ὡς οἱ τραγωιδοί φασιν οἷς ἐξουσία
ἔστιν λέγειν ἅπαντα καὶ ποιεῖν μόνοις
(come dicono i tragici, che sono i soli a dire e fare tutto quello che vogliono)
(Difilo, fr. 29 K.-A.)
L’Alcesti di Euripide: «Ceci n’est pas une tragédie»?
Il mito luttuoso e trionfante di Alcesti, la donna che muore al posto dello sposo donandogli la vita e poi resuscita premiata per la sua virtù, si radica per sempre nell’immaginario letterario occidentale grazie al teatro di Euripide (485/480 – 406/405 a.C.). Alcesti è il più antico dei superstiti drammi euripidei e fu rappresentato alle Dionisie del 438 a.C. come ultimo dramma di una tetralogia che comprendeva Le Cretesi, Alcmeone a Psofide e Telefo. Occupava, insomma, il posto del dramma satiresco (a chiusura di una trilogia tragica “slegata”, messa in scena nella stessa giornata) e ne svolgeva la funzione (alleggerire con una rappresentazione “comica” o burlesca di un mito la tensione creata dai tre drammi precedenti), benché abbia caratteristiche diverse dal satiresco, mancando in primis il coro dei satiri e ogni riferimento al dio Dioniso.
Alcesti è, dunque, un’opera di genere teatrale incerto, una “tragedia” sui generis, forse un dramma pro-satirico (una hypóthesis antica la definisce satyrikóteron, cioè “piuttosto satiresca”) o forse una precoce ilarotragedia per i numerosi elementi comici che contiene e per essere costruita, con un percorso inverso rispetto a una tragedia, dal lutto al trionfo finale. In ogni caso, anche questa ambiguità di genere, questa ardita mescolanza di forme, questo enigmatico passare dal serio al comico e viceversa l’ha resa nel corso dei secoli straordinariamente interessante ed apprezzata, tanto da costituire di per sé uno dei motivi della sua durevole fortuna fino all’età contemporanea.
Se poi si osserva il contenuto, la leggenda di Alcesti non è connessa con le principali saghe mitologiche, soggetto abituale del teatro attico del V secolo, ma era comunque ben conosciuta dal pubblico ateniese, come si evince da una fugace allusione all’innaturale sottrazione di Admeto alla morte da parte di Apollo nelle Eumenidi di Eschilo (vv. 723-724) e nelle Vespe di Aristofane (v. 1238). Questo spiega perché Euripide, prendendo spunto dall’Alcesti di Frinico (tra VI e V secolo a.C.) e da un Admeto di Sofocle, entrambi perduti, e rielaborando una serie di motivi folklorici diffusi anche al di fuori del mondo ellenico, si possa permettere di far procedere la vicenda in modo fortemente ellittico, concentrando l’attenzione del pubblico su alcune problematiche di rilievo. Ad esempio, non spiega perché Admeto debba morire, quando Apollo abbia ottenuto dalle Moire di salvare Admeto dalla morte se qualcuno si fosse immolato al suo posto, come Alcesti sia venuta a conoscenza del patto tra Apollo e le Moire e quando abbia accettato di sacrificarsi per il marito; tuttavia, posticipando la morte di Alcesti, che la versione più diffusa del mito poneva nel giorno delle nozze, ad alcuni anni dopo il matrimonio, introduce varie novità, come i personaggi patetici dei figli che assistono insieme al padre all’agonia della madre e la promessa solenne di garantire il loro futuro escludendo che Admeto si risposi. La dilazione dei tempi operata da Euripide fa vivere entrambi i coniugi nell’attesa degli eventi inevitabili e crea una consapevolezza carica di angoscia sulle conseguenze della scelta presa; inoltre, il dolore della dipartita di Alcesti viene acuito dal ricordo del passato e dalla precoce privazione dell’amore, la cui natura autentica ed esclusiva paradossalmente arriva a compimento nel momento in cui vi si rinuncia. La giovane sposa piange di fronte al letto nuziale, Admeto privato della donna che ama piomba nella costernazione e nell’infelicità, e se Alcesti («la migliore delle donne», Euripide, Alcesti, v. 442) dimostra un eroismo virile (ἀρετή) superiore a tutti e degno di gloria, Admeto, elogiato dal coro (Euripide, Alcesti vv. 568-605) e definito più volte «pio» e «giusto» (ὅσιος, nonostante il mito originario individui la causa delle disgrazie di Admeto nella sua empietà nei confronti di Artemide), deve accettare di scampare la morte sacrificando la vita di Alcesti, perché questo è il dono degli dèi: a lui non rimane che il pianto luttuoso, la fedeltà all’amore di Alcesti oltre la morte, una memoria ossessiva di lei e una pulsione erotica che rimane intatta, ma indirizzata dichiaratamente ad amare e invidiare i morti (v. 866), fino al punto di collocare nel talamo un simulacro della giovane sposa defunta. Altre decisive innovazioni apportate da Euripide riguardano l’agone, ovvero lo scontro dialettico all’interno della tragedia fra due antagonisti, e il personaggio di Eracle. Nel IV Episodio, durante le esequie di Alcesti, si accende tra Admeto e il padre Ferete una discussione violenta e scandalosa per una società come quella Ateniese del V secolo in cui ancora vigeva l’obbligo del rispetto assoluto dell’autorità paterna. Il vecchio viene accusato di viltà e di non aver saputo sacrificarsi per salvare il figlio, nonostante abbia ormai terminato una vita che è stata piena di soddisfazioni come padre e come re. Sempre durante la cerimonia funebre, Eracle, che è all’oscuro della morte di Alcesti, siede a tavola gozzovigliando e cantando e poi, recriminando per l’ostilità manifestata dai servitori, si lascia andare a un elogio dell’edonismo grossolano, dei piaceri della tavola e di Afrodite. Ma Euripide decide che sia lo stesso eroe gaudente e sfrontato, e non gli dèi come nella versione più conosciuta del mito, a riportare Alcesti in vita. Informato della dipartita di Alcesti, Eracle tende un agguato a Thànatos presso la tomba, gli strappa Alcesti prima che varchi le soglie dell’Ade e la restituisce velata e silenziosa allo sposo. Anche il finale è marcato da novità che resteranno nella memoria degli autori destinati a riscrivere la vicenda nelle età successive: ad Admeto, che prima rifiuta di accogliere la sconosciuta per fedeltà all’amore di Alcesti, una volta che la riconosce non è concesso, in modo enigmatico e inquietante, né di toglierle il velo, né di parlarle.
Anche nell’Esodo l’Alcesti di Euripide si dimostra complessa, ambigua, allusiva. È chiaro, ad esempio, che la soluzione del finale favolistico di Alcesti nasconde una sottile contestazione della narrazione e dei valori dell’epica, riproponendo con ironia il modello rovesciato della narrazione odissiaca (ritorno – travisamento/inganno – riconoscimento), in cui si individua una corrispondenza tra Penelope e Admeto, Alcesti e Odisseo, con la fondamentale differenza fra la piena agnizione della vera identità di Odisseo e quella parziale e sospesa di Alcesti, che impedisce di rinnovare al momento il legame coniugale. La strategia drammaturgica di Euripide mette insomma in rilievo all’interno della “bella favola” della morte sconfitta una serie di nodi problematici e di inquietanti interrogativi irrisolti.
Per queste e altre implicazioni il sacrificio d’amore dell’Alcesti euripidea ha catalizzato l’interesse di poeti e drammaturghi, filosofi e musicisti, artisti e scrittori, che in ogni epoca hanno rivisitato il mito e sfruttato gli inesauribili spunti forniti da Euripide come chiave di interpretazione del loro presente e della condizione umana universale.
Il percorso che qui presentiamo seleziona quattro testi teatrali di epoche diverse: la secentesca Alcesti o sia l’amor sincero di Emanuele Tesauro, l’Alceste seconda di Vittorio Alfieri, Alcesti di Samuele composta da Alberto Savinio a metà del Novecento e, infine, Alcesti o la recita dell’esilio, opera di Giovanni Raboni del 2002.
A) Emanuele Tesauro, Alcesti o sia l’amor sincero. Tragedia musicale (1665)
In un celebre quanto arduo saggio dedicato alle origini del dramma tedesco (Ursprung des deutschen Trauerspiels, 1928) Walter Benjamin (1892-1940) definisce l’allegoria barocca come l’equivalente nel regno del pensiero di quello che sono le rovine nel regno delle cose (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1980, p.184, tr. it. di Enrico Filippini; ma vedi anche Origine del dramma barocco tedesco, Carocci, Roma 2018, tr.it. di Alice Barale).
È una definizione folgorante che getta un fascio di luce sul senso del recupero erudito dei modelli antichi e sulla tragedia regolare secentesca. Spesso con finalità edificanti e celebrative, il teatro barocco riutilizza frammenti decostruiti della superstite produzione teatrale antica, nel tentativo di riordinare sulla scena la natura caotica e frammentata della realtà e rappresentare allegoricamente significati e valori che restituiscano senso e dignità alla vita dell’uomo. La tragedia è il portato di un’età di crisi e disorientamento e mette in scena vicende esemplari che propongono come nodo tragico l’intreccio insolubile di realtà e apparenza, vero e falso, libero arbitrio e necessità, volere e dovere, ragione e torto, innocenza e colpa.
È questo il quadro che aiuta a comprendere i significati allegorici dell’Alcesti o sia l’amor sincero, tragedia musicale in cinque atti, composta nel 1665 da Emanuele Tesauro (1592-1675), in occasione delle nozze di Carlo Emanuele II di Savoia e di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours.
La scelta del mito di Alcesti da parte di Emanuele Tesauro
Il personaggio di Alcesti, simbolo della fedeltà coniugale, è naturalmente appropriato alla celebrazione dell’evento nuziale, ma ancor più è intimamente legato ai recenti lutti del sovrano Carlo Emanuele che nel giro di pochi giorni, tra la fine del 1664 e l’inizio del 1665, aveva perduto la madre, Madama Reale Cristina di Francia, e poi la giovane amata sposa Francesca d’Orléans Valois. La vicenda di Alcesti che, morta per salvare lo sposo Admeto, sovrano di Fere, viene riportata in vita e a lui restituita grazie all’intervento di Eracle, allude allegoricamente alla funzione palingenetica e metatemporale della nuova unione matrimoniale che, superata la barriera della morte individuale, garantiva la discendenza legittima e la continuità dinastica della casa regnante. Nell’Argomento preposto all’Alcesti, il Tesauro esplicita chiaramente questa chiave d’interpretazione:
La istoria favolosa si legge in molti poeti antiqui, ma principalmente in Euripide nella tragedia di Alcesti. Si allude all’estrema allegrezza delle seconde nozze di Sua Altezza dopo l’estrema mestizia per l’intempestiva perdita della prima sposa reale (ndr. Françoise Madeleine d’Orléans Valois, morta il 14 gennaio 1664) di virtù e reciproco amore inestimabile. Onde si può dire che per Divina Provvidenza, Figurata in Ercole, la prima sposa sia risorta nella seconda (E. Tesauro, Alcesti o sia l’amor sincero, a cura di M.L. Doglio, Bari, Palomar, 2000, pp. 41-42).
La bella favola di Alcesti è, dunque, un’allegoria cristiana delle traversie personali del giovane duca e delle vicende della corte sabauda, con un fine evidentemente consolatorio: contemperare gli stati d’animo antitetici di «estrema allegrezza» per le nozze appena celebrate e di «estrema mestizia» per i lutti recenti.
L’Alcesti di Tesauro come dramma di corte
Emanuele Tesauro riscrive liberamente l’Alcesti di Euripide (438 a.C.), che conosceva principalmente attraverso la versione latina dell’umanista scozzese George Buchanan (Euripidis Poetae Tragici Alcestis, Parigi, 1556), frammentandone l’ordito in singoli episodi, moltiplicandone il numero e procedendo a una loro dilatazione con l’aggiunta di nuove digressioni. Ne risulta un testo di dimensioni doppie rispetto al modello euripideo (2109 i versi del Tesauro contro i 1163 di Euripide) e con numerose importanti variazioni tematiche e strutturali. L’Alcesti secentesca si trova, infatti, coinvolta in un intrigo di corte: un biglietto anonimo che viene consegnato a una fedele ancella dalla Simulazione, una Furia che ha prodigiosamente assunto le fattezze della dea Diana, accusa Alcesti di tramare contro la vita di Ameto (con questa variante compare nel Tesauro il nome del marito). Lo scritto è vero e dice la verità, ma solo alla fine dell’Atto Quarto, grazie a un vaticinio delfico la cui interpretazione autentica, in linea con i dettami controriformistici, viene fornita da un anziano sacerdote, si scoprirà che si riferisce ad Alcesti re dell’Epiro, scagionando la fedele sposa Alcesti sulla quale erano caduti tutti i sospetti.
Nel Quinto e ultimo Atto (versi 1494 – 2109), la tragedia di Tesauro torna a ricalcare con maggiore fedeltà il modello di Euripide. Alcesti, recuperato l’onore, può ora morire al posto del marito Ameto gravemente ammalato, adempiendo al voto richiesto dal dio Apollo («per non morir mai più viverà Ameto / se per lui muore il più sincero amante», vv. 1172-1173). Tuttavia, Ercole, che nella reggia di Fere è ospite ignaro del lutto, dopo che gli viene rivelato che Alcesti è morta, la riporta in vita sottraendola a Proserpina (non a Thanatos, come in Euripide) mentre si accinge a condurla dal mausoleo in cui era appena stata sepolta al regno di Plutone. Ora Alcesti, col capo velato, viene presentata come un’ignota regina straniera ad Ameto che rifiuta di accoglierla per rispettare il giuramento di eterna fedeltà fatto alla sposa in punto di morte. Alla fine, si scopre che si tratta di Alcesti stessa, rediviva fra il tripudio del popolo di Fere.
Differenze fra l’Alcesti di Tesauro e quella di Euripide
Nei primi quattro atti la tragedia di Tesauro diverge notevolmente da Euripide.
La vicenda si svolge non più davanti alla reggia di Fere in Tessaglia, ma in un «palagio delle caccie di Ameto sopra il fiume Anfriso» (Argomento della tragedia), che richiama il palazzo della Venaria Reale progettata dall’architetto Amedeo di Castellamonte su commissione del duca Carlo Emanuele. La nuova ambientazione giustifica il coro di pastori (in Euripide sono gli anziani di Fere) e il gruppo di gentiluomini di corte, fra cui personaggi decisamente comici, e rende coerenti una serie di elementi narrativi fiabeschi, quale la lunga questione della caccia alla fiera mostruosa, che occupa buona parte degli Atti Secondo e Terzo, il sogno premonitore di Alcesti ad essa collegato, la scoperta da parte di Ameto che il mostro prodigioso, che solo lui ha osato affrontare, è inviato da Apollo per donargli un prezioso diadema da offrire in palio a chi fra i suoi cortigiani dimostrerà maggiore amore al sovrano, episodio che metterà allo scoperto l’ipocrita doppiezza della corte, esaltando al contempo le virtù di Alcesti.
Nell’intarsio di scene che costituiscono la nuova trama tragica va segnalato il Prologo, che ha come protagonista unica la Simulazione, una Furia infernale «idolo delle corti» (v. 10). Si tratta di un monologo che riduce al minimo la funzione informativa (di fatto, viene soltanto mostrato il lacerto cartaceo che fungerà da prova per calunniare Alcesti), sostituita da un discorso morale in cui si passa in rassegna le varie forme della moderna corruzione, di cui la Simulazione si vanta di essere la grande artefice.
Nel Prologo si affaccia, dunque, il tema principale della tragedia che è l’intreccio insolubile tra verità e menzogna, tra realtà e apparenza, tra identità e metamorfosi. Questa aporia trova una possibile soluzione nell’Atto Quarto, proprio quando sembra essere irrimediabilmente precipitata la sorte di Alcesti, ingiustamente accusata di veneficio dopo che Ameto durante un banchetto è stato ridotto in fin di vita da un misterioso malore. L’ancella e confidente Nisa rincuora Alcesti con queste parole di conforto:
Reina fa buon cuore.
Eloquenza e innocenza
ogni colpa discolpa.
(Atto IV, vv. 1044-1046)
L’ingenua formulazione, che ha il sapore di un epifonema popolare, riconosce nell’inscindibilità di parola e verità due significati complementari: l’abilità retorica per essere efficace deve fondarsi sul vero e la verità per essere riconosciuta e affermarsi come tale ha bisogno dell’abilità retorica.
Una seconda tematica collegata alla prima del Prologo compare nella I e II scena dell’Atto Primo, nelle quali si svolge il dialogo tra Apollo e Giove. Sembra un agone oratorio, introdotto da Tesauro per illustrare gli antefatti della tragedia (Apollo è stato esiliato da Giove tra i pastori di Ameto come punizione per aver ucciso i Ciclopi, vendicando la morte del proprio figlio Esculapio fulminato da Giove), che si trasforma in realtà in una riflessione sul potere dei re, sui retroscena e sugli obblighi della politica («Forzato è un re sovente / a far ciò che men piace / per conservar co’ suoi vicin la pace», afferma Giove ai vv. 224-226), il che conduce al reciproco perdono e alla riconciliazione tra Apollo e Giove, figlio e padre. La stessa argomentazione politica viene poi replicata nel dialogo dell’Atto Secondo fra Euristeo ed Ercole, nel quale la persecuzione del sovrano nei confronti dell’eroe è motivata dalla “ragion di Stato”, ovvero dalla necessità di assecondare l’ira di Giunone, regina degli dèi, contro l’indomito figlio di Alcmena. Alla base di questa idea di “ragion di Stato” si può porre il convincimento più volte espresso dal Tesauro che «il Principe ha per fine il Ben Publico» (E. Tesauro, Filosofia morale derivata dall’alto fonte del grande Aristotele Stagirita, Venezia, Niccolò Pezzana, 16886, p. 498).
Legato ugualmente al problema del rapporto tra verità e apparenza e a quello politico della “ragion di Stato”, troviamo il tema religioso. Anche in questo caso sotto il travestimento mitologico delle divinità antiche si intravede una concezione della religione tipicamente barocca. Infatti, nell’Alcesti di Tesauro, coerentemente con la dottrina controriformistica, che assegna all’autorità ecclesiastica il controllo assoluto in campo religioso, la spiegazione delle scritture sacre, l’interpretazione di segni numinosi e così pure lo scioglimento dell’enigma posto con «diabolico ingegno» (v. 1463) nell’anonimo biglietto d’accusa contro Alcesti, la «carta insieme falsa e vera» (v. 1464), non possono che sgorgare dal verdetto insindacabile del sacerdote Mista, che scagiona la protagonista e permette che, con la salvezza del re Ameto, il regno si avvii alla «rifiorita età della fenice» (v. 1219) .
Altri ruoli originali introdotti dal Tesauro nell’intreccio tragico sono personaggi moderni di carattere grottesco, come i cortigiani di Ameto, o apertamente comici, come Forbante («pastore e cacciatore faceto», come viene definito nell’elenco dei personaggi del dramma), rielaborazione del pavido pastore Phorbas dell’Oedipus di Seneca. Di contro, il personaggio di Ercole viene completamente depurato dai tratti comici e grotteschi che lo caratterizzavano in Euripide. La tragedia del Tesauro presenta, insomma, una “mistura tragicomica” tipica della favola pastorale, un genere che sull’onda del successo del Pastor fido (1581-1590) di G.B. Guarini (opera che, peraltro, esalta l’istituto matrimoniale e adombra un atto di sacrificio tra amanti analogo a quello di Alcesti) aveva soppiantato la tragedia di corte cinquecentesca, rispondendo al gusto del pubblico per trame romanzesche, colpi di scena, agnizioni e situazioni sentimentali in ambiente arcadico.
Anche per quanto riguarda la protagonista troviamo importanti novità. L’Alcesti di Tesauro, diversamente da quella di Euripide, che è madre e sposa onorata, riveste il ruolo di fanciulla pura, perseguitata ingiustamente per motivi imperscrutabili. Nonostante sia l’unica ad amare sinceramente Ameto e l’unica determinata a sacrificare la propria vita per lui, Alcesti, a causa delle accuse che cadono su di lei, si trova in uno stato di tale impotenza e alienazione da giungere a concepire il suicidio come unica soluzione per sottrarsi alle accuse infamanti:
Ma se Delfo mentirà
Per qualche iniqua sorte,
io mi darò la morte
per non veder mai più
del dio bugiardo l’odiosa luce.
(Atto Quarto, vv. 1130-1134)
La “Tragedia musicale”
Nasce così nell’Alcesti una forma di teatro che il Tesauro vuole definire fin dal titolo del 1665 «Tragedia musicale». Ma cosa s’intende per “tragedia musicale”? L’autore che allora, a settantatré anni, era considerato “il primo letterato d’Europa” concepisce un genere teatrale ibrido, in cui coniugare le più alte istanze del genere tragico con figure argute ed elementi patetici musicali, per contrastare la «svogliatura» del secolo.
Bisogna, tuttavia, notare che nelle fonti antiche non restano tracce né dell’organizzazione di un allestimento teatrale dell’Alcesti di Emanuele Tesauro, né di apparati scenografici o di partiture musicali.
Tutto fa pensare che l’Alcesti fosse concepita per una lettura individuale “meditativa” o per una recitazione ristretta da teatro da camera. La tragedia, dunque, è “musicale” perché la “musicalità” viene realizzata nella sonorità della parola poetica, nella musicalità del verso e nel ritmo prosodico, marcato da un’abbondante polimetria.
La poesia tende a diventare cantabile e ridondante, concettosa e arguta, per l’abbondante uso di figure retoriche di suono e di concetto. È esemplare da questo punto di vista il dialogo con cui Alcesti ormai moribonda si congeda da Ameto e celebra il proprio trionfo di amante sincera. Il brano può essere letto sia come una dimostrazione di «colloquio di passionati», così come codificato nella trattatistica secentesca (cfr. Sforza Pallavicino, Trattato dello stile e del dialogo, Roma, Stamperia del Mascardi, 1662, cap. VII, p. 82), sia come rappresentazione della «veracità delle conversazioni» che secondo il Tesauro è «una conformità de’ nostri detti alle nostre attioni, le quali voluntariamente communichiamo a’ collocutori» (Emanuele Tesauro, Filosofia Morale derivata dall’alto fonte del grande Aristotele Stagirita, Torino, Bartolomeo Zapatta, 16724, lib. XII, cap. I, p. 238).
B - Vittorio Alfieri, Alceste seconda (1798)
I “tre respiri”: come l’Alfieri componeva le sue tragedie
Nella Vita (Epoca IV, capitolo IV) Vittorio Alfieri ci informa del metodo da lui seguito per comporre le sue tragedie. Il lavoro procede sempre in tre “fasi” che il poeta definisce «respiri»:
Questi tre respiri con cui ho sempre dato l'essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l'estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v'è nell'idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori.
In ordine, le fasi sono sempre «ideare, stendere, e verseggiare». Tuttavia, l’iter compositivo dell’Alceste Seconda, riscrittura originale del modello euripideo e ultima opera tragica di Alfieri, è ancora più complicato e avventuroso, intrecciato com’è alla vicenda dell’Alceste prima, traduzione in versi dell’opera di Euripide.
La genesi dell’Alceste seconda
Ancora continuando nella Vita (Epoca IV, capitolo 26), il poeta racconta di aver intrapreso nel 1796 la lettura dell’Alcesti di Euripide e, poi, nel 1797 di averne approntato la traduzione da una versione latina, intitolandola Alceste prima. Dalla vicenda di Alcesti Alfieri fu tanto «toccato e infiammato» da concepire «la sceneggiatura d’una nuova Alceste». Quindi, «con furore maniaco, e lagrime molte» stese i cinque atti, l’abbozzo dei cori e uno «Schiarimento» introduttivo in prosa della sua nuova Alceste, non ancora verseggiata, terminandola il 26 maggio 1798. Nello stesso anno, in un periodo in cui continuava a «disasinirsi», Alfieri rifece la traduzione dell’Alceste prima, questa volta dal greco, e «rilettala, pianto assai, e piaciuta[mi]» mise in versi la sua Alceste del maggio 1798 e, terminato il lavoro alla fine di ottobre 1798, le diede il titolo definitivo di Alceste Seconda, perché inseparabile dall’Alceste prima, «sua madre».
Novità dell’Alceste seconda.
Secondo l’autore, tutti i «respiri» della composizione delle Alceste prima e seconda avvengono in uno stato di forte turbamento emotivo (lo scrivere «con impeto» di cui si legge nel citato capitolo IV dell’Epoca IV della Vita). È forse per tale motivo che il plot dell’Alceste seconda, divisibile in tre sezioni, rimane piuttosto fedele all’originale modello euripideo (1. per intercessione di Apollo Thanatos concede al re di Fere Admeto di salvarsi dalla grave malattia che lo sta uccidendo se qualcuno avesse voluto morire al suo posto 2. L’unica che accetti il sacrificio è Alcesti, sposa di Admeto e madre dei suoi figli 3. Ercole la strappa alla morte e la restituisce ai suoi cari). L’intensa partecipazione emotiva dell’autore si riverbera sul carattere dei personaggi, portando all’eliminazione degli aspetti comici o grossolani presenti nel dramma antico (ad esempio, viene eliminato l’agone in cui Admeto e il padre Fereo si accusano l’un l’altro di viltà per aver fatto morire Alcesti, così come sparisce la scena in cui Eracle crapulone canta a squarciagola ed elogia l’edonismo come unica vera saggezza).
Di fatto accade che, come in tutte le tragedie, Alfieri elimini i personaggi secondari e mantenga solo quelli basilari, facendoli esistere in una dimensione puramente eroica (Admeto re di Fere in Tessaglia, Alcesti sua sposa, il figlio Eumelo e la figlia, κωφόν πρόσωπον, Fereo padre di Admeto, Ercole), elimini le divinità Apollo e Thanatos, il servitore Ferete, la serva di Alcesti e, unica volta di tutta la sua produzione tragica, introduca il coro, che si divide “alla greca” anche in due semicori, costituito dalle matrone tessale e non dagli anziani di Fere come in Euripide.
La trama
La tragedia si apre con Fereo, padre del re Admeto, che attende dopo una notte insonne il responso dell’oracolo di Delfi riguardo alla possibilità di guarigione di Admeto da una malattia misteriosa che lo sta conducendo alla morte. Alceste annuncia il responso secondo il quale Apollo potrà salvare Admeto a condizione che qualcuno voglia morire al suo posto, per cui lei stessa ha già promesso con un sacro giuramento a Proserpina di sacrificarsi al posto dello sposo. Mentre Alceste è già consumata da una febbre fatale, Admeto risanato è turbato da oscure visioni, che sono il presentimento della catastrofe: Alceste stessa gli rivela di stare morendo per salvarlo in modo che possa curarsi dei figli e del regno. Admeto con l’animo sconvolto assiste con i figli e il coro all’agonia della moglie. Vorrebbe lui morire per Alceste e rimprovera il padre Fereo di non essersi offerto al posto della moglie evitandole il sacrificio, ma gli viene spiegato che ciò era impossibile, perché Alceste in gran segreto ha preceduto e tutti, stringendo un patto inviolabile con le divinità. Alla reggia di Fere giunge Ercole, legato da vincoli di ospitalità con Admeto, per informarsi del suo stato di salute. Venuto a conoscenza dell’accaduto, impone alle ancelle di condurre Alceste ancora in vita al santuario di Apollo. Admeto, credendola morta, fa voto agli dèi di lasciarsi morire d’inedia se ad Alceste fosse concesso di tornare a vivere. Alla fine Ercole torna nella reggia con una donna velata che viene presentata ad Admeto, prostrato davanti alla statua di Proserpina, come la sua nuova sposa. Al reciso rifiuto di Admeto, di fronte al coro, a Fereo e a i figli Ercole disvela la misteriosa figura femminile: è Alcesti stessa che gli dèi, dopo aver messo alla prova i due sposi, hanno ritenuto meritevole della salvezza.
Il finale si differenzia in modo significativo da quello di Euripide. Nell’Alcesti euripidea Eracle, interrogato su quale forza portentosa gli abbia permesso di strappare Alcesti alla morte, risponde semplicemente di aver attaccato battaglia con il demone dell’Aldilà Thanatos, costringendolo alla resa in un agguato (ἐκ λόχου μάρψας χεροῖν = “avendolo afferrato con le mani in un agguato”, v. 1142). Nella tragedia di Alfieri, l’esito positivo del dramma viene raggiunto con più prosaica verosimiglianza: Alceste non muore, ma guarisce dalla malattia prima di morire. Nonostante questo, non viene data spiegazione di come ciò sia avvenuto. Ercole, prendendo atto dell’imperscrutabilità del Fato, ammonisce di evitare di macchiarsi di una sorta di hybris della conoscenza, indagando vanamente gli «arcani» che vanno oltre la ragione umana:
Arcani questi
son della eccelsa Onnipotenza, in cui
vano del par che temerario or fora
ogni indagar d’umano senno. Alcide,
in tal portento, esecutor sommesso
del comando dei Numi, altro ei non era.
Né il dire, a me piú lice; né a voi lice,
il ricercar piú oltre. Unico esemplo
di conjugale amor, felici e degni
sposi, all’etá lontane i nomi vostri
e celebrati e riveriti andranno.
Emblematicamente queste parole, che al termine dell’Alceste Seconda impongono il silenzio e precludono all’«umano senno» la comprensione profonda degli avvenimenti, sono il suggello della lunga carriera teatrale di Vittorio Alfieri, iniziata con Antonio e Cleopatra (la «Cleopatraccia», in scena con grande successo al teatro Carignano di Torino nel 1775) e culminata con i capolavori del Saul nel 1782 e di Mirra nel 1784.
Se un lieto fine è concepibile nelle vicende umane, esso deve essere casuale e sfuggire alla ragione, come accade nel finale dell’Alceste Seconda: qui, le forze oscure, anche interiori, spietate antagoniste di eroi votati al sacrificio nella tensione verso i valori più nobili della natura umana, vengono in apparenza sconfitte, ma non si sa perché.
A questo aspetto inquietante si contrappone nell’Alceste di Alfieri un’ideale femminile perfettamente complementare a quello maschile incarnato da Admeto. Nella loro perfetta reciprocità di passioni, idee e virtù, Admeto e Alceste sono, come afferma in chiusura di tragedia Eracle:
d’ogni celeste dote
un vivo specchio in terra. Era sol degno
di Alceste Adméto; e sol di Adméto, Alceste.
Nella Alceste seconda non c’è spazio per la viltà e non si riservano concessioni al comico. Il personaggio di Alceste è il paradigma delle più nobili virtù già esistenti nell’etica aristocratica greca: amore, generosità, disinteresse, amicizia, benevolenza, coraggio, onore. Riaffiora dunque evidente l’indissolubile legame con il dramma euripideo, rivendicato dallo stesso autore allorché dichiara, quasi riconoscendo ad Euripide l’intero merito della propria opera: «Ma tuttavia, non volendo io essere né plagiario né ingrato, e riconoscendo questa tragedia esser pur sempre tutta di Euripide, e non mia, fra le traduzioni l'ho collocata, e là dee starsi, sotto il titolo di Alceste seconda, al fianco inseparabile dell'Alceste prima sua madre» (V. Alfieri, Vita, IV, 26).
C. Alberto Savinio, Alcesti di Samuele (1949)
Alcesti e la sorte dell’Europa nel Novecento
Alcesti di Samuele è una tragedia scritta da Alberto Savinio tra il 1947 e il 1948, e messa in scena nel 1950 da Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano. Di fatto si tratta di una riproposizione in chiave moderna dell’Alcesti di Euripide (438 a.C.), alla luce delle drammatiche vicende del secondo conflitto mondiale e delle leggi razziali che portarono alla persecuzione e allo sterminio della popolazione ebraica europea.
A fare da spunto dell’opera, come ricorda l’autore stesso anche nella prefazione all’edizione a stampa del 1949 per i tipi di Bompiani, fu un avvenimento reale del tutto casuale, l’incontro avvenuto alle prove del Wozzeck di Alban Berg al Teatro dell’Opera di Roma nel 1942 con un importante editore musicale viennese (Alfred Schlee, nato a Dresda 1901 e morto a Vienna nel 1999), la cui moglie ebrea, a seguito dell’inasprimento delle leggi di Norimberga che prevedevano gravi sanzioni anche contro i coniugi degli ebrei, si era suicidata per evitare che il marito fosse costretto a scegliere fra il divorzio o l’abbandono della direzione della casa editrice.
A Savinio apparve subito evidente l’analogia con la tragedia euripidea, in cui Alcesti muore al posto dello sposo per salvargli la vita.
I personaggi dell’Alcesti di Samuele
Ne nacque un’opera ambiziosa e complessa, divisa in due parti e con vari cambi di scena a sipario chiuso: l’Autore, sul palcoscenico nel duplice ruolo di personaggio e narratore, racconta la vicenda fantastica di Teresa Goerz che, scomparsa di casa lasciando un biglietto d’addio sotto il proprio ritratto, viene disperatamente cercata dal marito Paul e poi ritorna in vita grazie all’impresa di Franklin Delano Roosevelt, il defunto presidente degli Stati Uniti d’America, che ottiene la sua liberazione dal Direttore del Kursaal dei Morti, una sorta di anti-inferno, concepito come una clinica dell’Aldilà, dove i defunti in una grottesca atmosfera felliniana soggiornano fin quando non si siano liberati della loro personalità individuale.
Sulla falsariga del mito antico, gli eroi tragici vengono trasformati in personaggi borghesi contemporanei: Alcesti, figlia di Pelia, diviene Teresa Goerz, figlia di Samuele; Admeto è il dottor Paul Goerz, editore di Monaco, suo marito; Eracle diventa il presidente americano Franklin Delano Roosevelt; il figlio e la figlia di Alcesti, Eumelo e Perimele, diventano i due figli di Teresa, Ghita e Claus; i genitori di Admeto sono ridotti a due sagome dipinte, immobili sullo sfondo alla maniera del teatro dell’assurdo, da dove commentano gli avvenimenti sulla scena parlando sempre “a parte”. Rispetto all’Alcesti di Euripide, Savinio introduce anche numerose e radicali innovazioni nella selezione dei personaggi: spariscono le divinità Apollo e Thanatos e, naturalmente, il coro dei cittadini di Fere, ma appaiono Matilde ed Errichetta, cuoca e cameriera di casa Goerz, il Direttore e le Anime del Kursaal dei Morti. Inoltre, con uno slittamento di piani fra realtà e finzione teatrale, in scena vengono introdotti come personaggi la voce dell’Altoparlante del teatro, la voce di un enorme Telefono, gli Spettatori e, soprattutto, l’Autore che, oltre a dialogare con i protagonisti del dramma e commentare lo svolgimento dell’azione teatrale in corso, esterna ad alta voce una sequenza di riflessioni su svariati temi che spaziano dalla filosofia alla morale, dalla politica alla storia, dall’arte alla psicologia.
Carattere sperimentale dell’opera di Savinio
I personaggi giostrano in scena, si sovrappongono e si contendono la parola, dando vita a un’originale interpretazione della storia di Alcesti, in cui la finzione teatrale arditamente fonde e confonde la dimensione onirica e quella di una realtà distopica. Il personaggio dell’Autore, una sorta di portavoce delle idee di Alberto Savinio, spiega infatti che il teatro è il «luogo che corregge quello che è sbagliato, completa quello che è incompleto. Il teatro è come i sogni. I sogni attuano quello che da svegli non possiamo attuare» (A. Savinio, Alcesti di Samuele e Atti unici, Milano, Adelphi, 1991, p. 11).
Insomma, l’Alcesti di Samuele, a metà fra Pirandello, il surrealismo e il “teatro dell’assurdo” che si affermerà successivamente, racconta una dolorosa vicenda umana legata alla sorte dell’Europa e alla storia del presente (la guerra, le persecuzioni razziali e i regimi totalitari), mantenendo, però, il carattere anticonformista, antiretorico e provocatorio che è proprio, in ogni occasione, di tutta l’arte di Alberto Savinio.
L’opera non è un revival mitologico: come le sirene di Kafka che fanno del silenzio la loro arte, o l’Ulisse di Joyce che abbandona le rotte del mare per perdersi nelle strade di Dublino, o soprattutto come l’Euridice di Rilke che nella pienezza della morte non ha più pensieri per Orfeo, così l’Alcesti di Savinio è radicalmente antitetica e demistificante rispetto alle interpretazioni date dell’Alcesti euripidea nel corso del tempo. Mancano in Savinio il prologo informativo di Thanatos (demone della morte), la scena di addio di Alcesti al talamo nuziale con la promessa di Admeto di eterna fedeltà, il compianto rituale all’arrivo di Eracle, che, ignaro del lutto, siede rumorosamente a banchetto, l’elogio di Alcesti da parte del coro degli anziani di Fere, la discussione tra Admeto e il padre Ferete per avere quest’ultimo rifiutato di sacrificarsi al posto del figlio, il rimprovero di Eracle ad Admeto di aver nascosto il lutto per non tubare l’ospite, la riconsegna finale ad Admeto di Alcesti, velata e silenziosa, recuperata dall’Ade,
Il finale “anti-euripideo” dell’Alcesti di Samuele
Nella prima parte dell’Alcesti di Samuele Teresa si è già suicidata nelle acque dell’Iser, dopo aver cercato vanamente aiuto nella cerchia di amici e parenti. Poi è costretta a tornare in vita da Roosevelt che si compiace narcisisticamente di essere riconosciuto come “l’Ercole moderno”, vincitore del Nazismo e anche capace di vincere la morte, superando i limiti invalicabili posti dalla natura. A differenza di Alcesti, che viene restituita da Eracle al marito Admeto velata e silenziosa per riprendere il suo posto di madre e regina, Teresa Goerz torna alla luce malvolentieri e solo per portarsi il marito nell’Aldilà. Appare agli astanti scoperta ed è tutt’altro che silenziosa.
La lunga didascalia in corsivo descrive puntualmente la scenografia e il crescendo degli effetti che accompagnano la comparsa di Teresa sulla scena. Un turbine d’aria irrompe fragorosamente sul palcoscenico attraverso la grande cornice rettangolare del ritratto della donna a grandezza naturale misteriosamente scomparso. Paul Goerz, il marito di Teresa, viene respinto e schiacciato con violenza sull’arco scenico. Poi, all’improvviso, silenzio e, come solo in teatro può accadere, una minima sospensione di tempo che dilata il suo significato e un riso sommesso e disteso precedono le parole dell'inquietante/spettrale apparizione.
Al netto degli effetti speciali spettacolari, il ritorno in vita di Teresa ha poco di surreale o mistico. La sua battuta d’attacco delinea la dimensione assoluta dell’episodio, che esibisce lo sdegno e il dolore del personaggio per svolgere una complessa meditazione sulla vita e la morte, sull’amore e il vincolo coniugale, sulla famiglia e le relazioni amicali, sul potere che opprime l’esistenza dell’uomo.
È chiaro che le considerazioni sul nascere dell’uomo sono la ripresa (certamente consapevole) di un topos letterario e filosofico di nobile ascendenza. Il primo immediato riferimento sembrerebbe al Canto notturno di un pastore errante per l’Asia (vv. 39-54) di Giacomo Leopardi e a vari passi dello Zibaldone (tra cui Zib. p. 68 del 1819; p. 2607 del 13 agosto 1822) e, quindi, a un celebre passo del poeta latino Lucrezio Caro (De Rerum Natura, V 222- 227):
Tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis
Navita, nudus humi iacet, infans, indigus omni
Vitali auxilio, cum primum in luminis oras
Nixibus ex alvo matris natura profudit,
vagituque locum lugubri complet, ut aecumst
cui tantum in vita restet transire malorum
[trad.: E inoltre, il bambino, come un naufrago gettato sulla riva
da onde furiose, giace a terra nudo, incapace di parlare,
bisognoso d'ogni aiuto per vivere, non appena la natura lo ha fatto uscire
con travaglio fuori dal ventre della madre alle regioni della luce,
e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto
per colui al quale nella vita resta così tanto male da sopportare)]
Il venire alla luce di ogni essere umano avviene nelle acute pene del parto e nel pianto disperato, ed è, secondo il poeta, come l’approdo di un naufrago spossato privo di parola e privo di ogni cosa, preludio a una vita di dolore. Ma il rinascere innaturale di Teresa (la «rentrée», A. Savinio, Alcesti di Samuele, op. cit., p. 165) ribalta la situazione originaria della nascita, perché è accompagnato da una risata enigmatica che Teresa, provocatoriamente, afferma derivare da un solletico che le procura l’aria a cui si è disabituata. Il sublime si ribalta in un’ambigua commistione di tragico e comico quotidiano. Il linguaggio di Teresa è beffardo e spigliato, intessuto di metafore e similitudini che afferiscono al campo semantico della corporeità e della concretezza, proprio come accadrebbe in una conversazione irriverente e salottiera tra persone di spirito: la risata come «solletico», l’Autore che «si gonfia», la gente come «salami», «gli occhi da trippa lessata», «nausea della natura», «vomito che la Morte rigetta sui vivi», «spezzare il cuore», «unire le labbra», «restituire la botta» (ibid., pp. 165-167)).
La sofferenza e la tragicità della condizione umana non mutano anche nella moderna epoca della tecnica, ma vengono rappresentate in uno stile che si potrebbe definire realismo “creaturale” borghese, in cui si avverte il paradosso di un’esistenza fragile e di un’irrisolta tensione all’ideale, all’interno di un sistema di vita quotidiano ordinato solo alla stabilità economica e al mantenimento dei privilegi. La morte di Teresa per salvare il marito è l’esaltazione del sacrificio come autentica e piena realizzazione dell’amore assoluto che prevale su ogni brutale prevaricazione della storia e imbarbarimento dell’umanità (la guerra, le persecuzioni razziali, l’ipocrisia dei rapporti sociali), ma è anche una forma di demistificazione della famiglia e del matrimonio. È fortissimo il contrasto tra l’eroismo del mito antico, riproposto dal gesto calcolato di Teresa che tende all’assoluto, e il moderno egoismo di personaggi che incarnano una morale utilitaristica, cinicamente attaccata a beni effimeri materiali, alla comodità di una vita opulenta ma inautentica. E lo sdegno di Teresa è evidente:
«E ora perché così fermi e muti? Nessuno si avvicina? Marito? Figli? Nessuno? Eppure mi si aspettava. Erano impazienti di rivedermi, di riavermi, di riabbracciarmi. Non si vuole riprendere le care abitudini, i dolci affetti? Non rivedermi, non riavermi, non riabbracciarmi, spezzava loro il cuore. E allora? Perché questo gelo?...» (ibid., p. 166).
All’avanzare di Teresa al di fuori dalla cornice, tutti i famigliari inorriditi indietreggiano e si allontanano da lei perché ormai troppa è la differenza che il suo sacrificio ha creato fra le loro esistenze. La vacuità dei principi dichiarati e dei sentimenti, l’asimmetria dei valori provoca un orrore e una repulsa nella defunta Teresa: «A costoro io faccio orrore. Lo so. E con questo? Ma l’orrore che costoro fanno a me, costoro non se lo immaginano neppure…» (ivi, p. 167).
La nuova Alcesti nel biglietto d’addio lasciato al marito scrive che «nel sublime sacrificio» a cui si è determinata non sa quanto vi sia «di eroismo e quanto di vanità». La morte è scelta «per volontà di essere» e per «affermare se stessa» (ibid., pp. 61 e 168). Perciò Teresa rifiuta la vita, questa vita («Perché mi sono liberata dai nazisti? Perché… Per capitare nelle mani cenciose di costoro. Che risultato!») per entrare insieme al marito che alla fine della tragedia muore insieme a lei «nella suprema felicità… Non individui più: sciolti nel nulla – nel tutto…» (ibid., p. 189).
Il brano qui riportato è l’incipit della lunga scena della Parte Seconda con cui si conclude la tragedia
D. Giovanni Raboni, Alcesti o la recita dell’esilio (2002)
Giovanni Raboni e il teatro
Giovanni Raboni (1932-2004), poeta, traduttore, giornalista e drammaturgo, è giustamente considerato come una delle personalità più importanti e complesse della cultura italiana del secondo Novecento. Nel ruolo di spettatore e critico teatrale è stato anche un testimone assiduo delle vicende del teatro italiano dalla faticosa rinascita del secondo Dopoguerra fino ai cambiamenti epocali dei primi anni Duemila, sotto il segno della rivoluzione informatica.
Da sempre convinto sostenitore della nobile funzione politica, civile e morale dell’arte teatrale, Raboni ha colto, in anticipo sui tempi, il contrasto sempre più marcato tra il teatro e i “generi” dell’intrattenimento e dello spettacolo che si sono vieppiù affermati nel mondo contemporaneo. L’arte teatrale si manifesta in un’esperienza soggettiva, labile e momentanea, in un hic et nunc materiale e irripetibile, ed è, quindi, l’esatto contrario delle performance decontestualizzate che nella contemporaneità vengono affidate agli strumenti impersonali della comunicazione virtuale, impalpabile e ripetibile in linea teorica all’infinito. In particolare, la traduzione e lo scandaglio dei classici hanno costituito per Raboni una fonte inesauribile di riflessioni sulle difficoltà del linguaggio drammatico e sulle possibilità espressive della scrittura teatrale che deve tendere a una sua specifica autonomia e vitalità. Da qui la scelta di adottare un linguaggio che ha come base il parlato quotidiano, necessario alla fruibilità e alla rappresentabilità del testo teatrale e, parallelamente, il rifiuto della mimesi pedissequa della lingua standard, caratteristica dell’odierna letteratura di consumo. Attraverso una torsione e una rifrazione del linguaggio comune, ottenuta con la versificazione del testo e con una sorta di poikilìa che alterna, ad esempio, perifrasi o espressioni polirematiche di largo uso a un lessico colto e forbito, sintatticamente organizzato con chiarezza, l’autore raggiunge uno stile naturale e al contempo elevato, adatto a personaggi e vicende tragiche e, comunque, funzionale a non banalizzarne il pensiero.
L’Alcesti “metateatrale” di Raboni
Esemplare, in tal senso, è L’Alcesti o la recita dell’esilio, ultima opera teatrale di Raboni, edita da Garzanti nel 2002 e andata in scena con grande successo il 7 gennaio 2004 al Teatro Santa Chiara di Brescia, per la regia di Cesare Lievi.
Si tratta di un adattamento originale dell’Alcesti di Euripide, schematicamente ridotto a un atto unico in versi endecasillabi, novenari e settenari, e con tre soli personaggi, i cui nomi si deducono dalle didascalie senza mai ricorrere nel testo (Simone, il padre-Ferete, Stefano, il figlio-Admeto, Sara, moglie di Stefano-Alcesti), ai quali si aggiunge un infido tetragonista (il Custode del teatro, adiutore e insieme antagonista). L’ipotesto euripideo viene attualizzato e trasformato in una cupa vicenda contemporanea, in cui alla partita mortale che i protagonisti sono costretti a giocare con uno spietato potere totalitario, se ne aggiunge una fra loro stessi, con complessi risvolti psicologici e relazionali, che mette in luce l’ambiguità dei sentimenti e l’ipocrita convenzionalità dei ruoli sociali ricoperti.
Contrariamente al dramma euripideo che si svolge davanti alla reggia di Admeto e nell’arco di una giornata, dall’alba al tramonto, la vicenda dell’Alcesti di Raboni è tutta simbolicamente notturna e ambientata nel chiuso spazio di un teatro abbandonato in una città deserta e avvolta da una spessa coltre di nebbia in un’atmosfera infera (che la fa apparire come un luogo dell’Aldilà). Si tratta evidentemente di un’operazione metateatrale, in cui spazio scenico e personaggi del dramma in abiti borghesi moderni riflettono il mondo degli spettatori oltre la quarta parete e il mondo dell’antico mito di Alcesti.
Trama
A notte fonda, in una città immersa in una nebbia fittissima, due uomini (Simone e Stefano, padre e figlio) e una donna (Sara, moglie di Stefano e attrice) entrano di soppiatto in un teatro vuoto guidati dal custode. Si nascondono al buio, in attesa di essere prelevati e imbarcati clandestinamente per espatriare e sfuggire alla morte a cui sono stati condannati da un regime dispotico e sanguinario che perseguita i presunti avversari del nuovo ordine. Sara riconosce il vecchio teatro dove agli inizi della sua carriera ha recitato l’Alcesti di Euripide e rivive le emozioni e le sensazioni dimenticate del passato. Mentre di fronte a lei padre e figlio continuano a sfidarsi verbalmente, Sara rivela di amare entrambi, indissolubilmente: ama il marito per la sua sicurezza e la sua concretezza, ama il suocero per la sua cultura e la sua sensibilità. La situazione conflittuale diviene inconciliabile quando il custode comunica che, contrariamente a quanto pattuito, sulla nave i posti disponibili non sono più tre, ma due. Non è possibile fare diversamente: uno di loro resterà a terra, destinato dunque a morire. Sara, invece, propone inutilmente di restare tutti insieme e di rifugiarsi nei meandri del teatro a lei ben conosciuti, in attesa che la repressione del regime si plachi. Simone e Stefano, escludendo che possa essere Sara a restare, discutono egoisticamente su chi tra loro due abbia il diritto di partire con lei, senza accorgersi della sua sparizione. È come il sacrificio di Alcesti: Sara si è allontanata da sola, in una nebbia che assomiglia all’Ade, immolando la propria vita per salvare quella degli altri. Arriva il momento della partenza, non c’è più tempo per gli indugi. Simone e Stefano incalzati dal custode salgono in silenzio sul camion che li attende con il motore acceso per condurli al porto, ma al loro fianco trovano una misteriosa compagna di viaggio, silenziosa e velata come l’Alcesti restituita ad Admeto nel finale della tragedia euripidea. Secondo gli ordini perentori impartiti dal Custode, per non far fallire la fuga, a tutti è fatto divieto assoluto di parlare, almeno fino a quando la nave della salvezza non avrà preso il largo. Finale sospeso e interlocutorio, lascia il lettore spiazzato.
Alcesti o la recita dell’esilio: innovazioni e recuperi
L’Alcesti o la recita dell’esilio ha indubbiamente una fisionomia del tutto nuova, ma recupera dell’antico dramma euripideo aspetti tralasciati o sminuiti in molte delle numerose riscritture precedenti.
Sara, l’Alcesti di Raboni, torna ad essere un’eroina passionale e raziocinante, coraggiosa e determinata, incomparabilmente superiore ai personaggi maschili, che in un vaniloquio inconcludente rivelano tutta la loro meschinità.
Indiscutibilmente la parte più estesa della pièce teatrale è riservata al conflitto tra padre e figlio, che tanta importanza aveva in Euripide e tanta perplessità aveva destato nelle epoche successive. Tra i due vi è un rancore che ha origini remote e che si trasforma in una perpetua lotta per il predominio, fino a che non esplode nel momento cruciale in cui bisogna decidere chi debba partire e salvarsi. I due personaggi rappresentano l’eterno conflitto generazionale tra vecchi e giovani, tra cinismo senile e pragmatismo giovanile, tra risentimento paterno e rivendicazioni filiali, tra coriacea volontà di sopravvivenza e impietoso egoismo, tra recriminazione e ingratitudine. In realtà padre e figlio sono complementari e inscindibili, come emerge chiaramente dalle parole di Sara, la quale, intuendo il senso della loro vita, non può che amare entrambi, «uno nell’altro, / uno a causa dell’altro, qualche volta / uno per rimpianto dell’altro / indissolubilmente / inestricabilmente…» (G. Raboni, Alcesti o la recita dell’esilio, in Alcesti. Variazioni sul Mito, a cura di M. P. Pattoni, Venezia, Marsilio, 2006, p. 228; vedi anche G. Raboni, Teatro. Testi e traduzioni, Milano, Mondadori, 2024).
Infatti, mediato dalla struttura famigliare fra i tre protagonisti si è instaurato un equivoco connubio affettivo, condizionato da censure e sensi di colpa, simile alla dinamica, consueta in ambito romanzesco, della triangolazione dei desideri derivante dall’incapacità di desiderare direttamente.
Questo relativismo dei sentimenti e questa morale antieroica, così distanti dalla tragedia e così vicini all’intrigo psicologico del romanzo borghese, emergono chiaramente nella discussione tra Sara/Alcesti, Stefano/Admeto (marito di Sara) e Simone/Ferete (padre di Stefano) che avviene dopo che il Custode ha comunicato che i tre passaggi sulla nave comprati da Stefano per la fuga sono diventati inaspettatamente due e che, quindi, uno dei tre fuggiaschi dovrà rimanere a terra e, quindi, affrontare una morte certa.
Bologna, 18 giugno 2025