, che questa similitudine ha una tradizione estesa e ininterrotta, si ripete con delle costanti facilmente individuabili e, inoltre, manifesta l’esistenza di una relazione filogenetica fra le sue successive enunciazioni.
È, quindi, possibile classificare la comparazione fra l’effimera condizione umana e le foglie, nelle sue innumerevoli ripetizioni e nella sua potenziale ripetibilità, come un topos in senso lato, cioè immagine stereotipa o «cliché ad uso comune di tutti gli scrittori», secondo la ben nota definizione datane da Ernst Robert Curtius in Letteratura europea e Medio Evo latino.[4] Seguendo, inoltre, le ormai canoniche riflessioni di Giovanni Pozzi sui topoi,[5] possiamo individuare anche nel topos delle foglie significati che dipendono sia dalla qualità del figurante messa in rilievo (foglia come leggerezza, aridità, fragilità, cromatismo…) sia dall’azione, compiuta o incompiuta, del figurante (foglia come transitorietà, rigoglio e deperimento, fiorire e avvizzire, germogliare della vita e decadimento…).
In un confronto a distanza con questa lunga tradizione, Incontro di Mario Luzi e Foglie di Giorgio Caproni mantengono dell’antico topos gli elementi fissi invarianti, introducendoli in un ambito poetico per forma, pensiero e sensibilità del tutto moderno. L’obiettivo è comprendere l’importanza espressiva del topos e i procedimenti di risemantizzazione messi in atto, oltreché rintracciare i valori estetici e significati contestuali storico-letterari dei due testi poetici, che vengono proposti singolarmente, e un po’ casualmente, così come accade nelle letture antologiche.
MARIO LUZI
(Firenze, 20 ottobre 1914 – ivi, 28 febbraio 2005)
Incontro
Incontro è il componimento che apre, subito dopo un prologo intitolato Voci, la prima delle tre sezioni di Onore del vero, raccolta che Mario Luzi pubblica nel 1957, al termine della prima lunga stagione poetica iniziata, sotto il segno dell’Ermetismo, con La barca (1935 – prima edizione nel 1935) e Avvento notturno (1940), poi proseguita in rinnovate forme con Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952).
Onore del vero e l’Ermetismo: punti di vista critici
Sulla qualifica di poesia ermetica da assegnare o meno a Onore del vero la critica non è unanime. A proposito di Onore del vero Giacomo Debenedetti (siamo negli anni 1957/1958) parla di una fase dell’ermetismo,[6] Gianfranco Contini (nel 1968) del prevalere gradatamente di una misura riflessiva e discorsiva,[7] Pier Vincenzo Mengaldo di avvenuta reazione alla prigionia nel limbo ovattato della poesia ermetica,[8] Giovanni Raboni (nel 1981) di Luzi dialogico e aperto verso l’oggetto che sortisce una restituzione della realtà più normale ed esplicita,[9] Stefano Verdino (siamo nel 2006) di fase finale di una faticosa ricerca poetica che, più che approdare al realismo, chiarifica la contraddittorietà della poesia con il reale,[10] Romano Luperini (si arriva al 2014) di un indubbio primo passo verso il realismo in consonanza con i radicali cambiamenti del genere lirico a partire dagli anni Cinquanta,[11] Rosario Vitale di allontanamento definitivo dall’Ermetismo sotto l’impulso di nuove tensioni lirico-esistenziali,[12] Dario Marcucci di orientamento verso il classicismo modernista sulle tracce di Dante e di Eliot.[13]
Mario Luzi sull’Ermetismo e Onore del vero
Il poeta stesso in una lettera a Vittorio Sereni, datata 12 maggio 1963, riferisce dello sforzo messo in atto anche in Onore del vero per raggiungere sempre più «una captazione del reale e l’identità di prosa e poesia».[14] In una prospettiva più distaccata e riflessa, nel colloquio-intervista del 1983, Luzi ricapitola così l’esperienza della fine degli anni Cinquanta:
«Onore del vero riesce a chiudere nella sua forma abbastanza lineare e trasparente questa facoltà che il sentimento e il pensiero acquistano, di sentire, ma anche di giudicare in certo senso, di essere immersi nella realtà ma di sapersene distaccare contemplativamente».[15]
L’asperità del testo è solo parziale: in verità, lo “scarto” notevole dalla norma che caratterizza il linguaggio della fase ermetica della poesia luziana è temperato in Incontro dalla volontà, sempre più manifesta nelle opere di Luzi a partire dal Dopoguerra, di distendere il discorso poetico in una forma di comunicazione più aperta e naturale, senza sacrificare alla ricerca di franchezza dell’intonazione la profondità della riflessione e l’autenticità della poesia.
Un riscontro teorico di questo nuovo orientamento poetico, teso al superamento dell’Ermetismo, si trova esplicitato nelle lapidarie parole scritte da Luzi come Introduzione a L’idea simbolista, florilegio critico di testi esemplari del Simbolismo, curato dal poeta nel 1959, poco dopo la prima edizione di Onore del vero:
«Le vent se lève. Il faut tenter de vivre! È il grido “di Valèry” nel quale si conclude la storia dell’idea simbolista; è anche la risposta che scriveremmo qui [ … ]: vivere nella vita, parlare nella lingua: sicché la sintesi alla quale l’arte non può rinunziare senza perire avvenga nella vita; e la chiave sia posta nell’umano, qualunque reame debba aprire e rivelare».[16]
La poesia rimane strumento di conoscenza e di riflessione, ma non in senso orfico come nel Simbolismo e, va da sé, nell’Ermetismo, sua estrema manifestazione novecentesca. La chiave d’interpretazione deve essere ancorata all’umano «qualunque reame – scrive ironicamente il poeta – debba aprire e rivelare». Non può sfuggire la consonanza tra queste parole e alcuni famosi versi di Corno inglese, una delle più antiche liriche di Eugenio Montale, composta fra il 1916 e il 1920: «(Nuvole in viaggio, chiari / reami di lassù! D’alti Eldoradi malchiuse porte!)». La contemplazione delle nuvole sospinte dal vento nel cielo al tramonto produce in Montale un’ironica rêverie fiabesca che associa illusoriamente il dato naturale a immaginari sovramondi o tesori, malcelati dalla realtà fenomenica; nello stupore esibito dall’esclamazione nominale della parentetica, si può intravedere una parodia dei rapimenti estatici e delle tendenze misticheggianti diffuse nella poesia di fine Ottocento, della poesia inaccessibili a chi più modestamente appartiene alla «razza / di chi rimane a terra». I «reami di lassù» di Corno inglese, allocuzione intima del giovane poeta al proprio «scordato strumento / cuore», fanno il paio con i versi programmatici cronologicamente posteriori di Non chiederci la parola (1923), nei quali si nega universalmente che «oggi» la poesia offra «la formula che mondi possa aprirti» e «squadri da ogni lato / l’animo nostro informe»; al contrario, si constata che è in grado di dire solamente «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». La crisi del concetto di realtà e dell’idea di individuo sia in Montale sia in Luzi (che dal Montale degli Ossi di seppia delle Occasioni risulta profondamente influenzato) comporta necessariamente la ricerca e l’elaborazione di una nuova nozione di poesia, ricerca che permane come una costante dell’intera carriera poetica.
La poesia oltre l’Ermetismo
Che cos’è “poesia” alla fine della lunga stagione simbolista e post-simbolista, delle sperimentazioni del primo Novecento? Per Luzi è «vivere nella vita parlare nella lingua». Si tratta, poi, di una concezione così distante da quella della terza generazione dell’Ermetismo? Ricordiamo che Francesco Flora in un libro capitale del 1936, La poesia ermetica, aveva decretato la condanna delle opere di Giuseppe Ungaretti e Paul Valery (in realtà antesignani della più giovane generazione dei poeti “ermetici”) in quanto arbitrariamente ellittiche e smodatamente analogiche, cioè oscure e sostanzialmente incomprensibili.[17] L’Ermetismo italiano raccoglie l’eredità di questi nobili padri, con la poesia dei quali condivide diversi aspetti non solo formali, pur portando in sé un tratto distintivo particolare, del tutto nuovo, che consiste nella sua riottosità nei confronti della retorica e della cultura ufficiale del regime fascista. I poeti dell’Ermetismo hanno trasformato una cifra stilistica nella loro salvezza, «il non avere – come ha scritto Carlo Ossola - mai commerciato con le parole compromesse del presente». L’introflessione del discorso poetico, l’essenzialità anche impervia dell’espressione, la raffinata allusività delle immagini, il riconoscimento del disagio e della fragilità esistenziale, il rapporto problematico e sofferto con il mondo, emblematicamente condensato nel riflettersi e rifrangersi reciproco dell’Io poetico nel paesaggio e del paesaggio nell’Io, testimoniano di un esercizio della letteratura in assoluto, ovverosia di «letteratura come vita», per ricorrere al titolo-vessillo dello saggio fondamentale dedicato da Carlo Bo nel 1938 ai nuovi poeti “ermetici”, nel quale si legge: «[…] la letteratura […] collabora alla creazione di una realtà, che è il contrario della realtà comune[…] ».[18]
La poesia della “naturalezza”
Il passaggio alla concezione del «vivere nella vita, parlare nella lingua» avviene in Luzi attraverso Onore del vero, libro che segna il distacco dall’Ermetismo e l’apertura a una forma di poesia più distesa e dialogante. Il filo che collega la prima e la seconda fase della poesia di Mario Luzi è la permanente ripulsa dei miti di massa e delle strutture ideologiche dai risvolti tragici e disumanizzanti che si affermano nel corso del Novecento; sulle macerie ancora fumanti dell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale, la parola poetica, che nell’Ermetismo era tanto raccolta, introflessa e rarefatta da essere tendenzialmente destinata al silenzio, intraprende la strada della semplicità, della sincerità o meglio, per usare un termine caro a Luzi, della naturalezza. Nella continuità di questa evoluzione le immagini ricorrenti della natura e del quotidiano oggettuale non si presentano più come sfuggenti e illusorie allusioni ermetiche, ma come una riserva di materiali che il Contini, con buona dose di provocazione, ha voluto equiparare ai «correlati oggettivi (consecuzioni d’immagini equivalenti alle occasioni liriche)» di T. S. Eliot, autore del resto assimilato da Luzi nelle letture fatte proprio nel periodo di Onore del vero.[19]
Sembra una costante di questa nuova attività poietica il ricorso a correlati oggettivi o, come è stato detto, a «oggettivazioni emblematiche» appartenenti all’immaginario tradizionale e il loro inserimento in una rete immaginativa personale.[20] Mario Luzi non solo prende spunto dai testi degli autori prediletti (Dante, Leopardi), ma attinge direttamente dal serbatoio dei loci communes alcune delle immagini più diffuse della letteratura, come, ad esempio, quella degli uomini come foglie. Il senso e l’effetto dell’assimilazione di stereotipi letterari nella poesia luziana si riscontra emblematicamente nella lirica intitolata Incontro, il componimento, come si è detto, incipitario delle tre sezioni di Onore del vero.
Preliminari per una parafrasi
Innanzitutto, poniamoci di fronte all’enigma di questa poesia (e di fronte a ogni vera poesia) senza impazienza e con atteggiamento di umiltà, evitando pertanto di nutrire l’ambizione di decifrarlo tutto e subito. L’analisi e la parafrasi non è un’ostensione del testo. I significati di un testo poetico si rivelano così, magari all’improvviso leggendo e rileggendo, e poco servono l’esperienza e la dottrina accumulata se siamo convinti che esse conducano a un’interpretazione univoca e definitiva. La grande letteratura e la poesia offrono solo una riserva infinita di dubbi.
Quindi, come comportarsi con un testo poetico, qual è Incontro di Mario Luzi, per molti aspetti impervio e tanto distante dal normale linguaggio quotidiano? Accettiamo, in via preliminare, che un testo poetico sia un discorso così altamente formalizzato da risultare immodificabile e che non si possa neppure spostare una sola parola de L’infinito di Leopardi, salvo distruggerne l’insieme («nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia» scrive Dante in Convivio I viii 14) e, quindi, accettiamo anche il fatto che si giustifichi da sé, per quello che è, avendo un’esistenza vincolata alla sua specifica e inalterabile formulazione (i filosofi, riguardo a ciò, parlerebbero di aseità). L’oscurità della parola poetica più che essere esplicata deve essere convertita in un’energia ermeneutica che spinga il lettore oltre l’inerzia dei fenomeni, che faccia emergere significati altrimenti inaccessibili e mostri l’enigmatica sostanza dell’esistenza nell’unica maniera possibile, perché diventi dicibile e comunicabile. Che fare, dunque? Accompagnare alla lettura come a una passeggiata nella natura: un particolare che osserviamo ci dà godimento e forse ci dice qualcosa anche di noi stessi, ma nessuno ha la presunzione di avere una precisa conoscenza di tutto ciò che incontra, anzi, non si pone neppure il problema a priori.
Parafrasi di Incontro
Ecco, allora, un tentativo di parafrasi del testo di Luzi, diviso in sezioni, senza commento e spiegazione, e con un minimo di integrazioni poste tra parentesi, per non far svanire o depotenziare idee e suggestioni di significati latenti evocati dalla polisemia della parola poetica. È una sorta di epoché che precede il ritorno al testo stesso.
I sezione
Non mi spinge un sentimento di amore, ma un desiderio, anche oggi come in passato, di percorrere questa strada, rimasta sconosciuta, che mi porta a te e agli altri. Nel ripercorrerla passo a passo incontro, in corrispondenza degli alberi, i ricordi degli anni, i vari anni e i segni indistinti del loro passaggio: frutti caduti e agli incroci del percorso una scia di foglie che (per il vento) strisciano appena a terra o si disperdono in aria. (Come il turbine delle foglie), desideri e dolori si scontrano disordinati (nella memoria) e io li attraverso e mi sento gelido.
II sezione
Tu dici che il tempo porta a compimento la sua opera, ovvero distrugge il manto di foglie che ricopre i viali che io oggi ripercorro, e dà fuoco e incenerisce anche il cumulo delle foglie. Io sono divenuto un’ombra vana che cambia la sua posizione in questo fuoco che perpetuamente annichilisce tutto. E tu che mi parli, chi sei? Sei una persona ancora viva o uno spirito che mi appare in sogno in questa occasione?
III sezione
Osservami bene: sono ciò che resta dei tanti o pochi anni passati, da fanciulla sono diventata madre e una madre anche quando è sconfitta dalla vita è fedele al suo ruolo, sta salda o finge di esserlo, perché il figlio deve imparare da lei a conoscere la vita ed estrae la linfa che lo sostiene dalla madre, anche se è come un campo ormai inaridito. La fatica della madre non avrà mai termine.
IV sezione
Soffia un vento che sottrae di rovo in rovo la palla e confonde i giochi del figlio, disperde le braci del fuoco; e all’improvviso tu (spirito) che parlavi taci… così è svanito un’istante della vita di entrambi.
V sezione
Il sole ormai ritira la sua luce verso la linea dell’orizzonte, a poco a poco se ne va (tramonta) e il vento ancora non si calma. Tra le cime degli alberi, dove ancora rimane un riflesso rosso del tramonto che sembra soffiato dal vento, qualche foglia è trasportata in un turbine di vento verso la schiera delle altre foglie. Non accade altro: è il tempo della giornata (il tramonto) che indica che ognuno deve riprendere da solo la strada della sua vita, procedendo attraverso questo percorso in cui appaiono immagini del passato e foglie (spoglie di alberi). Tu, che mi precedi, non sai se c’è una luce che illumina il futuro di questa notte.
Sintesi
Si può azzardare anche un resoconto più generico e schematico:
In una sera autunnale il poeta si trova a camminare lungo una strada alberata coperta dalle foglie cadute che il vento fa strisciare a terra o solleva leggere in volo. La situazione, per analogia, induce il poeta a una riflessione nostalgica sul tempo passato e sulla sua indifferenza affettiva nei confronti degli altri. Il tempo vanifica tutto e tutto consuma, in un rogo perpetuo. Al poeta, che si sente già un’ombra inconsistente in continua peregrinazione, appare un’immagine onirica femminile, una specie di remoto sogno materno, che risponde alle sue sofferte domande: compito senza fine di una madre è sostenere saldamente il figlio che da lei deve apprendere la vita. L’incontro svanisce in un attimo come spazzato dal vento, lo stesso che allontana tra i rovi la palla con cui gioca il bambino.
Mentre gli ultimi tenui bagliori de sole si spengono in lontananza, il vento spinge ancora in un turbine qualche foglia verso tutte le altre: sono come uomini che in fila si rimettono in cammino nel buio della notte.
Il topos della foglie
Con Incontro, ultimo testo della sezione degli Ossi di seppia di Eugenio Montale intitolata Meriggi e ombre, questo testo di Luzi condivide non solo il titolo, ma anche la situazione di fondo e una serie di immagini che fanno pensare a una coincidenza non casuale. Nella poesia di Montale si tratta di un incontro con una sconosciuta figura femminile, al tramonto, in una strada percorsa dal poeta solitario e triste, battuta dal vento foràno e lungo la quale si scorge una folla di uomini ridotti allo stato vegetale o allineati in un corteo simile a quello degli ipocriti incappati del XXIII canto dell’Inferno dantesco. Il fantasma femminile si dissolve rapidamente e il poeta invoca la sua intercessione nella speranza che il ricordo di lei, unico residuo di umanità, lo accompagni sensibilmente e gli dia il coraggio di «scendere» la vita senza viltà.
Assonanze montaliane si possono cogliere anche nella radicale negazione dell’incipit, nell’uso del «tu» indeterminato, dal modo dialogico, ma
nel testo di Luzi il figurante foglie - solo accennato in Montale, verso la chiusa del componimento, come suggestiva metamorfosi di una «misera fronda» nelle chiome dell’amata perduta – ha grande risalto e viene estesamente elaborato, occupa una posizione iniziale (vv. 6-7) per essere ripreso ad anello nell’ultima sezione (vv. 33-35); costituisce, per così dire, la cornice emotiva entro cui si sviluppa l’intera poesia ed è resa possibile l’apparizione-incontro, evento centrale del testo (vv. 15-25).
Il paesaggio si configura come un luogo lirico, dove i riferimenti oggettivi («piede degli alberi, v.4; «bacche / cadute», vv. 4-5; «crocicchi», v.5; «una setta di foglie», v. 6) hanno un valore evocativo e danno risonanza alla dimensione emotiva dell’abbandono e della privazione («Incontro / anni…, anni», vv. 3-4; «Desideri / e pene fanno ressa nella mischia / e io vi passo in mezzo e gelo», vv. 7-9). In questa spazialità ridotta e orientata verso il basso, ai piedi degli alberi della via percorsa giace «una setta di foglie /striscianti o alzate a volo» (v. 7), «il vello dei viali» (v. 12) che il vento «lacera» (v. 12), immagine da cui analogicamente scaturisce quella di un «rogo» che arde (v. 13). Il topos tradizionale delle foglie funziona come pattern e garantisce coerenza di significato allo slittamento nell’immagine dell’innalzarsi improvviso delle fiamme di un rogo (vv. 12–13) che è «fiamma / della morte perpetua» (vv. 14-15).[21] Le foglie sono il traslato immediato degli anni, delle pene e dei desideri (vv. 4, 7-8) e nelle loro accennate e sottintese qualità (molteplicità confusa, secchezza, leggerezza) e nelle loro azioni (strisciare, alzarsi a volo, turbinare) rappresentano per analogia la vanità della vita dell’uomo divenuto «Vana … / ombra» (vv. 13-14), «spirito» (v. 16), «sogno» (v. 17). In rapida successione l’immagine delle foglie si anima di risonanze emotive individuali e appare come la soglia che il poeta nel suo viatico attraversa per immergersi in un mondo che è la proiezione di un’interiorità profonda, ma incerta ed esitante. Nella sezione centrale di Incontro, come in una fase liminare del sonno, all’angosciosa incoercibile scoperta di essere senza più consistenza (vv. 13-14), si aggiunge l’improvvisa percezione sensibile della presenza di un “altro”, l’apparizione eidetica di un personaggio femminile a cui il poeta si rivolge direttamente incerto della sua esistenza. È una di quelle rivelazioni che si compiono in «un istante della nostra vita» (v. 29). La voce femminile, «mutata di fanciulla in madre» (v. 20), enuncia con semplicità (naturalezza) il principio dell’amore materno, potentemente universale («una madre anche vinta tiene fede, / sta salda o finge sulla terra / ché il figlio deve apprendere la vita / e suggere dal campo, anche sfiorito», vv. 21-24) e delicatamente intimo («Questa fatica non avrà mai fine», v. 25).
Svanita l’apparizione e terminato il colloquio (vv. 28-29), nella quinta e ultima sezione di Incontro, mentre si spengono gli ultimi bagliori corruschi del sole al tramonto, ritorna circolarmente l’immagine iniziale delle foglie, che ora si aggiungono turbinanti nel vento alla loro schiera (vv. 34-35) e vengono equiparate a una tratta d’anime e di spoglie (v. 38), al cammino della vita che ogni uomo insieme alla moltitudine degli uomini è condannato a compiere (v. 37), nell’oscurità, senza avere la certezza di una luce lo guidi (v. 40). Anche nella ripresa del motivo topico (v. 35), le foglie sono i figuranti dell’effimero, della fragilità, della caducità, dell’incertezza dell’esistenza; è chiaro, tuttavia, che i significati tradizionali del topos, l’antitesi vita-morte, generazione-dissipazione, fioritura-inaridimento, vengono qui reinterpretati e connotati in modo nuovo da un particolare pathos che nasce dal contrasto tragico fra la malinconia senza speranza della condizione umana e l’ostinato sentimento materno della vita (vv. 20-25). L’improvvisa epifania della femminilità indomita irradia, dunque, di un nuovo senso etico il mondo deserto e dolente. Nel tramonto attraversato da «anime» e «spoglie» (v. 38) sospinte, come schiera di foglie, dal vento questo spirito femminile rappresenta, in forma dubitativa, la possibile guida nell’oscurità.[22]
GIORGIO CAPRONI
(Livorno, 7 gennaio 1912 - Roma, 22 gennaio 1990)
Cenni sull’opera poetica di Giorgio Caproni
L’incontro di Giorgio Caproni con la poesia risale al 1932,[23] subito dopo l’interruzione degli studi al Liceo musicale della sua città d’elezione, Genova.[24] La prima fase di una carriera poetica longeva e sempre qualitativamente altissima inizia con la pubblicazione di Come un’allegoria (1936), Ballo a Fontanigorda (1938), Finzioni (1941), raccolte giovanili in cui prevalgono forme metriche brevilinee settecentesche e popolareggianti, spesso indicate come “canzonette”, proseguendo poi con Cronistoria (1943) e Passaggio d’Enea (1956), in cui appaiono anche sonetti e testi polistrofici dalla struttura più compatta, le cosiddette “stanze”; il graduale passaggio alla seconda fase, caratterizzata da una tendenza alla forma narrativa e ai temi della realtà, si completa con Il seme del piangere (1959), una sorta di trenodia per la morte della madre Anna Picchi, e con Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965) che, concepito come poemetto narrativo sulla discesa nel Limbo e il dialogo con i morti, assomma una serie di testi assottigliati fino all’essenziale; la terza fase è segnata da Il muro della terra (1975), raccolta, con titolo dantesco (Inferno, X 2), emblematica della poesia “magra” di Caproni, tendente alla forma concisa e geometrica dell’ epigramma, seguito da Il franco cacciatore (1982) e Il Conte di Kenvenhüller (1986), brevi o brevissime poesie “esistenzialiste” collegate da un fitto gioco di rimandi alla maniera delle partiture musicali; quindi, troviamo Versicoli del controcaproni (1983), Erba francese (1979-1983) e, infine, Res amissa (1991), pubblicazione postuma curata dal filosofo Giorgio Agamben, canto nostalgico per il Bene che da tutti viene ricevuto in dono e da tutti viene perduto.
Temi e caratteri della poesia di Giorgio Caproni
Lo stile di Caproni nasce da modelli del tardo Ottocento e del primo Novecento (Carducci e Pascoli), sui quali si innestano prevalentemente autori distanti dalla linea ermetica (Saba, Sbarbaro e i poeti liguri in generale), ma anche Montale, Ungaretti ed esempi della letteratura straniera, specialmente francese, di cui Caproni è stato un importante traduttore.[25]
L’opera poetica di Caproni si coagula fin dall’inizio intorno a tre grandi temi, la città, la madre e il viaggio, temi che condividono un unico denominatore, ovvero l’esilio e la nostalgia del perduto.[26] Da qui derivano “motivi” oggettuali e concettuali continuamente ripresi e variati: la caccia (cacciare ed essere cacciati), il lutto, il nulla e la “morte” di Dio, la frontiera, i luoghi e oggetti abituali (latteria, osteria, stazione, funicolare, bicchiere, bicicletta, valigia…). Come ha scritto Giuseppe De Robertis a proposito del viaggio di Stanze della funicolare (1950), la giustapposizione di immagini e temi usuali creano una «epopea casalinga vivida di umori e di amari lampi»,[27] ovvero una narrazione epica e ironica, popolare e colta di un poeta per autodefinizione humile et orgoglioso.[28]
Liricità e racconto: la poesia “magra”
Progressivamente, infatti, si registra nel tempo una tendenza a costruire il messaggio poetico in senso narrativo, benché non vengano mai meno i toni lirici, le forme metriche stringate, la musicalità apparentemente semplice e popolare, senza enfasi. «Nessuno come lui – scrive in sintesi Gian Luigi Beccaria - ha saputo prima cantare e narrare insieme, poi narrare e continuare a cantare insieme».[29] La sobrietà è la cifra che marca tutta la poesia di Caproni, è una sofferta etica della scrittura, una pietas che trova il suo più puro enunciato nelle umili parole di Battendo a macchina in Il seme del piangere (1959): «Mia mano, fatti piuma: / fatti vela; e leggera / muovendoti sulla tastiera, / sii cauta. E bada, prima / di fermare la rima, / che stai scrivendo d’una / che fu viva e vera. // Tu sai che la mia preghiera / è schietta, e che l’errore / è pronto a stornare il cuore. / Sii arguta e attenta: pia. / Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita».
Antinovecentismo
Insomma, con la “poesia magra”, qui così puntualmente descritta nelle sue parti costitutive,[30] si può parlare di “anti- novecentismo”, per usare il concetto elaborato per la prima volta da Pier Paolo Pasolini,[31] non nel senso generico di rifiuto dei toni aulici, dell’astrazione, dell’allusività oscura per un ritorno del fare poetico alla concretezza e alla intelligibilità, quanto piuttosto nel senso di una ricerca, incondizionata dalle mode letterarie e inattuale, sull’efficacia delle forme poetiche della tradizione e sulla capacità della parola di chiamare e ricostruire un mondo affettivo e storico in dissoluzione. La cantabilità dei versi e la loro comunicativa tra lirica e racconto non esprimono un ingenuo ritratto del passato, ma sono il riflesso di un’acuta nostalgia dell’assenza, una percezione di vuoto e abbandono in cui si ripetono i gesti e le parole quotidiane. Italo Calvino ha colto la specificità della poesia di Caproni: «Il nulla, grande tema della poesia e della filosofia contemporanee, ha un’enfasi, una magniloquenza in cui è facile cadere. Caproni è raro che la sua esperienza del nulla voglia imporcela di forza […]. Le sue riuscite maggiori sono quando il senso del vuoto scaturisce da quello spazio fitto di persone e di discorsi che è il nostro “poco” quotidiano. Con quanto garbo, con quanta comunicativa e leggerezza, egli ci apre davanti la vertigine dell’assenza!».[32] Calvino definisce schiettamente la poesia di Caproni «un creare dal nulla il poco», senza nulla di idillico o consolatorio. A differenza che in altri antinovecentisti (ad esempio, Attilio Bertolucci), per Giorgio Caproni la realtà non è mai fraterna e accogliente, un luogo di memorie compiaciute, ma è vuoto e solitudine. Ed è di questa condizione che al poeta capita di dire con mano «cauta» e «leggera» e, pure, con la tagliente ironia che scaturisce da una lucida intelligenza delle cose: «(Che senso può avere esser vivi, / Star qua, il cuore in gola, a spiare / Il quadro Partenze e Arrivi?... // Moriamo con noncuranza. / Liberi. D’ogni speranza.)».[33]
Il Franco cacciatore
(1973-1982)
La raccolta Il franco cacciatore (poesie dal 1973 al 1982) viene pubblicata nel 1982. Il titolo è, innanzitutto, un omaggio al celebre Der Freischütz, del compositore romantico Carl Maria von Weber, un’opera molto amata dal poeta che possiede, come ricordato, una solida formazione musicale e trova spesso ispirazione e risoluzioni nel linguaggio della musica “tonale”,[34] come accade in Il muro della terra, libro strutturalmente concepito in analogia a una partitura musicale.[35] Più in generale, circa l’importanza della musica si possono ricordare le parole del poeta stesso che in un’intervista del 1965 dichiara:
«Credo che lo studio della composizione <musicale> mi abbia aiutato a risolvere certi problemi che sono anche della poesia – problemi non di musicalità, ma di musica, - così come credo che il temperamento del violinista si rifletta inevitabilmente in certi scatti nervosi – in certo piglio – del verso».[36]
Nell’opera di Weber il cacciatore Max vende l’anima al diavolo per acquisire con la magia nera di Samiel una mira infallibile, grazie alla quale diventerà la guardia della foresta del principe e riuscirà a sposare l’amata Agathe. Tuttavia, l’ispirazione prima e l’idea fondante della raccolta di Caproni nascono dalla lettura degli Gli elisir del diavolo di E.T.A. Hoffmann, da cui derivano i temi dello sdoppiamento della personalità, della crisi dell’identità, del Doppio.[37] La figura del cacciatore è la nuova versione di quelle del viaggiatore e cercatore, che appaiono parecchie volte nelle precedenti opere di Caproni, figure tutte della ricerca poetica di Dio, della verità che sta dietro le apparenze fenomeniche, dell’identità propria e altrui, dei confini sino a cui si può spingere la ragione umana.[38]
Il franco cacciatore è un esempio di come la poesia di Caproni venga strutturata nella fusione di racconto e lirica. Il poeta stesso parla in proposito di «struttura operistica», precisando di avere ricercato propriamente una «simulazione di opera».[39]
La raccolta si apre con un preludio (Antefatto): il cacciatore racconta in prima persona di essersi appostato per ore e ore in attesa di una preda, fuori da un’osteria ai margini della foresta, vanamente. È l’inizio di una quête esistenziale che è insieme caccia, viaggio e fuga tra memorie esistenziali e libresche, allestita come un intreccio di scene, anche brevissime, alla maniera operistica, ognuna autonoma e connessa alle altre da rimandi tematici. Inizialmente la caccia solitaria si svolge sulle tracce elusive di Dio (Dio è absconditus o è “morto”?)[40], poi sui percorsi desolati della morte (è lo straziante rapporto con la morte dell’Altro) e, quindi, nell’inseguimento della propria ombra (l’Io si sdoppia in due persone che cercano di eliminarsi a vicenda in un rapporto irrisolvibile di amore-odio). Sono numerose le analogie che si presentano con la ricerca del sacro in Franz Kafka, autore particolarmente amato da Caproni.[41] «Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato» scrive l’autore praghese nel Terzo quaderno a proposito della ricerca della verità. E ancora sulla vita nell’Aldilà: «Alla vita terrena non può fare seguito un Aldilà, perché l’Aldilà è eterno e perciò non può stare in contatto temporale con la vita terrena».[42]
Foglie
Composta entro il gennaio dell’anno 1978 e pubblicata per la prima volta in rivista nel 1980 («Sul Porto», fasc. VIII, Cesenatico, aprile 1980), Foglie appare in volume nel 1982, nella sezione Ponte nero della raccolta Il franco cacciatore (poesie dal 1973 al 1982).[43]
Fra le apparizioni che si susseguono (figure di passanti, fantasmi femminili, immagini del trascendente, ombre evanescenti, personaggi libreschi, ipostasi filosofiche) e interrompono come cesure meditative la lunga e faticosa ricerca del cacciatore, si annovera anche la visione autunnale di Foglie.
Per una lettura macrotestuale di Foglie
Nelle Note a Il Franco Cacciatore Caproni suggerisce esplicitamente una lettura contestuale delle varie poesie della raccolta.[44] Riandando, in negativo a una pagina di Kierkegaard, la poesia che precede Foglie e ne costituisce una sorta di premessa filosofica, è una confutazione di una pagina del Diario del filosofo danese, nella quale si fantastica sulla possibilità di evocare i morti dall’Aldilà per entrare in comunione con loro.[45] «I morti – scrive Caproni in Riandando – restano morti e invano / li richiama il pensiero. / Siamo soli: io e il grido /rauco del gabbiano». Partendo da questo assunto, il testo di Foglie apparentemente non presenta oscurità di significato, costruito com’è sulla forma idiomatica incipitaria «se ne sono andati» (al v. 1, “andarsene” = “morire”) di tono colloquiale e dimesso, benché in più punti risulti un alto livello di indeterminatezza nella ripartizione dei versi e nell’interpretazione delle espressioni metaforiche («il graffio del rancore o il morso della presenza», vv. 4-5) e metonimiche («un polverio / confuso d’occhi», vv. 12-13).
Parafrasi
Quanti sono morti…Quanti / Che cosa resta [di loro]. Nemmeno / il soffio. Nemmeno / il graffio prodotto dal rancore o il morso / della presenza. Tutti / sono morti senza / lasciare traccia. Come / il vento non lascia traccia / sul marmo su cui passa. Come / l’ombra non imprime un’orma / sul marciapiede. / [Sono] tutti svaniti nella polvere / che confonde la vista. [Sono] come un brusio / di voci sommesse, quasi / come quello prodotto dalle foglie controfiato / dietro ai vetri. Foglie / che solamente il cuore vede / e alla cui esistenza la ragione non può credere.
Analisi
Il testo è caratterizzato da una scansione metrica in piccole unità strofiche, con versi a scalino (al v. 1 la forte divaricazione è accentuata dalla reticentia) che destrutturano anche sintatticamente il discorso poetico e mettono enfaticamente in rilievo le risonanze delle figure di ripetizione e delle rime così isolate.[46] La frammentazione metrico-sintattica produce un ritmo sincopato, dissonante, ansioso in cui si soffoca ogni slancio di cantabilità.[47] Così le rime, disseminate perlopiù internamente, senza funzione strutturante e demarcativa, assumono l’aspetto di un canto interrotto e rinsaldano i legami di significato fra le parole sospese nel verso. Sono rime, nella prima parte prevalentemente, artificiose (imperfetta, con variazione della vocale tonica, preceduta dalla ripetizione anaforica dell’articolo determinativo: «graffio-soffio», vv. 3-4; identiche: «traccia-traccia», vv. 7-8; «foglie-Foglie», vv. 15-16) e nella seconda facili e distese a fine verso (polverio-brusio, vv. 12-13; vede-crede, vv. 17-18). Troviamo l’iterazione di interi sintagmi, che sembrano rilanciare il discorso come un’eco musicale («se ne sono andati», vv. 1 e 6), o il parallelismo di intere frasi con l’introduzione di una minima variatio, che vale come un’aritmia fra le ripetizioni paronomastiche e anagrammatiche del verso («non lascia traccia il vento / sul marmo dove passa» - «non lascia orma l’ombra / sul marciapiede», vv. 8/9 - 10/11). La grafica del verso evidenzia anche numerose strutture anaforiche (notevole l’anafora della preposizione «di» che nel verso successivo si espande nella preposizione impropria «dietro», vv. 14-15-16; e anche il poliptoto del relativo «che» – «cui», vv. 17-18). L’iterazione di parole semanticamente vuote distribuite in versi differenti, pronomi indefiniti («Quanti… Quanti», v. 1; «Nemmeno… Nemmeno», vv. 2-3; «Tutti… Tutti, vv. 5-11»), oppure avverbi («non… non»; «Come… Come»), genera l’effetto di una climax emotiva che raggiunge l’acme nel finale della poesia, dove l’introduzione del topos delle foglie rappresenta icasticamente il sentimento luttuoso e gli dà concretezza. Non a caso il topos classico viene enunciato lapidariamente in stile nominale, lo stile della concretezza, che qua significa evidenza della percezione. Le foglie sono, infatti, i necessari figuranti della caducità umana e dell’effimera esistenza che svanisce senza alcuna traccia, ma, con uno scarto dalla tradizione, il poeta procede trasferendo su di loro qualità sonore, iperdeterminate al limite dell’ossimoro nell’espressione marcata dall’enjambement «un brusio / di voci afone», vv. 13-14.
È questo delle foglie sui vetri il «controfiato», v. 15, un quasi neologismo, dall’univerbazione di contro+fiato, nel senso antico, proprio della tecnica della recitazione, di “dizione in apnea”, simultanea all’atto di inspirare.[48] Tuttavia, poiché “fiato” è anche “soffio di vento”, il «controfiato» del testo suggerisce anche il significato di “contro vento” e allude all’azione specifica da assegnare implicitamente al figurante topico, ovvero il volo spettrale delle foglie spinte dal vento verso di noi dietro i vetri. Siamo al di qua della morte, separati da un vetro sottile, una barriera illusoria oltre la quale il cuore si ostina a «vedere» qualcos’altro, un qualche segno dell’esistenza di coloro che se ne sono andati e, al contempo, la mente razionalmente «non crede» che sia possibile, perché tutto si è dissolto. Il topos delle foglie nella poesia di Caproni è un’immagine tutta mentale, di una precisione allucinata, che comporta un’assimilazione metonimica dei vivi e dei morti, del loro essere un soffio di vento «controfiato» alla voce in «controfiato» del poeta.[49]
L’eufemistico “andarsene” iniziale («se ne sono andati», v. 1) si è, dunque, rivelato un evanescente residuo di fantasticherie del cuore, che non consola, che non persuade.[50] Dopo la confutazione filosofica circa la possibilità di un qualche riscatto dalla morte di Riandando, in negativo, a una pagina di Kiergegaard, poesia che insieme a Foglie costituisce un dittico inscindibile, la rielaborazione del topos della caducità delle foglie ha tutte le parvenze di una riemersione onirica. Il «controfiato» delle foglie è un’inquietante percezione sinestetica (voce, canto, parlottio, confuso movimento, ridda agitata dal vento) che porta nitidamente alla luce la distonia insanabile tra sentimento e ragione. Questo paradosso conoscitivo mantiene l’uomo in una condizione di disperata incertezza; è una disperazione di stampo leopardiano («La mia disperazione – scrive il poeta – è calma, senza sgomento»[51]) che diviene allegra e tende sempre allo humor e al tono scapigliato.[52]
Così, nel sonnambolico rovinare di divino e umano verso una zona incerta,[53] in una sfida al nulla a cui non ci si può sottrarre, la poesia di Caproni, narrativa e teatrale, rimane antiretorica e mantiene sempre al suo interno un controcanto ironico, che si può appalesare come in Altro inserto, la seconda didascalia in prosa inserita ne Il franco cacciatore:
«Per quanto tu ragioni, c’è sempre un topo – un fiore – a scombinare la logica. Direi che tutto nel tuo ragionamento è perfetto, se non avessi davanti questo prato di trifoglio. E sarei anche d’accordo con te, se nella mente non mi bruciasse (se non mi bruciasse la mente – con dolcezza) quell’odore di tannino che viene dalla segheria sotto la pioggia: quell’odore di tronchi sbucciati (d’alba e d’alburno), e non ci fosse il fresco delle foglie bagnate come tanti lunghi occhi, e il persistente (ma sempre più sbiadito) blu della notte».
Note aggiuntive: per una riflessione sul senso dell’interpretare
* « Interpretando un antico poeta fabbro di arte bella, per cui usa di modi figurati e di peregrine parole, che tocca fatti di principi e di nationi onde ritorcerli alla istruzione degli uomini, il commento deve essere critico per mostrare la ragione poetica; filologico per dilucidare il genio della lingua e l’origine delle voci solenni; istorico per illuminare i tempi, ne’ quali scrisse l’autore, ed i fatti da lui cantati; filosofico acciocché dalle origini delle voci solenni e da’ monumenti della storia tragga quelle verità universali e perpetue rivolte all’utilità dell’animo alla quale mira la poesia». (Ugo Foscolo, La Chioma di Berenice, Discorso I, 9, 1816).
** «Il commento è senza fine. Nei mondi del discorso interpretativo e critico i libri, i saggi e gli articoli si generano l’un l’altro […]. La meccanica dell’interminabilità è quella delle locuste. Una monografia si nutre dell’altra, la visione si ciba della revisione. Il testo primario è soltanto la fonte distante di una proliferazione esegetica autonoma. La vera fonte del tomo Z sono i lavori di X e Y sullo stesso tema. Sia nelle convenzioni retoriche che nella sostanza, i testi secondari si basano su altri testi secondari. I libri di interpretazione letteraria, di critica dell’arte di estetica musicale parlano di libri precedenti sugli stessi temi o su soggetti strettamente imparentati. Il saggio dialoga col saggio, l’articolo chiacchiera con l’articolo, in un’infinita galleria di queruli echi. Di questi tempi le principali energie e l’animus della fiumana giornalistico-accademica di stampo umanistico sono soprattutto di ordine terziario. Ci troviamo di fronte a testi circa l’esistenza possibile e lo statuto epistemologico di testi secondari precedenti. Per esempio, c’era una volta Wordsworth. Poi venne il diluvio di commenti su Wordsworth. Oggi la carta stampata divampa in discussioni sulla possibilità o impossibilità semantiche di scrivere a proposito di questo autore. Chiacchieriamo sulle chiacchiere, e Polonio regna» (George Steiner, Vere presenze, tr. it. di Claude Béguin, Milano, Garzanti, 1992, p. 48)
10 luglio 2023
[1] F. Fortini, Oscurità e difficoltà, in «L’asino d’oro», II, 1991.
[2] La similitudine delle foglie ha avuto un’enorme fortuna nella letteratura antica e in quella moderna. Per quanto riguarda l'ambito greco, oltre ai luoghi citati si vedano: Musae. 2 B 5 D.K; Theocr. Id. 30.30-31; A.R. 4.216; Plut. Cons. ad Ap. 104e; D.L. 9.67; Luc. Cont. 19; Marc. Aur. 10.34; Nonn. Dion. 3.248-56.
Per quanto concerne l'ambito latino si rinvia a V. Tandoi, Come le foglie (nota a Cornificio, fr. 3 Traglia), in La critica testuale greco latina, oggi: metodi e problemi, «Atti del Convegno internazionale», Napoli, 29-31 ottobre 1979, a cura di E. Flores, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1981, pp. 241-59.
[3] Per la presenza dell'immagine nella Bibbia e nella letteratura moderna, si veda P. Boitani, Il tragico e il sublime nella letteratura medievale, Bologna, Il Mulino, 1992. pp. 152 e ss. Agili e sintetici i contributi di G. Regoliosi, Il tertium comparationis fra uomini e foglie, in «Zetesis», I, 1994, e di F. Cerato, Come le foglie, in «Studia humanitatis», https://studiahumanitatispaideia.blog/2022/12/27/come-le-foglie/.
[4] E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di Roberto Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 81-82. Vedi, inoltre, C. Segre, Tema/motivo, in Id., Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985, pp. 331-359; Id., Dal motivo alla funzione e viceversa, in Id., Notizie dalla crisi, Torino, Einaudi, 1993, pp. 211-226.
[5] G. Pozzi, Temi, topoi, stereotipi, in Letteratura italiana, III/1. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, p. 394.
[6] G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1980, p. 109.
[7] G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, 1861-1968, Firenze, Sansoni, 19837, p. 923.
[8] P. V. Mengaldo, Introduzione a Poeti italiani del Novecento, Milano Mondadori, 1978, pp. XIII-LXXVII.
[9] G. Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni, 1981, p. VI; id. Sull’ultimo Luzi, in «Aut-Aut», 49, gennaio 1959, pp. 44-46.
[10] S. Verdino, La poesia di Mario Luzi. Studi e materiali (1981-2005), Padova, Esedra Editrice, 2006, pp. 15, 97, 113.
[11] R. Luperini, La crisi del genere lirico: Luzi da «Onore del vero» a «Nel magma», in L’Ermetismo e Firenze, Atti del Convegno internazionale di studi, Firenze 27-31 0ttobre 2014, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Firenze University Press, 2016, vol. II, pp. 109-118.
[12] R. Vitale, Mario Luzi. Il tessuto dei legami poetici, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2015, pp. 13-14.
[13] D. Marcucci, Il classicismo modernista di Mario Luzi. Una traccia dantesca, in Mario Luzi poeta del Novecento. Modernismo, lirica, ermeneutica, a cura di Alberto Comparini, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2017, pp. 9-23.
[14] M. Luzi, Le pieghe della vita: carteggio (1940-1982), a cura di Francesca D'Alessandro, Torino, Aragno, 2017.
[15] da Un viaggio nella memoria, a colloquio con L. Luisi, in Mario Luzi. Una vita per la cultura, a cura di L. Luisi con la collaborazione di M.C. Beccatelli, Ente Fiuggi, Fiuggi, 1983, pp. 84-85.
[16] M. Luzi, Introduzione a L’idea simbolista, Milano, Garzanti, 1959, pp. 25-26.
[17] F. Flora, La poesia ermetica, Bari, Editori Laterza, 1936.
La partizione delle generazioni di poeti all’inizio del Novecento (I generazione, nati dal 1883 al 1890: Saba, Campana, Ungaretti; II generazione, nati dal 1894 al 1901: Montale, Betocchi, Quasimodo; III generazione, nati dal 1906 al 1914: Bertolucci, Caproni, Sereni, Bigongiari, Parronchi, Luzi) si deve al critico e poeta Oreste Macrì; cfr. O. Macrì, Le generazioni nella poesia italiana del Novecento, in «Paragone - Arte», 42, 1953; Idem, Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1956, specialmente le pp. 75-89; Idem, La teoria letteraria delle generazioni, a cura di A. Dolfi, Firenze, Cesati, 1995.
Per un quadro generale dell’Ermetismo, cfr. N. Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 20183, spec. pp. 100-108.
[18] C. Bo, Letteratura come vita, in Otto studi, Firenze, Vallecchi, 1939, pp. 7-8. Cfr. N. Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, op. cit., spec. p. 103.
[19] G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, 1861-1968, op. cit., p. 923.
[20] Cfr. L. Anceschi, S. Antonelli, Lirica del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1953.
[21] P. V. Mengaldo ha notato come nella lirica del Novecento il «rogo» sia un’immagine spesso collegata a paesaggi sontuosamente morenti (P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, Feltrinelli, 1975, p. 191).
[22] Sul topos delle foglie nell’ultima fase dell’opera luziana, vedi Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994): «Scivola giù, sfrascando / lei furtivamente, / foglia moribonda, / si congeda dalle altre. / Un poco ne patiscono il distacco, / un poco si ritemprano / nel verde e nel vigore […] / battute dai contrari sensi / del mondo, soggiogate»
[23] G. Caproni, Vita da poeta, in Voci della scrittura, a cura di G. Weiss, Rai Tre, 17 dicembre 1987, ora in G. Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990, a cura di Melissa Rota, Firenze, Firenze University Press, 2014, p. 376.
[24] Id., I maggiori riconoscimenti non sono quelli in denaro, intervista a Luciana Corda, Rai Radio Tre, 1983, ora in G. Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti, op. cit., p. 221; per il rapporto con la città, vedi almeno: Id., Genova, in «Weekend», VII, ottobre 1979, 42, ivi, pp.143-151.
[25] P. V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, in Giorgio Caproni. L’opera in versi, ediz. critica a cura di Luca Zuliani, Milano, Mondadori, 20014, p. XII.
[26] G. Raboni, Introduzione a G. Caproni, L’ultimo borgo, Milano, Rizzoli, BUR, 1980.
[27] G. De Robertis, Il seme del piangere, in Id., Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962, pp. 484-488.
[28] G. Caproni, Humile et orgoglioso, intervista a cura di A. Altomonte, in «Il Tempo», 5 novembre 1972, ora G. Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti, op. cit., p. 78.
[29] G.L. Beccaria, Caproni, la poesia e oltre, in «L’indice», anno I, n. 1, Torino, ottobre 1984.
[30] Per la poetica di Caproni, vedi anche Per lei e Piuma in Il seme del piangere.
[31] P.P. Pasolini, La posizione, in «Officina», II, 6, aprile 1956, pp. 244-251.
[32] I. Calvino, Nel cielo dei pipistrelli, in «la Repubblica», 19 dicembre 1980.
[33] G. Caproni, Coda, componimento del 1976, da Il franco cacciatore, Milano, Garzanti, 1982.
[34] G. Caproni, Tensioni e stupori di un cacciatore, a cura di I. Francesco, in «L’Informatore librario», VI, febbraio-marzo 1984, 2-3, ora in Id., Il mondo ha bisogno dei poeti, op.cit., p. 249.
[35] A. Baldacci, Giorgio Caproni. L’inquietudine in versi, Firenze, Franco Cesati Editore, 2016, pp. 105-106.
[36] G. Caproni, Caproni considera la critica una cattiva azione, intervista a Giorgio Caproni, a cura di Gian Antonio Cibotto, in «La Fiera Letteraria», 1° agosto 1965, ora in Id., Il mondo ha bisogno dei poeti, op. cit., p. 58.
[37] Id., Buonanotte Europa, Intervista radiofonica, 1987, ora in G. Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti, op. cit., p. 58.
[38] Id., Aria del tenore, in Il poeta e la poesia, Atti del convegno di Roma, 8 febbraio 1982, a cura di N. Merola, Liguori, Napoli, 1986, ora in Id., Il mondo ha bisogno dei poeti, op. cit., pp. 349-350.
[39] Id., Buonanotte Europa, Intervista radiofonica, 1987, citata in Id., L’opera in versi, a cura di L. Zuliani, Milano, Mondadori, 1998, p. 1572).
[40] Cfr. Deus absconditus, dalla raccolta di Giorgio Caproni Il muro della terra (1975).
[41] Per Caproni e Kafka (in particolare, Il cacciatore Gracco), cfr. A. Baldacci, Giorgio Caproni. L’inquietudine in versi, op. cit. pp. 97-98, 124.
[42] F. Kafka, Confessioni e Diari, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 19916, p. 726.
[43] G. Caproni, L’opera in versi, op. cit., pp. 1573-1594.
[44] Id., Nota a Liturgica, in L’opera in versi, op. cit., p. 411.
[45] Il poeta aveva a disposizione l’edizione di Kierkegaard edita dalla collana «BUR» (Rizzoli), cfr. G. Caproni, L’opera in versi, op. cit., p. 1593.
[46] E. Testa, «Il conte di Kevenhüller» di Giorgio Caproni, in Id. Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, p. 95.
[47] G.L. Beccaria, Caproni, detto e non-detto, in Id., Le orme della parola, Milano Rizzoli, 2013, spec. p.75.
[48] Cfr. L’osservatrice fiorentina sugli spettacoli teatrali del Carnevale 1789, n. XI, mercoledì 4 febbraio 1789, p. 157.
[49] M. FORTI, Il labirinto metafisico dell’ultimo Caproni, in ID., Tempi della poesia. Il Secondo Novecento da Montale a Porta, Milano, Mondadori, 1999, p. 99.
[50] P. Zublena, Giorgio Caproni. La lingua e la morte, Milano, Edizioni del Verri, 2013, pp. 73-74.
[51] G. Caproni, Con le parole sino al cuore della realtà, intervista a cura di C. Forti, in «Il Popolo», 1° febbraio 1990, ora in Interviste e autocommenti, op. cit., p. 427.
[52] Cfr., P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, pp. 424-428; G.L. Beccaria, Caproni, la poesia e oltre, in «L’indice», anno 1, n. 1, Torino, ottobre 1984.
[53] G. Agamben, Disappropriata maniera, Prefazione a G. Caproni, Res amissa, Milano, Garzanti, 1991.