Cristina Nesi - Beppe Fenoglio e la lingua della menzogna: italiano, dialetto langarolo e inglese

 

Esistono nelle opere di Fenoglio contrapposizioni binarie fra verità e menzogna? E, se esistono questi rapporti di forza, assumono nella prosa anche una loro peculiarità linguistica? Possiamo isolare espressioni e gesti, quali indizi di veridicità o di falsità e al contempo capaci d’indirizzare l’analisi letteraria alle consequenziali scelte stilistiche dell’autore?

 

Contrapposizioni binarie, peculiarità linguistiche e scelte narrative

Il mondo che Fenoglio ci narra è diviso tra fazioni opposte: da un lato i partigiani, che combattono nelle Langhe a difesa delle loro comunità, dall’altro l’esercito di Salò che riunisce i soldati rimasti in divisa dopo l’8 settembre, provenienti da tutta Italia, oltre ai giovani nati nel 1923, 1924, 1925 che con i bandi Graziani sono stati arruolati forzatamente dai fascisti nel Centro-Nord.

In Primavera di bellezza appare evidente anche la babele dei dialetti italiani nell’esercito prima dell’8 settembre, dialetti sempre nominati e non trascritti che diventano elemento distintivo, in sostituzione delle divise regolari dell’esercito ormai immiserito e allo sbando. Il linguaggio specifico di ciascuno può essere esemplificato dal carrettiere diretto con il rancio alle «grotte naturali in due dentoni tufacei», dove sono immagazzinate le munizioni, e che viene riconosciuto dai compagni come ‘fante ai servizi’ non per l’uniforme, tanto è «sbracato e pittoresco come un carrettiere d’altri tempi», quanto grazie al fatto che parla al mulo «nel dialetto di casa»[i] [Testo 1]. Tanto basta a distinguerlo da elementi dialettali allogeni e quindi a riconoscerlo a dispetto dell’uniforme fatiscente.

In tutta la trilogia (Primavera di bellezza, Il partigiano Johnny e Una questione privata) anche i partigiani delle Langhe parlano in dialetto, senza che quest’ultimo entri nei dialoghi: è sempre l’autore a precisarlo, come nell’esempio precedente, benché li faccia parlare in italiano.

Ora, se l’attenzione al modo di esprimersi dei personaggi aiuta a dimostrare lo schieramento di appartenenza, quando si tratta di smascherare un fascista paludato sotto mentite spoglie, «travestito da contadino o da servitore di campagna, o da mendicante, o da ambulante», la discriminante linguistica si affina ancora di più. Addirittura, i partigiani più esperti ne Il partigiano Johnny insegnano ai meno abili come difendersi dai fascisti proprio attraverso la discriminante del dialetto. Quando Ettore sofferente per un mal di gola giace sulla paglia della stalla-rifugio, Johnny gli confessa di aver visto il partigiano morto e di aver imparato «una lezione terribile»[ii] perché di sicuro «qualcuno l’ha salutato, gli ha sorriso e gli ha sparato alle spalle. Una spia, un fascista, travestito da contadino o da servitore di campagna, o da mendicante, o da ambulante. – Ettore seguiva con gli occhi brucianti e la testa sempre cennante. – Quindi, d’ora avanti, dai l’altolà a tutti quelli che incontri, e mirali e falli avanzare con le mani intrecciate sulla testa e soprattutto parlagli in dialetto e pretendi che ti rispondano in dialetto».[iii]

Può capitare che anche un repubblichino catturato parli piemontese, come avviene nel caso del soldato rastrellato dai Bandi Graziani che racconta di essere un disertore, ma Johnny si serve anche in questo caso della discriminante linguistica per discernere la credibilità del suo interlocutore, al punto da concentrare l’attenzione sull’uso della vocale “e” chiusa, un’abitudine diatopica propria di Asti, per cui quando il soldato lo implora dicendo: «Sono rovinato lo stesso, sono morto lo stesso! Non da te, ma da loro! Perché sono un disertore, stavo disertando quando m’hai preso! Stanotte sono scappato da Asti, dal bunker sul ponte dov’ero di guardia», Johnny lo lascia parlare e scopre che si era presentato alla leva per paura. «Disse il suo paese, una borgata oltre Bra, e Johnny gli ordinò di parlargli in dialetto, ed egli eseguí, aveva realmente l’e stretta della parlata braidese».[iv]

Le aree periferiche a sud del Piemonte sono orientate verso tipi e tratti linguistici esterni, per cui una parte della provincia di Alessandria risente dell’influenza emiliana, mentre una fascia meridionale, fra cui Asti, appartiene alle influenze di tipo ligure. Tanto basta a Johnny per provare la credibilità del prigioniero astigiano.

Se analizzare come e quando le persone mentono o dicono la verità può servire nella vita quotidiana a capire meglio molti rapporti umani, in guerra diventa un’azione necessaria, se non essenziale per salvaguardarsi dagli inganni e salvare così la vita propria e altrui. Comprensibile, quindi, la pretesa di un vecchio in Una questione privata di sentir parlare i partigiani di Mango in dialetto, esigenza subito compresa e rispettata da Meo, che ripete in dialetto ogni parola[v] [Testo 2].

La dichiarazione di un anziano contadino ci svela anche che nelle Langhe trent’anni prima della guerra a parlare italiano fossero solo i venditori di olio liguri, ma già dopo poco tempo imparavano a esprimersi nel dialetto langarolo almeno per il lessico più usato, cioè olio, peso e prezzo.[vi] Il vecchio si lamenta perché non era in casa al momento in cui un venditore di pelli di coniglio di Alba si era palesato. Grazie al dialetto lui avrebbe potuto smascherare l’uomo (presumibilmente un ufficiale), mentre la padrona di casa non era stata in grado di farlo, dato che la presunta spia fascista aveva parlato solo in italiano [Testo 3]. La donna si era però, spaventata per quel sorriso che gli aveva visto in volto, così terribile da gelarle il sangue: quel sorriso, che aveva ingannato probabilmente anche il giovane partigiano, secondo il racconto di Johnny a Ettore.

Secondo Paul Ekman (I volti della menzogna, 1989) il sorriso è la mimica emotiva più facile da assumere volontariamente quando si vogliono fingere espressioni a mascheramento di altre o per compiacere l’ascoltatore. Per tutta la vita il sorriso sociale è capace di presentare emozioni che non si provano, però è possibile sbagliare i tempi di questi sorrisi non sentiti, che possono risultare troppo precipitosi o troppo ritardati rispetto all'espressione che invece dovrebbero accompagnare. Evidentemente la donna di Il partigiano Johnny, anche se non ha avuto l’accortezza di far esprime in dialetto il venditore di pelli per smascherarlo, ha intercettato una mimica che l’ha fatta insospettire.

Teniamo anche presente che, secondo Ekman, due sono i modi principali di mentire: da un lato si può falsificare, dall’altro si può procedere per dissimulazione. Chi falsifica inganna, presentando un’informazione falsa come se fosse vera, invece nella dissimulazione chi mente nasconde delle informazioni senza dire effettivamente nulla di falso. Basti pensare a Milton di fronte all’omissione di Giorgio, suo amico fraterno e partigiano, sugli incontri serali prima della guerra con Fulvia, la donna amata da entrambi in Una questione privata. Non tutti considerano la dissimulazione una menzogna, però le notizie vengono consapevolmente taciute e non per caso. Chi omette un’informazione infatti, ha il vantaggio di non dover mistificare la verità e di non farsi cogliere in fallo sulla storia che racconta, seppur ben congegnata.

La dissimulazione è in sostanza un comportamento passivo, rispetto alla falsificazione che impone un soggetto attivo, ma non per questo è meno riprovevole per Fenoglio, né crea meno danni. Le azioni di Milton in Una questione privata si concentrano non a caso sempre più intorno al desiderio di sapere la verità, di svelare quella dissimulazione, fino alla ricerca spasmodica di un fascista da catturare per scambiarlo con Giorgio Clerici e poter così avere notizie di Fulvia, la presenza femminile fantasmatica quanto ossessiva nel libro: sapere del loro rapporto può dissolvere il tarlo del dubbio inculcato dalle allusioni della custode incontrata nella villa della giovane.

Non accettare l'idea che un caro amico e compagno di lotta partigiana abbia tradito la tua fiducia innesca una forsennata lotta interiore («La verità su Fulvia aveva la precedenza assoluta, anzi esisteva essa sola»)[vii] con un susseguirsi di azioni volontarie e involontarie del protagonista, finché dal IX capitolo in poi, come ha evidenziato Nunzia Palmieri,[viii]  l’inchiesta di Milton procede verso una progressiva metamorfosi dall’umano al non umano, che lo porterà a sentirsi «vuoto e inconsistente, quasi senza baricentro»,[ix] poi una formica che debba arginare un macigno, un serpe trafitto, una canna crocchiante e quindi un blocco di fango che gli avvinghia «petto, ventre e ginocchia».[x]

Il linguaggio iconico costituisce un modo nuovo di raccontare l’uomo in balia del destino, la sua animalizzazione («Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piedi saettava fango dai fianchi»[xi]) e il suo avvicinamento progressivo alla terra fangosa, che lo accoglierà nella caduta su cui la storia si chiude.

Anche il piano della storia individuale dal XII capitolo finisce per essere inghiottito in quello della grande Storia, allorché Riccio e Bellini, due partigiani adolescenti, vengono fucilati dai fascisti per vendicare il sergente ucciso da Milton. La microstoria del viaggio di Milton si trasforma allora in uno sguardo ravvicinato su ‘una questione’ ampia e tutt’altro che privata: la percezione di una forza oscura, che incombe sugli uomini e li travolge, e che s’innesta anche sulle azioni umane più ignare, ma mai irrilevanti, come quella dell’involontaria uccisione del fascista catturato da Milton.

Riccio scaglia prima di morire le sue maledizioni, che investono anche l’uomo che ha ucciso il fascista Rozzoni, e così «nella cecità che lo accompagna fino al momento in cui uscirà di scena, Milton viene chiamato ad assistere a quel rito sacrificale, come primo responsabile. La sua presenza nella guerra non è racchiusa nel cerchio della questione privata in cui il partigiano convoglia le sue energie, ma si allarga indefinitivamente e rompe gli argini segnati dalla consapevolezza e dall’esercizio della volontà».[xii]

Ormai in balia del destino, Milton viene sorpreso dai fascisti al ritorno verso la casa di Fulvia e si dà a una fuga equina prima di scivolare sul fango davanti a un muro di alberi, che ricorda i muri dei plotoni di esecuzione e che è una spazializzazione dell’inutilità di quella frenetica ricerca. Nessuna verità viene svelata, se non la consapevolezza della perdita: non è infatti un caso che, tornando circolarmente [Mappa]  sui suoi passi fino alla villa di Fulvia, Milton veda i muri ormai «grigiastri, i tetti ammuffiti, la vegetazione all’intorno marcia e sconquassata», laddove quattro giorni prima, come leggiamo nell’incipit del romanzo, quegli stessi muri «erano sempre candidi, senza macchie né fumosità̀, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni». Persino la chiusura del cerchio è affidata al linguaggio iconico: la villa di Fulvia, e la natura delle Langhe intorno, da spazio del desiderio a luogo del Paradise lost di John Milton.

La verità privata annega nella Storia, ma, come direbbe Sciascia, anche «la storia mente e le sue menzogne avvolgono di una stessa polvere tutte le teorie che dalla storia nascono».[xiii]

 

Con quale italiano raccontare verità e menzogna?

Riprendendo gli interrogativi iniziali, abbiamo visto come esistano nelle opere di Fenoglio rapporti di forza fra verità e menzogna, come espressioni e gesti di verità e menzogna non solo siano isolabili, ma conducano anche a comprendere certe scelte narrative (la dissimulazione, la quête alla ricerca della verità, il linguaggio iconico) e come gesti ed espressioni assumano nelle opere una loro peculiarità anche linguistica nel richiamo al dialetto dei luoghi familiari e alla ‘menzognera’ lingua italiana. Chiediamoci ora però di che tipo di realismo siano i dialoghi sopra citati?

Certo, non mimetico. Fenoglio menziona costantemente il dialetto, lo abbiamo detto, però presenta dialoghi solo in italiano perché l’epopea unica della Resistenza possa giungere a tutti in modo chiaro e senza impedimenti linguistici. Rimane l’incognita di quale italiano, lingua della propaganda e della retorica fascista, sia possibile utilizzare. Su quest’interrogativo s’innesta un percorso di ricerca, a cominciare dagli anni giovanili, che per Fenoglio durerà tutta la vita.

In effetti, bisogna risalire agli anni del liceo per ritrovare il terreno linguistico primigenio dello scrittore, un italiano «libresco e retorico, nel senso nobile della parola»[xiv], sovrapposto al dialetto langarolo del figlio del macellaio di Piazza Rossetti ad Alba e dell’adolescente impegnato a giocare a pallone con i contadini di San Benedetto Belbo e di Murazzano, dove trascorre le estati.

Il dialetto non abbandona Fenoglio neppure in età adulta, se dobbiamo credere a Giacinto Spagnoletti, che in una lettera del settembre 1982 indirizzata a Gino Rizzo racconta di aver conosciuto Fenoglio a Roma durante il Convegno Nazionale dei Giovani Scrittori del 4-5 dicembre 1953 e di aver pranzato con quest’uomo solitario e timido, «altissimo, con quel naso davvero da Cirano, che non poteva parlare se non in piemontese (o albese addirittura)».[xv]

Lingua della quotidianità il dialetto, lingua artificiosa e distante l’italiano appreso al liceo e lingua falsificante l’italiano standard dei quotidiani e della radio fascisti. Dunque, che lingua scegliere per raccontare?

Quando nel 1953 lo scrittore spedisce a Einaudi La malora, Elio Vittorini scrive a Calvino che il pericolo per Fenoglio è quello di regredire nel dialetto ma, nonostante questa critica, consiglia di «pubblicarlo lo stesso. Io gli ho scritto dissentendo dalla strada che ha infilato, ma gli ho detto pure che non ritengo sia rimediabile in questo stesso racconto. Che d’altra parte è vivo e vitale, e comunque serve a mostrare un pericolo che tutti questi giovani dal piglio in principio moderno stanno per correre: il pericolo di rinculare, a forza di dialetto, fin giù giù ai naturalisti piemontesi e a Remigio Zena».[xvi]

Lo stesso Calvino il 1° dicembre 1953 aveva rilevato «un puntiglio di trascrizione gergale forse eccessivo, ma sempre sostenuto»[xvii] [Testo 4], mentre in modo molto severo Domenico Porzio, recensendo il libro su «Oggi» il 23 settembre 1954 (Contadino sfortunato), avrebbe lamentato il fatto che le espressioni dialettali fossero talmente tante che per superare lo scarto sarebbe stato necessario un dizionario piemontese-italiano. Le critiche determineranno le perplessità di Fenoglio sulla strada intrapresa e le successive scelte diverse.

Certo, il dialetto corre sottotraccia sempre, ma per rigenerare un italiano frusto. Solo per fare due esempi di persistenza di un termine dialettale di La Malora, ricordiamo l’uso di «contare» per narrare, plasmato sul piemontese conté, ma che troveremo anche in I ventitre giorni della città di Alba, in Primavera di bellezza o in Una questione privata, in quanto il lemma è presente anche nel Dizionario Tommaseo; l’altro esempio potrebbe essere «scorciare» nel senso di abbreviare, dal piemontese scurssè, che troveremo anche in Una questione privata seppure esteso in modo espressivo alla vita umana: «Pan, se ti arrivasse un prigioniero fresco fresco, non lo scorciate ma speditemelo subito in macchina […] Tre giorni fa ne avevo uno […]  Lo spedii alla divisione raccomandando di non scorciarlo, ma lo sotterrarono nella notte».[xviii] Anche in questa accezione del rendere di minor durata la vita il termine è presente nel Tommaseo. Non tanto il dialetto piemontese, dunque, quanto l’italiano ottocentesco, perché meno usurato, viene in soccorso di Fenoglio nel rinnovamento dell’italiano standard, se non l’inglese che costituirà il vero terreno di fermentazione metabolica dopo La malora per una lingua italiana al massimo grado delle sue potenzialità. E per inglese non s’intenda l’idioma, utile a procedere su un piano interlinguistico, quanto la cultura inglese sentita come luogo culturale ‘ideale’ da anteporre all’italianità enfatica e roboante del fascismo.

Fenoglio si era innamorato dell’inglese al ginnasio, sotto la guida di Maria Lucia Marchiaro, e in particolare di quella civiltà anglosassone, che prende vita nell’Inghilterra rivoluzionaria di Cromwell. Pietro Chiodi, suo docente di filosofia al liceo, chiarisce che Fenoglio «andava alla ricerca di un modello umano, di una ‘formazione’, di uno stile diverso da quello che il ‘fascismo’ gli offriva».[xix] Del resto, il rigore etico che guida il partigiano Johnny è quasi puritano, mentre Milton, protagonista di Una questione privata, prende il nome proprio dal poeta seicentesco che simpatizzava per Oliver Cromwell.

In definitiva, l’inglese sarà per Fenoglio quello che per Primo Levi saranno le scienze esatte: «la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l’antidoto al fascismo che lui ed io cercavamo, - leggiamo nel capitolo Ferro di Il sistema periodico - perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali».[xx]

Ha ventitré anni Chiodi, allorché arriva ad Alba per insegnare Storia e filosofia al Liceo Giuseppe Covone, e Beppe Fenoglio diciotto, e subito nota quello studente che il 28 ottobre, quando tutti gli altri compagni sono impegnati a scrivere il tema obbligatorio in ricordo della marcia su Roma, si rifiuta di farlo, nonostante le sollecitazioni alla prudenza di Chiodi e quelle di Leonardo Cocito, docente di lettere[xxi] [Testo 5]. Benché monarchico e non certo di sinistra, Beppe Fenoglio manifesta precocemente il suo dissenso antifascista davanti ai due professori, che di lì a pochi anni sarebbero entrati nella Resistenza: Pietro Chiodi, studioso di Kierkegaard e traduttore di Heidegger, sarà deportato in Germania, mentre il marxista Leonardo Cocito, vicecomandante partigiano della XII div. Bra con il nome di Silla, verrà impiccato dai tedeschi nel settembre 1944.

Rimangono ampi ritratti di entrambi nella narrativa di Fenoglio. Cocito, «caustico e mondano», avverte gli studenti che per l’esame di Stato salterà a pie’ pari Alfredo Oriani e che ridurrà D’Annunzio allo stretto necessario, tanto «O io mi sbaglio di grosso, o non ci sarà esame di stato. La maturità classica vi verrà offerta su un piatto di piombo».[xxii] Nonostante Cocito sia «un idolo del liceo», ironicamente chiamato Cocitof dal collega Chiodi per le idee comuniste, Johnny prova fastidio per il suo «cinismo intellettuale» e per quello sguardo poco trasparente ben diverso dal docente di filosofia assunto a guida spirituale: «Era occhialuto come Chiodi: ma a Chiodi le lenti rivelavano, magnificavano la pupilla in una tersità cristallina, mentre le lenti di Cocito avevano effetto intorbidante per l’osservatore, gli sfumavano la pupilla in una chiazza misteriosa». Per questo, lo immagina «come in divisa, come un prete, comunque un separato».[xxiii]

In Primavera di bellezza Chiodi si complimenta con Johnny «Perché è incontestabilmente un miracolo creare una maggioranza anglofila»[xxiv] fra i compagni di classe, dal momento che l’esterofilia è ritenuta dal purismo fascista lesiva dell’identità nazionale. L’anglomania, che Chiodi loda nel giovane studente, emerge con chiarezza anche negli Appunti partigiani, redatti su alcuni taccuini usati per la contabilità nella macelleria del padre e ritrovati in modo rocambolesco a una cinquantina di anni dalla loro presunta stesura. Raccontano in uno stile piano l’esperienza successiva alla presa di Alba nell’ottobre del 1944 e sono in prima persona, ma nel Taccuino B, scritto quasi tutto a matita, c’è un dialogo in inglese che si riferisce al testo teatrale di Fenoglio Serenate a Bretton Oaks, ultimato nel 1948 ma pubblicato per Mondadori soltanto nel 1978 da Maria Corti.

Pur presentando gli Appunti partigiani eventi e personaggi, che diverranno centrali nel Partigiano, «Siamo comunque ben lontani dall’assiduo lavoro sulla lingua del Partigiano Johnny, dalla sua prosa scolpita e solenne, dal suo fermo splendore», dirà Lorenzo Mondo «E anche dall’uso dell’inglese, come fissatore privilegiato di segni e di suoni».[xxv]

Persino il primo racconto di Fenoglio, Il trucco, si occupa di menzogne. Pubblicato con lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti sul numero 11 di «Pesci rossi» nel 1949 e inserito nel 1952 in I ventitre giorni della città di Alba, il testo è ben lontano dalla lingua che caratterizzerà gli scritti più maturi. Vi si racconta la storia di tre giovanissimi partigiani, Moro, Giulio e Napoleone, divisi dall’inganno (come già il titolo lascia intuire) perché in competizione fra loro per giustiziare un fascista, che verrà sepolto sul bordo di un «rittano», un fosso scavato dalle acque nei fianchi di una collina e invaso dalla vegetazione. Con questo termine il racconto ci introduce subito al rapporto esclusivo del partigiano con la sua terra, visto che Fenoglio salvaguarda un termine dialettale come «ritan», peculiare delle Lange, italianizzandolo. Il lemma compare anche in altre opere di Fenoglio e rimarca la componente tellurica della guerra di Liberazione, cioè il rapporto strettissimo che i partigiani di René sentono con il loro territorio materno di Neviglie (paese in cui Fenoglio rimase più a lungo nel periodo partigiano) e con coloro che vivono su quelle colline scavate dalle acque. Dal 1949 il lemma  «rittano», ci dice il Dizionario Italiano di De Mauro,  è entrato come un neologismo nella lingua italiana, una sorte che spetterà anche a molti altri neologismi dello scrittore. 

Moltissime sono le neoformazioni anche dall’inglese con un consistente arricchimento lessicale attraverso dei calchi  (es.: desertità da desertness o impressivo da impressive) o dei participi presenti con funzione verbale (es.: s’accostò agli slavi, facenti clan a sé), per fare solo qualche esempio oppure tramite l’utilizzo di prefissi e suffissi italiani (es.: inaiutante, nonridente, anarrativa). Tanto è arbitraria e inventiva questa lingua italiana magmatica, che finisce per diventare un idioletto privato secondo Dante Isella o un personalissimo codice, il ‘fenglese’, secondo la definizione di Edoardo Saccone.[xxvi] Altre volte la narrazione addirittura sembra non riuscire a contenere l’uso delle espressioni in inglese.

Come fosse una coltura in vitro, Fenoglio elabora il suo italiano fino ad approdare a «una lingua non compromessa, remota, non reale, non praticata; inesistente (perché vi confluiscono parole di epoche diverse, termini moderni e termini arcaici, caduti anche dall’uso letterario), anomala, arditamente neologistica, tutta reinventata dalla scrittura».[xxvii] 

Verso l’eccesso di anglofilia non mancano ammonimenti degli amici, come avviene in Primavera di bellezza quando Ferrero ricorda a Johnny che quegli inglesi che lui ama così tanto sono dall’altra parte della barricata bellica. Johnny risponderà di non essere disponibile a barattare l’Italia per l’Inghilterra, ma di sentirsi desideroso di un’Italia migliore sulla scia del pensiero repubblicano inglese, anche se è cosciente che sia una «esilarante tragedia»[xxviii] il fatto di essere costretti a combattere gli inglesi e «crepare per la causa fascista, distrutti nell’adempimento dell’ordine di distruggere gli uomini che la pensano come noi»[xxix] [Testo 6].

Anche se gli episodi raccontati nella trilogia hanno nella realtà avuto dei partigiani che si esprimevano in dialetto, Fenoglio abbiamo visto si astiene da inserirlo nei dialoghi a differenza di quello che avviene in tante cronache della Resistenza. Lo stesso Adriano Balbo di Cossano Belbo, che nel settembre 1943 aveva costituito con il cugino Piero Balbo Poli la prima banda partigiana del Cossanese, divenuta poi la II divisione Langhe, nel raccontare la ribellione contro il podestà fascista Verdoja di Cossano riporta il dialetto langarolo.[xxx] Quello di Fenoglio, invece, è un realismo che cerca una distanza dall’immediatezza dell’esperienza e degli accadimenti, tant’è che Guido Guglielmi ha parlato di «un realismo liberato»,[xxxi] capace cioè di restituire ‘l’essenza’ del reale, sottraendosi alla verisimiglianza della vita quotidiana con la finzione romanzesca, che consente una scrittura intensa e avvincente senza perdere comunque in attendibilità storica, e attraverso la lingua.

La sua scrittura riguarda il singolo nella Storia, ma in una dimensione temporale assoluta e quindi scissa da un prima e da un dopo, motivo per cui riesce perfino in ambito storiografico a cingere «tutta la complessità del reale, ostinatamente negatasi alla conoscenza degli storici»;[xxxii] Giovanni de Luna riconosce, insomma, a Primavera di bellezza, a Il partigiano Johnny e a Una questione privata un potere di comprensione dell’essenza della Resistenza, a cui gli storici sarebbero giunti molto più tardi [Testo 7].

Eppure, ancor prima che Fenoglio pubblicasse il suo primo racconto, già erano stati dedicati molti libri alla lotta partigiana nelle Langhe (Classe 1912 di Davide Lajolo, 1945;  Banditi di Pietro Chiodi, 1946;  La tortura di Alba e dell’Albese di monsignor Grassi vescovo di Alba, 1946; Con la libertà e per la libertà del comandante badogliano Mauri, cioè  Enrico Martini, 1947). Nonostante questa messe di memorie, Fenoglio riuscirà con Una questione privata (1963) «a fare il romanzo che tutti avevamo sognato», secondo la celebre ammissione del coetaneo Calvino, «il libro che la nostra generazione voleva fare» e non era riuscita a scrivere, a raccontare  la «vera essenza»[xxxiii] della guerra partigiana con il suo senso di esperienza individuale e allo stesso tempo profondamente collettiva, senza mistificazioni o mitizzazioni, quindi nel modo più realistico.

Nella lettera dell’8 marzo 1960 a Livio Garzanti Fenoglio spiega all’editore che la storia «ha un suo leit-motiv musicale nella celebre canzone americana Over the Rainbow, che costituisce (badi che i personaggi son tutti ventenni e men che ventenni) la sigla musicale del disgraziato, complicato amore letterario del protagonista Milton (nome di battaglia) per Fulvia (coprotagonista femminile la quale però appare e vive soltanto nella memoria di Milton impegnato fino al collo nella guerra partigiana). Per quanto precede il titolo potrebbe essere, se non Le pare troppo canzonettistico, Lontano dietro le nuvole o, se vogliamo, addirittura in inglese, Far behind the clouds. È una frase presa di peso dal testo della succitata canzone».[xxxiv]

Dietro le nuvole ci sono i sogni che hai osato fare, dice la canzone Over the Rainbow, e il sogno tenace di Fenoglio forse è stato proprio il coraggio della verità contro la menzogna perché chi sostiene la verità anche davanti al detentore del potere, come i partigiani davanti al fascismo, mette in gioco tutto se stesso. Come nella parrēsia (dire tutto senza dissimulazioni) il tema veritativo si lega all’etica, per dirla con Foucault, che nel suo ultimo seminario intitolato Il coraggio della verità[xxxv] affronta un tema che con Fenoglio ha molto a che fare: il desiderio di vivere secondo condizioni ‘irriducibili’ di umanità.

 

 

28 febbraio 2023

 


[i] B. Fenoglio, Primavera di bellezza, in Il libro di Johnny, a cura di G. Pedullà, Torino, Einaudi, 2015, pp. 155-156.

[ii] Id., Il partigiano Johnny, in Il libro di Johnny, cit., p. 656

[iii] Id., Il partigiano Johnny, ibidem (nostro il corsivo).

[iv] Tutte le citazioni da Id., Il partigiano Johnny, ivi., pp. 672-673 (nostro il corsivo).

[v] Id., Una questione privata, in Romanzi e racconti, a cura di D. Isella, Torino, Einaudi, 2001, p. 1057.

[vi] Id, Il partigiano Johnny, in Il libro di Johnny, cit., pp. 689-690.

[vii] Id., Una questione privata, cit., p. 1111.

[viii] Cfr. N. Palmieri, Beppe Fenoglio la scrittura e il corpo, Firenze, le Lettere, 2012, p. 103 e ss.

[ix] B. Fenoglio, Una questione privata, cit., p. 1093.

[x] B. Fenoglio, Una questione privata, ivi, p. 1096.

[xi] B. Fenoglio, Una questione privata, ivi, p. 1141.

[xii] N. Palmieri, Beppe Fenoglio la scrittura e il corpo, cit., pp. 118-119.

[xiii] L. Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Milano, Mondadori, 1979, p. 78.

[xiv] M. Corti, Beppe Fenoglio: storia di un continuum narrativo, Padova, Liviana, 1980, p. 21.

[xv] Fenoglio a Lecce: Atti dell'incontro di studio su Beppe Fenoglio (Lecce, 25-26 novembre 1983),

 a cura di G. Rizzo, Olschki, Firenze 1984, p. 79, ora in B. Fenoglio, Lettere 1940-1962, a cura di L. Bufano, Torino, Einaudi, 2002, pp. 66-67.

[xvi] B. Fenoglio, Lettere 1940-1962, cit., p. 68.

[xvii] B. Fenoglio, Lettere 1940-1962, ivi, p. 67.

[xviii] ID., Una questione privata, cit., pp. 1067-1068.

[xix] P. Chiodi, Fenoglio scrittore civile, in «La cultura», anno III, 1965, p. 7, ora in Appendice a B. Fenoglio, Lettere 1940-1962, cit., p. 199.

[xx] P. Levi, Ferro, in Il sistema periodico (1975), Einaudi, Torino 1994, p. 44 (nostro il corsivo).

[xxi] P. Chiodi, Fenoglio scrittore civile, in B. Fenoglio, Lettere 1940-1962, cit., p. 199.

[xxii] B. Fenoglio, Il libro di Johnny, cit., pp. 57-58

[xxiii] B. Fenoglio, Il libro di Johnny, ivi, p. 213.

[xxiv] B. Fenoglio, Il libro di Johnny, ivi, p. 58.

[xxv] L. Mondo, Introduzione, in B. Fenoglio, Appunti partigiani ’44-’45 (1994), a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 2004, p. XII.

[xxvi] D. Isella, La lingua del partigiano Johnny, in B. Fenoglio, Romanzi e racconti, cit., p. XVIII.

[xxvii] G. L. Beccaria, ‘Il “grande stile” di Beppe Fenoglio’, in Fenoglio a Lecce, cit., pp. 173–74.

[xxviii] B. Fenoglio, Il libro di Johnny, cit., p. 26.

[xxix] B. Fenoglio, Il libro di Johnny, ibidem.

[xxx] A. Balbo, Quando inglesi arrivare noi tutti morti: cronache di lotta partigiana: Langhe 1943–1945, Torino, Blu Edizioni, 2005.

[xxxi] G. Guglielmi, I materiali di Beppe Fenoglio, in La prosa italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1998, vol. II, p. 153.

[xxxii] G. de Luna, La Resistenza tra storiografìa e letteratura, in «Il Ponte», LI, gennaio 1995, n. 1, p. 121.

[xxxiii] I. Calvino, Prefazione, in Sentiero dei nidi di ragno [1964], ora in Romanzi e racconti, ed. diretta da C. Milanini, vol. I, Milano, Mondadori, 1991, pp. 1201-1202. Calvino sostiene che «solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata. Una questione privata [...] è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente nella memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. [...] Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché» (p. 1202).

[xxxiv] B. Fenoglio, Lettere 1940-1962, cit., pp. 133-134.

[xxxv] M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), trad. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2017.