Giulia Ponzi - Illuministi a confronto: Candide/Candido, tra Voltaire e Sciascia

 

Questa proposta di lettura è incentrata sul rapporto tra uno degli scrittori più amati del Novecento, Leonardo Sciascia, e il celebre illuminista Voltaire. In particolare, dopo una breve introduzione sulla relazione tra Sciascia e l’Illuminismo, e principalmente sul legame dello scrittore siciliano con Paul Louis Courier, procederemo ad un’analisi comparata di alcuni passi del Candide e dell’omonimo romanzo sciasciano, dimostrando l’approdo dei due autori, inizialmente in sintonia, ad esiti radicalmente differenti. L’origine del tema del percorso risiede nella consapevolezza dell’utilità derivante dalla lettura di Sciascia: le sue opere si configurano, infatti, come strumenti particolarmente efficaci per avere uno spaccato della vita civile dell’Italia non solo del dopoguerra, ma anche contemporanea, dal momento che i problemi sociali denunciati dallo scrittore siciliano sono ravvisabili ancora oggi. Inoltre, è importante confrontarsi con la lettura di un gigante della cultura europea moderna come Voltaire, al fine di cogliere come entrambi, se pur pervenendo ad esiti opposti, non abbiano mai rinunciato ad analizzare ogni particolare e smagliatura della società in cui hanno vissuto. Il tutto alla luce di quell’atteggiamento illuminista che rappresenta la più grande eredità che questi due autori ci trasmettono: esso si declina nella necessità di esercitare sempre il pensiero critico, nell’impegno a non lasciarci travolgere dagli eventi, nel cercare di fare tutto ciò che è in nostro potere, anche quando sembra che non ci sia alcuna speranza di apportare cambiamenti concreti, per denunciare e rivelare i non-detti, ciò che spesso è implicito e velato dalle apparenze e che tuttavia rappresenta il nucleo della verità dei fatti. Far dialogare Voltaire e Sciascia significa, in conclusione, ricavare una lezione di grande responsabilità e di impegno civile anche di fronte a situazioni apparentemente, e forse anche concretamente, irredimibili.

 

Introduzione

 

1. Sciascia: un illuminista in Sicilia

 

Nato a Racalmuto, in provincia di Agrigento, nel 1921, Leonardo Sciascia ha dimostrato fin dagli esordi letterari la volontà di opporsi al «pirandellismo in natura», come lui stesso definiva l’irrazionalità ravvisabile nei rapporti tra gli individui e in generale nella società siciliana. Quest’ultima, nella pessimistica lettura che ne fa lo scrittore, risulta governata dalla legge del più forte, dall’ingiustizia elevata a sistema. Proprio in qualità di difensore dei più deboli, delle vittime dei rapporti di forza, egli inizia la sua battaglia brandendo la penna come se fosse una spada, smascherando e denunciando le ipocrisie e le oscure trame del Potere. Nel romanzo Il contesto (1971), ad esempio, l’autore offre uno spaccato della società contemporanea criticandone il corrotto sistema della giustizia, che rende impossibile condannare i colpevoli e ristabilire quindi una giustizia possibile. Proprio in questa volontà di arrivare alla verità dei fatti e svelare ciò che per molti non è immediatamente intuibile, o che semplicemente non si vuole ammettere, si dimostra l’attitudine tipicamente illuministica dello scrittore siciliano. L’elogio della ragione umana, cardine del pensiero di Voltaire, incontra dunque l’innata tendenza di Sciascia a esaminare e approfondire fatti storici ed esperienze quotidiane: nonostante il suo amore per la Sicilia, questo non gli impedisce mai di metterne a nudo i difetti e le ingiustizie sedimentate nei secoli. D’altra parte, nelle sue opere l’ambientazione socio-esistenziale della Sicilia diviene simbolo di una più ampia lacerazione della coscienza civile e culturale nazionale: in altre parole, il destino della sua isola arriva a simboleggiare la sorte più generale del mondo sociale, politico e morale italiano.

La sua veste di intellettuale illuminista si palesa in modo lampante nell’Affaire Moro (1978), nel quale Sciascia conduce un’analisi approfondita, rigorosa e dolente della realtà contemporanea attraverso gli strumenti della letteratura. In particolare, possiamo dire che con la scrittura di questo testo, contenente una rigorosa ermeneutica, quasi filologica, delle lettere scritte da Moro durante la prigionia presso le Brigate rosse, Sciascia dimostra di sentire e auspicare la funzione del grande intellettuale che incarna lo spirito critico della società, che non si ferma di fronte alle apparenze per cogliere il sottinteso, l’ambiguo, l’indeterminato, il non-detto, utilizzando la sua intelligenza di poeta. In questo senso è lecito affermare che Sciascia ha ereditato il modello di atteggiamento nei confronti della società, e in generale del mondo, tipico dell’Illuminismo: esso si declina nel sottoporre alla critica della ragione ogni smagliatura della realtà al fine di verificarne l’autenticità, o viceversa smascherarne l’impalcatura retta su ingannevoli apparenze. È solo tramite l’utilizzo di una ragione critica di questo tipo che si può stimolare l’intelligenza degli uomini, portandoli a non accettare come dati di fatto situazioni che viceversa devono sempre essere approfondite e scandagliate per essere effettivamente comprese. Se, inoltre, l’Illuminismo presuppone che l’intellettuale assuma un ruolo fondamentale e cruciale per l’evoluzione stessa dell’uomo, possiamo affermare che Sciascia, nel suo incessante impegno civile, lavoro di indagine e messa in discussione di tutti i particolari della realtà, deve essere considerato a tutti gli effetti un intellettuale illuminista. D’altronde, l’ammirazione nei confronti dell’Età dei Lumi è evidente dalle parole espresse dallo stesso autore nel suo saggio intitolato Il secolo educatore, contenuto nella raccolta Cruciverba (1983) e dedicato proprio al Settecento francese. Quest’ultimo è definito il “secolo educatore” in quanto rappresenta lo strumento attraverso cui l’uomo può uscire da uno stato di minorità: considerata un’età di grande speranza, essa realizza un modello che vede la virtù al di sopra della barbarie, l’istinto dominato dalla ragione. E ancora, nello stesso saggio egli sottolinea il ruolo primario svolto dagli intellettuali nella società settecentesca, la loro tendenza a incrinare l’autorità del sovrano e promuovere riforme per cambiare il volto dello Stato. Ma soprattutto, l’importanza del secolo XVIII risiede per Sciascia nella figura di Diderot e nella professione da lui inventata: quella dell’intellettuale, senza il quale non può verificarsi alcun miglioramento dell’ordine esistente. Questo saggio si configura, dunque, come un elogio dell’Illuminismo, della ragione e del ruolo benefico da essa svolto all’interno della società. Grazie ad essa, l’individuo è in grado di apportare cambiamenti significativi nel contesto in cui vive, rifiutando quindi quel ruolo di spettatore passivo degli eventi rivestito, purtroppo, dalla maggioranza.

 

2. Sciascia e Paul Louis Courier

 

Che la tradizione francese - e specialmente quella illuministica - abbia rivestito un ruolo primario nella formazione del giovane Sciascia è evidente, oltre che dall’atteggiamento fortemente critico precedentemente descritto, dalle parole dello stesso autore, il quale annovera nelle prime letture, tra gli altri, Voltaire, Diderot, e gli opuscoli di Paul Louis Courier. Quest’ultimo, nato a Parigi nel 1772, meno noto degli altri due, ha avuto tuttavia primaria importanza nella definizione del percorso letterario di Sciascia. Egli è particolarmente interessato all’inclinazione dell’autore francese ad analizzare in modo rigoroso e profondo la realtà in cui vive, ponendosi a volte anche in una situazione di solitudine intellettuale, in contrasto con la maggioranza. L’ opera di Courier si articola in tre sezioni: i Pamphlets, le lettere scritte dalla Francia e dall’Italia, e le traduzioni dal greco. È soprattutto la prima, costituita dai suoi brevi ma pungenti scritti politici, con i quali denuncia le condizioni del vivere civile della Francia della Restaurazione, ad interessare il giovane Sciascia. In questa sezione, infatti, l’autore palesa quell’attitudine derivata dalla sua formazione illuministica e che lo scrittore siciliano eredita, ad analizzare e denunciare una società in cui ovunque ci si volti si è di fronte all’ingiustizia, tale per cui i delitti trionfano e l’innocenza viene oppressa. Courier nelle sue petizioni ci racconta episodi (persecuzioni, vere e proprie razzie e arresti commessi durante la Restaurazione) che sono spunti per riflessioni di più ampia portata - pur rimanendo in una prospettiva provinciale - con un tono semplice ed apparentemente ingenuo, che tuttavia amplifica l’odiosità e la crudeltà dei fatti narrati, trasmettendo lo sdegno di un uomo onesto di fronte ad una giustizia non uguale per tutti. Egli denuncia la violenza e la disumanità che contraddistinguono le forme del Potere, per cercare di interrompere quella catena di ingiustizie che perdurano da troppo tempo e che sono sempre dannose per i più deboli, per i non-eroi travolti dal necessario corso degli eventi. È evidente che una simile operazione non può non suscitare l’ammirazione di Sciascia, il quale, esattamente come Courier, dimostrerà nelle sue opere (La strega e il capitano, Morte dell’inquisitore, per citarne alcune) l’interesse per ogni sfaccettatura del vivere civile, e la volontà di porsi, sempre e comunque, all’opposizione, in difesa delle vittime della brutale architettura del Potere. Entrambi, infatti, desiderano tramite i loro scritti restituire l’immagine delle proprie terre (da un lato la provincia della Turenna, dall’altro Racalmuto/Regalpetra) sequestrate alla ragione, alla giustizia alla libertà, descrivendo situazioni in cui a dominare è la legge del più forte. È dunque con le vittime della crudele logica del potere che Courier e Sciascia si identificano, assumendo il ruolo di difensori di oppressi, derelitti e deboli. Come se la pagina scritta potesse sciogliere le contraddizioni e risolvere l’irrazionalità di un contesto in cui non si fa caso alla sofferenza altrui e ci si dimentica di coloro che costituiscono il gradino più basso della piramide sociale. Convinti che la storia sia dominata dalla violenza e dalla sopraffazione, il loro compito è disvelarne le menzogne e le ipocrisie, in modo da rendere la verità pubblica in un contesto in cui il Potere ne ostacola la diffusione. Courier e Sciascia, in quanto veri illuministi, sono dunque impegnati nel perseguimento, tramite la ragione e lo spirito critico che guidano le loro penne affilate, di un unico obbiettivo: il raggiungimento della verità, a qualunque costo.

 

 

Percorso di letture

 

Il percorso inizia con un’analisi di alcuni passi del Candide, ou l’optimisme (Candido, ovvero l’ottimismo, 1759) di Voltaire, per poi soffermarsi sui risvolti della filosofia qui descritta nell’omonimo romanzo sciasciano Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia. Viene dunque attuato un dialogo tra i due autori, basato sul confronto tra la ragione pragmatica dell’autore francese da un lato, e dall’altro l’inclinazione verso una nuova forma di razionalismo contenuta nell’opera dello scrittore siciliano.

Il percorso si articola in due parti:

 

Parte 1 ͣ

Da: Voltaire, Candide ou l’optimisme

T1 - La filosofia di Pangloss

T2 - Il terremoto di Lisbona

T3 - Coltivare il proprio giardino

 

Parte 2 ͣ

Da: L. Sciascia, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia

T4 - La semplicità di Candido

T5 - Il ‘superamento’ di Voltaire

T6 - La delusione dell’orto

 

Parte 1 ͣ

 

L’orto di Voltaire

 

Con Candide, ou l’optimisme lo scopo di Voltaire è dimostrare l’erroneità della tesi del filosofo Leibniz, secondo cui il mondo in cui viviamo è il migliore tra quelli possibili, e quindi l’ordine sociale esistente è quanto di meglio l’uomo possa sperare di ottenere. L’illuminista francese considera una simile filosofia estremamente semplicistica e scontata, una visione del mondo che preclude quel ruolo attivo e concretamente operante che l’individuo dovrebbe invece assumere. Tale “ottimistica” convinzione di stampo leibniziano è sostenuta dal personaggio di Pangloss, il precettore che educa il protagonista trasmettendogli il suo stesso punto di vista, come dimostrato da questo passo tratto dall’inicipit del romanzo.

 

LINK_1_ La filosofia di Pangloss

 

È evidente che un simile atteggiamento neghi qualsiasi esercizio del pensiero critico, dal momento che, poiché tutto è bene ed è naturale che sia così, non c’è nulla da indagare: la spiegazione è fornita a priori, non c’è bisogno di cogliere la sostanza dei fatti, che coincide con le apparenze. Tuttavia, Candide, giovane piuttosto ingenuo e di buon cuore, nato in un castello della Westfalia, attraverso le esperienze e traversie che deve affrontare una volta cacciato dai possedimenti del barone a causa dell’amore per la figlia di quest’ultimo, Cunegonda, dimostra che non è vero che «le cose non possono essere altrimenti», che «tutto è necessariamente per il miglior fine» e che «ogni cosa è necessariamente collegata con un’altra e ordinata per il meglio». Descrivendo nel romanzo situazioni estremamente dolorose, in cui a dominare è la sofferenza e spesso la morte, Voltaire palesa le contraddizioni di un mondo che si dimostra perfetto solo nell’apparenza, e che risulta invece dominato dal Male.  Non c’è nulla di ottimistico, per l’autore francese, nel rifiutarsi di vedere il mondo nella sua sostanza: la negazione della verità dei fatti è un’operazione inaccettabile, in quanto distorce la realtà effettiva in cui dominano violenza, soprusi e calamità naturali. A dimostrazione di ciò, è utile considerare l’episodio del terremoto di Lisbona, citato nel romanzo ed accaduto realmente il 1° novembre 1755, provocando la distruzione di oltre un terzo della città e migliaia di vittime: esso si configura come l’episodio più eclatante tra le varie tragedie che costellano il racconto.

 

LINK_2_ Il terremoto di Lisbona

 

Narrare un fatto di tale tragicità risulta un espediente particolarmente efficace per Voltaire, in quanto gli permette di dimostrare che più un individuo andrà in profondità, rendendosi conto dei mali del mondo, più si imbatterà in fenomeni terrificanti e situazioni angoscianti. Di fronte a tutto questo male e dolore, visti con la luce della ragione, colui che ha coscienza non potrà che interrogarsi su come cambiare un mondo che, nei fatti, non è assolutamente il migliore tra quelli possibili. Eppure, ancora una volta è evidente da questo brano come il precettore cerchi grottescamente di inserire episodi così dolorosi da sembrare inspiegabili in una sorta di disegno provvidenziale, che ottimisticamente combinerebbe tutte le cose per il meglio.

Dopo aver peregrinato per il mondo, essere riuscito a sposare la sua amata Cunegonda e aver conquistato la saggezza nata da dolorose esperienze e continue altalene della fortuna, Candide si stabilisce finalmente con la moglie in una fattoria sulle sponde del Bosforo, lavorando la terra e ragionando sul significato delle vicende che ha affrontato. In questo modo, Voltaire vuole comunicare l’errore nel credere di vivere nel migliore dei mondi possibili e nel sostenere il delirio per cui tutto va bene quando tutto va male: bisogna adoperarsi in modo concreto se si vuole migliorare la propria condizione. Non a caso, nel passo finale riportato di seguito, tutti i personaggi si troveranno a coltivare il proprio giardino: questa operazione diviene metafora dell’impegno individuale, della ragione e del lavoro pragmatico come antidoti alle circostanze violente e spesso prive di logici fondamenti che la vita ci pone continuamente davanti. 

 

LINK_3_Coltivare il proprio giardino

 

È solo tramite l’operosità e la tolleranza che ci si può opporre alle illusioni di felicità, così che l’unica cosa da fare è «coltivare il nostro orto», seguendo l’esempio e il monito di Candide, senza curarci troppo delle grandi domande e delle dispute filosofiche, e concentrandoci invece sulle cose tangibili che possono davvero essere cambiate. Seguendo i precetti illuministici, l’autore francese è dunque convinto che, nonostante il dolore e la sofferenza che ognuno deve affrontare durante la propria vita, sia possibile apportare cambiamenti significativi al sistema. Per utilizzare le parole del personaggio di Martino: «Lavoriamo senza ragionare, è l’unico modo per rendere sopportabile la vita».

Con questo breve romanzo Voltaire ha dunque voluto sottolineare l’importanza del sollevare e riconoscere i problemi e le contraddizioni del mondo: solo così, infatti, si possono formulare soluzioni e si può agire concretamente per migliorare una realtà che necessita cambiamenti, facendosi sempre guidare dalla luce della ragione. Questa è sicuramente la grande lezione che Leonardo Sciascia ha ereditato e seguito durante tutta la sua vita, arrivando tuttavia alla consapevolezza, come vedremo, dell’incurabilità dei mali del mondo.

 

Parte 2 ͣ

 

 SCIASCIA E IL CANDORE

 

Anche se non viene mai meno in Sciascia la fiducia di fondo in una letteratura che sia indagine razionale del mondo ed esercizio critico della ragione, è stato concordemente rilevato come negli anni Settanta si verifichi una vera e propria svolta nella produzione dell’autore siciliano.

Nei due romanzi gialli Il contesto (1971) e Todo modo (1974), infatti, Leonardo Sciascia sembra approdare a una forma di radicale pessimismo: se inizialmente, fin dalle Parrocchie di Regalpetra (1956), l’autore concepiva la possibilità di una letteratura che potesse rispecchiare fedelmente la realtà e risolverne le contraddizioni, in quanto considerata come un cosmo ben saldo ed esistente al di là del testo scritto, a partire da Il contesto, invece, la realtà sembra infrangersi, degradarsi e addirittura svanire di fronte ai tentativi di demistificazione attuati dalla scrittura. Quella iniziale e totale fiducia in un volteriano razionalismo come strumento per attuare il progresso dell’ordine esistente, nelle opere più mature sembra naufragare di fronte ad una realtà che si mostra in tutte le sue irrisolvibili contraddizioni e ipocrisie, e che sembra attingere addirittura ad una più profonda surrealtà. Non un’inadeguatezza della parola o un’inefficacia della ragione, dunque, ma sembra piuttosto che la causa del “fallimento” dell’obbiettivo che aveva da sempre guidato la penna di Sciascia si radichi nella natura stessa della realtà, che risulta tanto evanescente da non rendere possibile un suo logico riordino. Di fronte alla presa di coscienza che non possa essere utile una ragione pragmatica incapace di scendere a compromessi con il lato oscuro ed ambiguo della realtà, Sciascia sente la necessità di ridefinire le linee di una nuova forma di razionalismo in grado di superare il modello volteriano e illuministico in generale. Una razionalità, insomma, problematica, percorsa anche da inquietudini religiose, che rinuncia alla pretesa di attuare il progresso della società, accettando invece il disordine, il conflitto e l’irrazionalità del reale come una dimensione stabile e permanente. Di fronte all’impossibilità di costruire un legame saldo con il mondo esterno e di riconoscere in esso le cause e gli effetti, i colpevoli e gli innocenti, Sciascia, decidendo di non abbandonarsi al più radicale pessimismo, ma al contrario di mantenere quell’attitudine critica che lo contraddistingue, matura una nuova forma di saggezza e di razionalismo. Essa potrebbe rappresentare una soluzione, o comunque un compromesso, all’indecifrabilità della realtà: si tratta del candore, riproposto nel romanzo Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (1977).

Il protagonista è Candido Munafò, nato in una grotta nelle campagne siciliane nel luglio del 1943, proprio mentre le truppe anglo-americane sbarcano in Sicilia. Interessante notare come il nome sia stato scelto dai genitori non sulla base del modello volteriano, che evidentemente ignoravano, come ci suggerisce il narratore, bensì dal fatto che il padre, l’avvocato Francesco Maria Munafò, ritrovandosi completamente ricoperto dalla polvere di calce prodotta da un bombardamento, continuava a ripetere la parola «candido», ad indicare «il bianco di cui si sentiva incrostato, il senso di rinascere che cominciava a sgorgargli dentro». Il narratore segue le vicende del protagonista fino all’anno 1977, mettendone in risalto in particolare l’indole semplice e sincera. Per comprendere le caratteristiche di un’anima candida, e quindi della nuova tipologia di razionalismo cui approda Sciascia, è utile considerare questo passo, in cui il protagonista Candido Munafò, abbandonato in malo modo dall’amata Paola, si lascia andare ad una serie di considerazioni.

 

Link_4_La semplicità di Candido

 

È evidente, dalla lettura di questo brano, una delle caratteristiche principali del protagonista, ovvero l’ingenuità nel guardare e nell’affrontare le situazioni che gli si presentano: per lui le cose sono sempre semplici, anche nei momenti più tragici. Eventuali considerazioni ed analisi approfondite su un determinato fatto sono per lui superflue, accidenti rispetto alla pura sostanza dell’accaduto. Proprio questa sua spontaneità lo porterà ad essere considerato un po’ «tardo» dagli altri personaggi, a causa del suo peculiare modo di vedere e vivere i rapporti umani, dei quali Candido non accetta il carattere necessario: egli si astrae e si rifugia nella propria solitudine al fine di non prendere parte ad un contesto, quello siciliano, così ricco di contraddizioni. Dalla lettura delle vicende di Candido è evidente, infatti, come il protagonista non sia capace di integrarsi, e non lo desideri nemmeno, in un sistema che si dimostra ipocrita, corrotto e malpensante, e che l’autore non esita a denunciare. Ciò accade proprio a causa di quella particolare attitudine che caratterizza il protagonista, ovvero il candore, che lo porta piuttosto a celebrare la gioia dei corpi e l’istintività dell’amore di fronte alle dolorose esperienze della vita, come dimostrato dal brano precedente.

Un esempio di tale impossibilità da parte di Candido (e anche di Sciascia) di identificarsi con un’ideologia dietro la quale si cela un oscuro gioco di contraddizioni è l’esperienza all’interno del Partito Comunista, che risulta, alla fine, fallimentare. Impossibile non notare in ciò la trasposizione letteraria del fallimento dell’esperienza politica di Sciascia nel medesimo partito, che si concluderà con le dimissioni del 1977, dopo aver capito, come dichiarato da lui stesso in un’intervista del medesimo anno, che «questo partito detto di opposizione non attuava in nulla il suo ruolo di opposizione». Grazie al candore che lo contraddistingue, il protagonista riesce dunque a smascherare gli intrighi e le ipocrisie di una realtà rispetto alla quale è condannato a rimanere estraneo, proprio a causa dell’eccessiva semplicità e purezza dello sguardo e delle intenzioni. Possiamo dunque affermare che Candido rappresenti la consapevolezza che Sciascia ha maturato di non poter intervenire concretamente in una realtà rispetto alla quale si sente più che mai estraneo. Sia il personaggio che l’autore, con il candore e l’istintività da una parte e una forte predisposizione a complicare ed analizzare dall’altra, sono in grado di vedere al di là delle apparenze, cogliere ciò che è implicito e svelare la crudeltà e il non-senso che governano le relazioni umane. Di fronte a tale situazione, a Sciascia non resta che opporre e celebrare la gioia dei corpi, accettare la vita nella sua semplicità e pienezza, mettendo da parte la sua attitudine a problematizzare e cercare di risolvere gli aspetti del vivere civile, senza tuttavia rinunciare a quello spirito critico e di denuncia che lo contraddistingue. Alla luce di ciò, possiamo affermare che con Candido, il cui titolo richiama l’omonimo testo volteriano, Sciascia non vuole riproporre il modello illuminista, bensì sottolineare la distanza da quell’epoca e attuarne un superamento, in modo da conciliare le ragioni della ragione con le ragioni, e soprattutto l’irrazionalità, della natura umana. Che Sciascia fosse consapevole di essere andato oltre i suoi amati illuministi francesi è evidente dalla lettura della conclusione del romanzo, in cui il protagonista, dopo aver rotto ogni legame con la famiglia, il partito comunista e la Chiesa cattolica, si trova in Francia insieme all’amico don Antonio Lepanto.

 

Link_5_Il ‘superamento’ di Voltaire

 

Parigi (culla e simbolo della grande stagione illuministica) diventa dunque la città della sconfitta della ragione, intesa come strumento in grado di sanare la società e le sue contraddizioni, ma anche simbolo della rinascita, di un ricominciamento, della liberazione totale dai padri, perfino da Voltaire. Con la scelta di un simile finale si consuma il distacco di Sciascia da ogni rivoluzione e da ogni fiducia in un cambiamento globale: se il Candide di Voltaire si chiudeva su una morale concreta e fattiva («coltivare il proprio giardino») da opporre al sistema, quello di Sciascia si conclude invece su una rinuncia all’azione. La capitale francese diventa dunque il luogo di un riscatto impossibile, di una sconfitta esistenziale: e tuttavia è proprio in questa città - non ancora omologata e nella quale ci si può ancora sentire «sciolti e liberi» - che si verifica la fuga di Candido; questa è l’unica soluzione possibile di fronte ad un contesto invincibile. È nella capitale francese che si verifica, dunque, la chiusura di un cerchio: un cammino che ha visto inizialmente Sciascia aggrapparsi agli strumenti dell’Illuminismo francese, e terminato con la consapevolezza da parte dell’autore dell’incurabilità della violenza e delle oscure trame del Potere che caratterizzano la Storia. Come ulteriore dimostrazione del superamento del modello illuminista attuato con Candido, è utile considerare il motivo volteriano della lavorazione della terra, che rappresenta il punto di arrivo del Candide, e che viene riproposto nel romanzo sciasciano in una zona centrale della storia, subito dopo le dimissioni dell’arciprete Lepanto, nel capitolo (dal titolo descrittivo di gusto tipicamente settecentesco) Del tentativo che l’ex arciprete fece di dedicarsi a coltivare il proprio orto e Candido le proprie terre; e delle delusioni che ne ebbero, di cui si riportano alcuni passi significativi.

 

Link_6_La delusione dell’orto

 

Già dall’ intestazione è evidente la portata fortemente ridimensionata di un’azione simbolica che nel testo francese rappresentava l’unica via d’uscita da un mondo che, come dimostrato delle vicende del protagonista, non è il migliore tra quelli possibili. Diversamente da quanto accadeva nel Candide (dove coltivare il proprio giardino è cosa nuova e ignota all'esperienza dei personaggi, punto di approdo delle loro vicissitudini), nella prospettiva dell'ex arciprete lavorare la terra dovrebbe coincidere con il ritorno alla povertà delle proprie origini contadine, e si configura perciò come un tentativo fallito di far rivivere il passato ripercorrendo un itinerario a ritroso sulle orme del padre. Considerato che nell’ottica di don Antonio tale attività dovrebbe fornirgli il giusto sostentamento e una sorta di riscatto morale, si riproporrebbe la medesima dinamica narrata da Voltaire; sennonché, il tentativo di coltivare l'orto ha un esito fallimentare. Lo scacco del personaggio sembra, in ultima analisi, ascrivibile ad una unica causa: l’impossibilità di far rivivere il passato. Parimenti fallimentare risulta l’esperienza agricola di Candido adolescente, il quale, dopo aver ereditato le proprie terre, aveva iniziato a lavorare «sulla base di quel che leggeva su un manuale, di quel che vedeva fare a don Antonio e di quel che i contadini gli consigliavano». Possiamo aggiungere, inoltre, che a differenza del Candide, le terre vengono qui intese come «roba», una mole di ricchezze che alla fine costituisce quasi un impedimento, e che il protagonista dubita appartenergli per giusta causa («Ed era giusto riceverle come lui le aveva ricevute, e tenersele?»). È evidente, dunque, il rovesciamento attuato da Sciascia che sancisce la rottura con il modello illuministico francese: gli espedienti del lavoro pragmatico e dell’operosità, considerati antidoti all’ottimismo leibniziano e unici strumenti per rendere sopportabile la vita, vengono qui fatti naufragare, dimostrando tutta la loro inutilità ed impotenza. È altrettanto evidente dalla lettura del brano riportato come attraverso la finzione letteraria Sciascia abbia voluto manifestare i propri ideali di giustizia sociale e di rinuncia ai privilegi di classe, e la conseguente delusione causata dall’abbandono di questi principi da parte del partito comunista. Alla fine, il perseguimento dell’obiettivo della “terra ai contadini” si è rivelato un’illusione, provocando la crisi e la perdita di credibilità della sinistra siciliana e più in generale italiana. Questo fallimento delle ideologie di riscatto sociale, nonostante avessero rivestito un ruolo importante nel progetto politico-sociale del partito comunista, soprattutto nel Sud Italia, viene denunciato in modo emblematico all’interno del romanzo, dal momento che il desiderio di Candido di regalare le proprie terre per la costruzione di un ospedale sarà ostacolato dagli stessi membri del partito.

Alla luce di quanto sopra, Candido deciderà di abbandonare il proprio giardino, privandosi quindi delle sue ricchezze ereditarie e lavorando come meccanico: in questo modo il protagonista, ma anche e soprattutto l’autore, vogliono sancire il rifiuto di qualsiasi paternità.  Ecco, dunque, la spiegazione del sottotitolo ovvero un sogno fatto in Sicilia, rispetto al quale, nell'intervista al «Nouvel Observateur», lo stesso Sciascia dichiarava: «un sogno di ragione dentro il sonno della ragione». Dove il «sogno» è quello del trionfo della ragione e degli altri valori illuministici, quale la tolleranza introdotta come antidoto da Voltaire, che tuttavia si oppongono per poi essere sconfitti dalla «Sicilia», ovvero dalla storia, dalla realtà, che non è altro che un susseguirsi di violenze e soprusi.

Da questo confronto possiamo concludere che la fiducia tipicamente illuminista espressa dal Candide volteriano e dalle prime opere dello scrittore siciliano nella ragione pragmatica come strumento di risoluzione delle contraddizioni e delle ipocrisie della realtà, e quindi veicolo del progresso del sistema, cede il posto nel Candido sciasciano all’antidogmatismo, alla solitudine, al candore e alla pietà. Questi, tuttavia, non solo stati d’animo, ma veri e propri valori attorno ai quali orbita la più matura produzione, nonché l’ultima speranza, di Sciascia: è su tali pilastri, infatti, che deve essere costruita la resistenza al Potere e all’omologazione scaturita da un unico modello, di qualunque tipo sia, qualora esso sia incapace di fare i conti con le contraddizioni e l’irrazionalità della natura umana. Quello degli ultimi anni, in definitiva, non può essere etichettato come atteggiamento all’insegna del pessimismo: l’atto stesso di continuare a scrivere e denunciare è di per sé un’operazione intimamente ottimista e illuministica, cui lo scrittore di Racalmuto non rinunciò mai, nemmeno nelle opere più mature.

 

 

28 febbraio 2023