Claudia Mizzotti - Quando gli altri eravamo noi: raccontare ai “nuovi italiani” altre migrazioni

Seconda parte: verso l’Europa[1].

 

Dire che un’opera di fantasia è una storia vera

è un insulto sia all’arte che alla verità.[2]

 

Anche il nostro spazio mnemonico assomiglia sempre più

a un disco fisso pieno zeppo di informazioni d’ogni tipo.

L’addizione e l’accumulo scacciano le narrazioni.

La storia e la memoria sono invece caratterizzate

da una continuità narrativa che si estende su ampi lassi di tempo.

Solo le narrazioni generano senso e tenuta.[3]

 

Questo intervento è il seguito del contributo pubblicato nel febbraio del 2022[4] e prende in considerazione alcune narrazioni recenti, ossia pubblicate a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso secondo la periodizzazione suggerita da Raffaele Donnarumma nel suo saggio sull’Ipermodernità[5], che, secondo un criterio geografico, tematizzano la migrazione degli italiani non già nel Nuovo mondo lungo rotta transoceanica, bensì nel Vecchio continente.

Pur non entrando nel merito specifico di un fenomeno che gli storici hanno ampiamente studiato, al solo fine di orientare gli studenti sarà utile ricordare che l’esodo di massa della cosiddetta “grande migrazione” va dall’Europa (e quindi anche dall’Italia) verso gli Stati Uniti, che accolgono il 70% del flusso stimato in oltre 55 milioni di persone fra il 1829 e il 1924[6], ma che contemporaneamente erano numerosi gli Italiani che sceglievano Paesi europei come meta di un’emigrazione continentale, temporanea o permanente[7], preferendola spesso alle Americhe per il carattere non definitivo, sia per la possibilità di rientrare dopo impegni lavorativi a termine sia come banco di prova per programmare successivi trasferimenti transoceanici e permanenti. Fra il 1876 e il 1915 oltre 6 milioni di italiani lasciarono l’Italia alla volta di Germania, Svizzera, Francia, Belgio, quando nello stesso arco di tempo furono poco più di 7 milioni gli Italiani che invece attraversarono l’Atlantico[8]; ma anche nel Secondo dopoguerra, dal 1946 al 1990, le partenze per Germania, Svizzera e Francia superarono i 5 milioni di individui, mentre negli ultimi trent’anni il flusso è proseguito e sono circa un milione gli expat che hanno superato i confini nazionali e sono rimasti in Europa. Oggi il 75% di coloro che lasciano l’Italia ha come meta uno Stato europeo e vive in Europa circa un terzo dei cittadini italiani iscritti all’AIRE (che sono complessivamente 5.806.068, ossia il 9,8% degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia).[9]

Venendo a quanto di tutto ciò si è depositato nella narrazione romanzesca di questi ultimi anni, procederò secondo un criterio geografico, esaminando una selezione di opere attraverso cui scrittori italiani hanno dato voce a esperienze, immaginate o reali,[10] di migranti italiani in Germania, Svizzera, Francia e Belgio. Come già nel precedente contributo, mi limiterò a una modalità descrittiva delle opere esaminate con alcune suggestioni interpretative, talora rinviando a percorsi didattici già sperimentati o descritti e a materiali multimediali utili all’approfondimento delle questioni sollevate.

 

Emigrare in Germania: Abate, Fenoglio, Ingrao

 

Tra il 1876 e il 1900 dal Veneto emigrano verso la Germania circa 300 mila cittadini del Regno. I miglioramenti nelle vie di comunicazione e nei mezzi di trasporto aprono, poi, la partecipazione al movimento migratorio verso la Germania anche delle altre regioni italiane, in particolare della Calabria. Tra il 1901 ed il 1910 - periodo di maggiore emigrazione italiana in assoluto – in 600 mila hanno lasciato l'Italia per la Germania. Il flusso degli italiani verso la Germania dal 1955, anno in cui lo Stato italiano firmò un patto di emigrazione con quello tedesco, fino ad oggi ha superato i quattro milioni.

Fra loro Carmine Abate, scrittore atipico nel panorama contemporaneo: calabrese di Carfizzi ed appartenente alla comunità arbëresh, si può definire un autore monotematico[11] che ha vissuto un’esperienza biografica fondamentale, quella dell’emigrazione in Germania, e la racconta nei suoi libri trasferendola sul piano universale e contornandola di un alone di epicità. L’esperienza della migrazione, infatti, segna il momento in cui il destino individuale si incontra con quello collettivo ed essere immigrato per Abate ha la stessa funzione ispiratrice primaria ed imprescindibile, ad esempio, dell’essere partigiano per Fenoglio, un altro autore spesso associato alla dimensione epica. «Per gli altri stranieri che vivevano là, ero un italiano. Per gli italiani emigrati in Germania, i cosiddetti germanesi, ero un meridionale. Per gli altri meridionali, un calabrese. Per i calabresi, un ghiègghio, cioè un arbëresh. E infine per i miei compaesani, quando ritornavo da loro, ero un germanese»:[12] così spiega in un’intervista Carmine Abate. Questo crocevia di matrici identitarie trova espressione e soluzione nella scrittura: «Succedeva lo stesso anche ai personaggi delle mie storie: un’inquietudine incessante che da me passava a loro e poi mi ritornava indietro, ingrossata durante il tragitto come un fiume in piena. […] Voglio vivere per addizione, miei cari, senza dover scegliere per forza tra Nord e Sud, tra lingua del cuore e lingua del pane, tra me e me».[13]

L’assegnazione nel 2012 del Premio Campiello per il romanzo La collina del vento è il traguardo di un lungo percorso di narratore, che Abate ha avviato nel 1984 con la pubblicazione in Germania di una silloge di racconti in lingua tedesca, spinto dalla necessità di illuminare la realtà dei “germanesi”, termine con cui in Calabria si designano coloro che scavalcano le Alpi in cerca di lavoro. Risale al 1991 il primo romanzo in lingua italiana, Il ballo tondo, ambientato, come i successivi La moto di Scanderbeg (1999) e Il mosaico del tempo grande (2006) a Hora, paese immaginario con molti tratti simili alla nativa Carfizzi, in provincia di Crotone. Hora è nome parlante derivato da sostantivo horë-a che in arbëresh indica la “città” ma anche il centro ideale di un territorio connotato, in questo caso dell’Arbëria. È ora possibile leggere i tre romanzi raccolti in un unico volume con il titolo Le stagioni di Hora,[14] trilogia che restituisce una summa dei temi chiave delle opere di Abate: la ricerca dell’identità e il recupero della memoria, la dolorosa separazione dalla terra, dagli affetti, in particolare dalla figura paterna, così come dalla lingua, il senso di mancanza che accompagna i passi nel mondo di chi lascia le proprie origini.

La meta dei viaggi di migrazione raccontati nei libri di Abate è la Germania, con una rilevante eccezione nel romanzo La festa del ritorno,[15] già finalista al Campiello, in cui Tullio, il padre che come molti immigrati ritorna ogni Natale al paese e agli affetti (Carfizzi, ancora narrato con il toponimo di Hora), lavora in terra di Francia. Anche qui l’elemento autobiografico è significativo: anche il padre di Abate, prima di stabilirsi in Germania, ha lavorato per alcuni anni in Francia quando lo scrittore era un bambino che attendeva il ritorno del genitore con trepidazione, esattamente come il piccolo Marco del romanzo.

Mi è già capitato di soffermarmi in altre circostanze sull’opera di Abate,[16] che considero lettura molto adatta ai giovani adulti, per il rigore con cui è costruita la macchina narrativa, per la precisione e la pulizia della lingua, per la profondità per nulla artificiosa con cui agita questioni delicate e fondamentali nella costruzione di un’identità personale, e dunque passo a un'autrice meno frequentata didatticamente: Marisa Fenoglio.

 

Partire significa trovare sé stessi e la propria identità, anche quando l’abbandono della terra d’origine avviene per una scelta non dettata dalla necessità e dalla miseria. È il caso di Marisa Fenoglio, sorella di Beppe,[17] che si è trasferita in Germania negli anni Cinquanta al seguito del marito Sergio dirigente d’azienda. Marisa racconta la sua esperienza in due testi autobiografici, Vivere altrove[18] e, successivamente, Il ritorno impossibile,[19] dando prova che la scrittura svolge un’importante funzione: diventa una risorsa per mettere ordine e rielaborare il proprio vissuto e offrire una testimonianza che sia utile ad altri. Con un occhio sempre rivolto alla reversibilità del fenomeno migratorio, la letteratura dei cosiddetti scrittori migranti si configura spesso esattamente così: non-fiction in prima persona in cui il narratore-migrante è protagonista e/o testimone, scrive anche con scopi di cura individuale ma, nella condivisione, svolge un’importante funzione civile (per restare nel contesto italiano si vedano i casi di autofiction di Scego,[20] Wadia,[21] Garane,[22] Lahiri[23]).

Vivere altrove è il racconto dell’insediamento a Niederhausen prima e a Marburg in seguito, mentre Il ritorno impossibile riferisce del deludente tentativo di rimpatrio. Migrare, anche se non si provano stenti e sofferenze legate alla sopravvivenza fisica, espone a una situazione di disagio, di perdita, di sradicamento e di ricerca: «uno straniero non è mai privilegiato a qualunque ceto appartenga. Sulla sua pelle si compie sempre quel doppio processo, di assimilazione del nuovo e di mantenimento del vecchio, così ambiguo e precario da fargli invidiare tutti coloro che ne sono dalla vita esentati, felicemente ignari di quel macchinoso esercizio di equilibrismo. Uno straniero resta straniero proprio perché le due cose si escludono a vicenda».[24] La testimonianza di Marisa Fenoglio, che ha spesso il tono lieve e lo stile elegante, porta a riflettere sulla condizione di chi migra, di qualsiasi nazionalità egli sia, e sulle sue necessità non solo materiali: queste ultime spesso possono essere soddisfatte abbastanza facilmente, rispetto ad altre questioni che rimangono aperte e irrisolte, legate agli stati d’animo, alle frustrazioni, alle insicurezze che accompagnano gli spostamenti.

Un ambito di riflessione ricorrente nei testi di Marisa Fenoglio riguarda l’aspetto linguistico: la lingua è infatti un forte marcatore identitario e il nesso lingua-identità viene spesso sottolineato nelle scritture migranti.[25] La “lingua del pane”, il “germanese”, gradualmente si aggiunge alla “lingua del cuore”, l’italiano delle origini:[26] riporto un breve passo tratto da un dialogo tra Marisa e un’amica, Albertina Rivetti, emigrata in Germania per essersi innamorata di un ufficiale della Wehrmacht, che l’aveva fatta diventare signora Funke. Dice Marisa:

 

Un giorno o l’altro bisognerà prenderla di petto questa lingua, […] cominciare da qualche parte a entrare dentro alla Germania. Io e lei sembriamo due che stanno davanti alla vetrina di un negozio e non entrano mai: tanto, dicono, le cose che vendono non mi piacciono. Invece è la prima cosa da fare per chi come noi sa che non tornerà né domani, né tra un mese, né tra un anno… Io incomincio a capirlo. La patria non è solo una terra, un paesaggio, una famiglia, la patria è soprattutto una lingua. Ogni lingua è un confine territoriale e esclude chi non la parla, un mondo a sé stante che non rimpiange altri mondi perché tutto contiene, la vita, la morte, la resurrezione... un tessuto connettivo che forgia i pensieri e fa di individui un popolo … Che cosa stiamo a fare qui io e lei in mezzo a questi boschi, se continuiamo a parlare solo tra di noi, in italiano?[27]

 

Questa la replica dell’interlocutrice, Frau Funke:

 

A mio parere, per quanti sforzi si faccia, di una seconda lingua si resterà sempre e soltanto il figliastro! […] La lingua madre è la casa dove si nasce, lo straniero ci entra da adulto. Quella casa non combacia per niente con quella da cui proviene. Si muove a tentoni, alla cieca, ne conosce tutt’al più le direzioni principali, qui la cucina, là il bagno. Anche se fosse bellissima non se ne renderebbe conto. Per lui resta piena di ostacoli, di trabocchetti, non diventerà mai sua …[28]

 

Così conclude l’autrice:

 

Donna Funke aveva una sua verità, più amara, più disillusa e disperata di quella degli altri, ma che conteneva pur sempre un nocciolo della più vera verità.[29]

 

La chiave di volta positiva dell’esperienza di Marisa in Germania la si può individuare nel momento in cui, a colloquio con la maestra dei suoi figli, quest’ultima si complimenta per il modo in cui è riuscita a padroneggiare la lingua tedesca. Riporto il passo.

 

La maestra rincarò la dose: «II suo è il più bel tedesco che abbia mai sentito parlare da uno straniero!». Improvvisamente non ero più triste, e se qualcuno mi avesse detto che poco prima lo ero fortissimamente, avrei risposto che non poteva parlare di me. Ogni straniero fortunato incontra sul suo cammino almeno una di queste persone benemerite. Si incomincia così a gioire, a voler spalancare porte, a sentir battere il cuore. La maestra continuò: «Sa, io ho sempre sostenuto che il madrelingua, salvo le dovute eccezioni s'intende, è un noioso fruitore della sua lingua, uno che non inventerà mai niente di nuovo, addormentato com'è sulle sue certezze, sulle sue cantilene. Uno che si accorge subito se..., che ti aspetta al varco là..., ma come un ragioniere col calcolatore in mano, come un burocrate inchiodato ai suoi paragrafi. Non ha l'orgoglio, né l'umiltà, o la fantasia di chi se ne è impossessato da poco, da adulto, di colui che ogni giorno, negli ambiti più diversi, la nuova lingua la deve padroneggiare...».[30]

 

L’esperienza di Marisa Fenoglio mi conferma in una convinzione: un ambito in cui la letteratura italiana contemporanea dei cosiddetti scrittori migranti risulta particolarmente vitale è proprio quello della lingua: sovrapporre e far convivere alla lingua d’origine un nuovo codice verbale crea effetti di contaminazione plurilinguistica di rilievo non solo per i cultori di sociolinguistica, ma anche per gli studiosi di letteratura contemporanea. Uno dei motivi per cui leggo con interesse e piacere e spesso propongo agli studenti, così poco sensibili ad affinare le loro competenze linguistiche in italiano, i testi di Wadia, Kuruvilla, Scego, Ghermandi, Ali Farah, Lakous, Ibrahimi, Vorpsi, Lahiri, lala Hu è l’italiano così felicemente ricco di echi lontani, con scarti sintattici e accostamenti lessicali inattesi, ma allo stesso tempo tenacemente e concretamente ancorato al territorio linguistico di recente conquista, o comunque scelto fra altri, che pure convivono nella mente di chi formula, racconta ed esprime.

 

Raccontare la storia vissuta da altri implica una responsabilità grande, quella di trasportare nella pagina scritta quella parola ascoltata nel dono di una storia. Si intuiscono fatica e piacere dell’incontro, nell’intreccio di emozioni e di esperienze[31]: Chiara Ingrao, autrice del romanzo Migrante per sempre[32], ha incontrato per caso nel 2010 una donna d’origine siciliana, A. divenuta Lina nella trasposizione letteraria, emigrata in Germania nel Secondo dopoguerra e avviata adolescente al lavoro in fabbrica in un ambiente estraneo e ostile; in accordo con lei ha intrapreso un percorso di ascolto e di rielaborazione letteraria del materiale narrativo raccolto e, come spiega, la stessa Ingrao

 

ne è uscito fuori un libro meticcio, un po’ letterario un po’ biografico e autobiografico: la narrazione di Chiara che narra Lina che sceglie di narrare di sé a cuore aperto, per accettare poi di essere reinterpretata e trasfigurata nell’invenzione letteraria. […] Non a caso questo è un libro che ho lasciato e ripreso e riscritto un’infinità di volte, e anche il mio nella scrittura è stato un viaggio difficile, una continua migrazione interiore fra diverse dimensioni: fra immaginazione e realtà, fra passione e paura, fra lei e me e le lettrici e lettori ignoti cui pure dovevo cercare di andare incontro, per costruire anche con loro una relazione possibile, che non li facesse sentire stranieri.[33]

 

La narrazione è ben orchestrata fra la Sicilia, dove la protagonista trascorre l’infanzia affidata alle cure della nonna mentre i genitori si sono già trasferiti all’estero dal 1962 al 1969, la Germania (1969-1984) - prima a Willferdingen nel cuore della Foresta Nera, dove Lina passa la sua adolescenza di gasterbeiter in una fabbrica che assembla circuiti elettrici, e infine a Pforzheim, fra Karlsruhe e Stoccarda, dove  Lina lavora presso una ditta di orologi - e Roma, la città dove la famiglia che ha formato con Piero si stabilisce dal 1984 e rimane fino alla fine della narrazione nel 2006. A Passoscuro, sul litorale romano, Lina, ormai moglie e madre, stringe una salda amicizia con Rosa, migrante peruviana: sarà proprio lei ad aprirle gli occhi su una condizione esistenziale che nemmeno il ritorno in Italia e le migliorate condizioni economiche potranno cambiare.

 

«Te la ricordi, la pioggia di Passoscuro? La solitudine, e i nostri discorsi sulla Sicilia e il Perù, sulla Germania e l’Italia, sui mondi puntuti che ci portiamo avvinghiati nell’anima, come foglie di carciofo attorno a un cuore pieno di spine... Te li ricordi, Lina? Te li ricordi?»

Assentì in silenzio, con la gola stretta.

«Ecco. Appunto.»

«Appunto cosa?»

«Appunto che io sono stufa marcia, amica mia, di dire a me stessa che un giorno il carciofo sboccerà in un bel fiore, senza più spine nel centro. E ancora di più di raccontarmi la favola che quel fiore prima o poi metterà radici e si farà albero, a Roma o a Milano o chissà dove. Io voglio smetterla di aspettare quel giorno. Voglio accettarmi per quello che sono, voglio esserne fiera. Non sono gli altri, a trattarmi da straniera: sono io, che ho attraversato troppi luoghi e troppe tribù, per poter scegliere di appartenere a una sola. Non ho bisogno di loro, non più: sono straniera e sono libera, sono una figlia del mondo. Sono una migrante, Lina; e lo sei anche tu, che ti piaccia o no. Chi è stata migrante resta migrante per sempre.»[34]

 

Emigrare in Svizzera: Vecchio e Desiati

La Svizzera ha rappresentato negli anni successivi alla seconda guerra mondiale la principale meta dell’emigrazione italiana. Tra il 1946 e il 1976 sono registrati 2.330.337 espatri in totale dall’Italia verso la Svizzera. Una cifra che è più del doppio rispetto agli espatri complessivi verso la Germania Federale (1.137.831) e verso la Francia (1.032.758), gli unici altri paesi che nello stesso periodo superano il milione di unità. Una cifra che è ancora più impressionante se confrontata con i dati relativi ai paesi extraeuropei: tra il 1946 e il 1976 Argentina e Stati Uniti (le destinazioni che per lungo tempo hanno dominato l’immaginario dell’emigrazione italiana) hanno registrato l’ingresso rispettivamente di 500.116 e 488.483 italiani.[35]. L’esperienza degli italiani in Svizzera era talmente presente nell’immaginario popolare che nel 1974 Franco Brusati realizzò il film Pane e cioccolata, un capolavoro che vanta moltissimi riconoscimenti nazionali e internazionali, che racconta la storia di Nino Garofolo, magistralmente interpretato da Nino Manfredi. La scadenza del permesso di soggiorno, la clandestinità, il degrado, la generosità, l’intraprendenza, la rassegnazione, l’umiliazione, l’amor proprio e la dignità: come scrisse Alberto Moravia,[36] si tratta di un «film d’autore, di tipo espressionistico, aberrante e stravagante come un incubo o come un’opera d’arte» con il quale si dimostra che «il senso di inferiorità dell’emigrante italiano ha origini non soltanto economico-sociali ma anche e soprattutto culturali in senso lato (cultura contadina di contro a cultura industriale), razziali (le razze non esistono ma la visione del mondo razzista, sì) e, alla fine, estetiche».

 

Concetto Vecchio, giornalista affermato, già autore di inchieste in volume che ricostruiscono vicende scomode della storia recente,[37] si riappropria della storia della sua famiglia, emigrata dalla Sicilia alla Svizzera, e nel contempo delle storie di tanti connazionali che, piuttosto di rimanere disoccupati in Italia, hanno preferito andare a lavorare dove la richiesta di manodopera abbondava: Cacciateli! Quando i migranti eravamo noi[38]  è un mémoire che accompagna il ritorno dell’autore adulto nei luoghi dell’infanzia. Il libro intreccia i ricordi personali[39] con le testimonianze di altri migranti: la cura nella raccolta dei dati e nella ricostruzione dei fatti attraverso le fonti si coniuga con una notevole abilità narrativa, esaltata dal coinvolgimento diretto e dalla partecipazione emotiva:[40] sono caratteristiche che rendono la lettura di quest’opera particolarmente adatta a un pubblico di giovani lettori e lettrici.

 

Ho pensato a mia madre. La vedo con il foulard stretto attorno al volto, che mi tiene per mano mentre avanziamo sulla Hauptstrasse di Lenzburg. Stiamo rientrando a casa dall’asilo della Missione cattolica italiana, e davanti ad ogni cartellone pubblicitario si ferma per decifrare le lettere insieme a me. Io ripeto le parole ad alta voce e lei mi dice “bravo!”. A volte, di fronte a una frase letta tutta d’un fiato, esulto in maniera scomposta, al punto che qualche vecchia di passaggio si gira. “Psst!” fa ridendo mia madre. “Non facciamoci riconoscere dagli svizzerazzi, sennò arriva Schwarzenbach!”

        “Siamo e-mi-gra-ti”, sillabava mio padre. A lungo m’interrogai sul significato di quella parola. “Stranieri,” mi rispose una volta, accendendosi una Muratti. Ho davanti agli occhi l’immagine di lui col lupetto granata che fuma seduto in cucina, una sera dei primi anni settanta. “Non voglio essere straniero,” ribatto. “Voglio chiamarmi anch’io Roland, Thomas o Markus, e invece mi avete messo un nome brutto, che ho solo io.” “Konzetto!” alza la voce la maestra Schneider, quando mi richiama all’ordine. “È un bel nome, invece,” sostiene mia madre e prova ad assorbire il mio scoramento. “Il tuo onomastico cade nel giorno dell’Immacolata, in Italia è festa, si festeggia la Madonna, e poi anche i tuoi nonni si chiamavano entrambi così.”

        A casa mamma e papà parlano in siciliano, una lingua segreta che nemmeno gli svizzeri che sanno l’italiano sono in grado di decifrare. I miei si cullano in quei suoni. Il dialetto mitiga l’estraneità, è il guscio in cui rifugiarsi. E quando, la domenica sera, papà telefona alla nonna Nina in Sicilia, la chiama “vossia”.[41]

 

Il contesto di riferimento, evidente del resto fin dal titolo, è quello della propaganda xenofoba e razzista anti-italiana, che ebbe la sua massima espressione nel referendum del 7 giugno 1970, promosso dal deputato dell’estrema destra James Schwarzenbach:[42] discendente di ricchi industriali con la fama di colto e raffinato editore, sposò la causa dell’odio contro gli italiani sapendo «interpretare la psicologia della folla anonima facendosene paladino, […] non vergognandosi di offrire soluzioni spicce a problemi complicati […], un uomo che taglia la complessità con un colpo di accetta».[43] Con il motto “prima gli svizzeri!” intercettò un malessere diffuso ma ignorato e sottovalutato dalle istituzioni, che erano invece ben consapevoli del contributo che i lavoratori italiani stavano dando alla crescita economica del loro stato e, nonostante questo, non si erano fatte carico di serie politiche di accoglienza e di integrazione. Per pochi voti le urne non diedero ragione al radicalismo di Schwarzenbach evitando la catastrofica espulsione degli italiani residenti in Svizzera per ragioni di lavoro ed aprendo anzi la strada a un difficile percorso di riconoscimento dei diritti.

Concetto Vecchio ha vissuto la propria infanzia in Svizzera e, diversamente da molti altri bambini italiani figli di lavoratori stagionali e precari, non è stato costretto a separarsi dai genitori, ma negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso erano moltissime le famiglie di migranti costrette a vivere separate o in clandestinità: si calcola che nelle case svizzere siano vissuti tra i 10 e i 15 mila bambini clandestini. La situazione è stata ricostruita anche attraverso numerose testimonianze da Marina Frigerio Martina nel volume Bambini proibiti (Trento, Il Margine, 2012) ed è oggetto del docufilm di Alessandra Rossi Non far rumore.[44] In chiave narrativa il problema è affrontato nel romanzo Chiamami sottovoce[45] di Nicoletta Bartolotti, scrittrice non a caso nata in Svizzera alla fine degli anni Sessanta, ora residente in Italia, affermata autrice anche per ragazzi. Nel 1976 ad Airolo, ai piedi del San Gottardo, nella Maison de roses vive Nicole, otto anni, figlia di un ingegnere che sovrintende ai lavori del traforo; dall’altra parte della strada, di fronte a lei, nascosto nella soffitta dell’affittacamere Delia, c’è Michele, nove anni: ha passato la frontiera illegalmente, nascosto nel bagagliaio dell’automobile dei genitori. Mentre i suoi durante il giorno lavorano, Michele trascorre la sua vita da clandestino: legge e disegna, si concede qualche uscita nel bosco, in compagnia della bambina che abita di fronte a lui, almeno finché a causa di una delazione non sarà costretto ad abbandonare il suo rifugio. La narrazione è ben costruita e nella sua architettura le tre voci narranti (di cui due in prima persona, quella di Nicole e quella di Michele) si moltiplicano per effetto del gioco dei piani temporali, quello del passato (dalla primavera all’inverno del 1976) e quello del presente (fra il 2009 e il 2011).

Le morti silenziose per asbestosi e mesotelioma pleurico di migliaia di migranti pugliesi che, nel periodo compreso fra il 1960 ed il 1980, lavorarono nella fabbrica d’amianto di Niederurnen, nel cantone Glarus in Svizzera, hanno rappresentato il motivo ispiratore del romanzo Ternitti di Mario Desiati,[46]  finalista dell’edizione 2011 del Premio Strega (l’anno in cui vinse Storia della mia gente di Edoardo Nesi e si segnalò, pur non entrando nella cinquina, Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda, un’altra storia di migrazione: tutti libri con una fortissima connotazione sociale, dunque). Il titolo Ternitti è la storpiatura del termine “eternit”, ma in dialetto salentino significa anche “tetti”, per metonimia, dal materiale con cui questi ultimi venivano fabbricati e, significativamente, la vicenda ha il suo epilogo sui tetti di una piccola fabbrica del Sud che minaccia di chiudere i battenti.  La storia, un intreccio inestricabile di “vero storico” e “vero poetico”, si svolge in Svizzera, nella prima parte, la più riuscita e potente, e in Puglia (a Tricase e paesi limitrofi) nella seconda parte, abbracciando un arco temporale di oltre trent’anni, a partire dal 1975, anno della partenza di Mimì quindicenne e della sua famiglia alla volta di Zurigo.

Domenica Orlando (Mimì), ancora quindicenne, a Zurigo ha una relazione con il diciottenne Ippazio (Pati); il frutto del loro amore adolescenziale è Arianna, allevata esclusivamente dalla madre, che ha preferito all’aborto clandestino di un figlio, che Pati vigliaccamente non si sentiva di accogliere, la vergogna di una nascita illegittima. Rientrata in Puglia, Mimì, bella e libera, si circonda di amanti occasionali, dall’avvocato al giovane operaio, che puntualmente allontana. Ciò non le impedisce, comunque, di sostenere Arianna nel suo percorso di studi fino al conseguimento della laurea in medicina, nonché di occuparsi del fratello alcolista Biagino/Celestino e di lavorare alacremente in un cravattificio, così da divenire un modello per le operaie più giovani. Mimì diviene un archetipo femminile dai tratti eroici, persino eccessivamente connotati, quando accoglierà l’unico uomo che abbia amato, un vile, un debole incapace di prendere in mano la propria vita: quel Pati che, ormai malato, tornerà a morire al paese, forse pentito della sua pusillanimità.

Il romanzo non è un romanzo-denuncia della condizione dei lavoratori italiani in Svizzera, questione che rimane sullo sfondo, ma tratteggia uno straordinario personaggio femminile, che giganteggia nell’ingranaggio narrativo, e dipinge le grandi solitudini moderne (del resto in questo Desiati è maestro);[47] solitudini vissute positivamente dai personaggi femminili, Mimì ed Arianna, che, fra mille difficoltà e conflitti, pervengono a una profonda conoscenza di sé e del mondo, e subìte negativamente da un universo maschile che manca di consistenza, rappresentato da Ippazio e Biagino, i quali viceversa, ciascuno a proprio modo, rifuggono dalla consapevolezza di sé e della realtà circostante. Scrive Paolo Di Stefano, che ha sostenuto, insieme ad Alberto Asor Rosa, la candidatura allo Strega (edizione 2011) del romanzo:

 

Con Ternitti, Mario Desiati continua a tessere, con inconsueta serietà di ricerca, una sua particolarissima epica petrosa e insieme visionaria. Lo scenario è un Sud Italia, il Salento, raccontato nella sua tragedia storica e nella sua straordinaria capacità di redenzione e rappresentato dalla potente figura di una giovane donna, Mimì, prima vittima delle false promesse dell’emigrazione al Nord e poi via via tenace e generosa combattente in difesa del destino proprio e del suo popolo.[48]

 

Emigrare in Belgio: La catastròfa di Paolo Di Stefano

Il giudizio di Paolo Di Stefano, giornalista del “Corriere della sera” e scrittore di vaglia, su Ternitti mi è sembrato più significativo di altre recensioni autorevoli perché lo stesso Di Stefano ha raccontato l’esperienza della migrazione e ha pubblicato, proprio nel 2011, La catastròfa,[49] romanzo incentrato sul disastro minerario di Marcinelle, in Vallonia.

Nel 1946, nelle città italiane comparvero manifesti che recitavano: «Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall'Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall'Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d'uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio».[50] Erano affissioni della Federazione carbonifera belga, pubblicate a seguito della firma dell'accordo bilaterale italo-belga del 1946 che garantiva la vendita all'Italia di una quantità di 200 kg di carbone al giorno per ciascuno dei 50.000 operai sotto i 35 anni in buono stato di salute che accettavano di trasferirsi per almeno dodici mesi nelle miniere per l’estrazione di carbone.[51] Gli emigranti si presentavano ogni martedì sera alla stazione di Milano e venivano sottoposti ad una visita medica sullo stesso treno, dove degli ingegneri facevano loro firmare i contratti. Arrivavano il giovedì pomeriggio a Basilea, erano suddivisi a seconda della miniera a cui erano destinati e poi venivano trasportati verso le "cantine", le stesse baracche dove erano stati tenuti i prigionieri di guerra: a volte cominciavano a lavorare il giorno successivo. Queste le parole del Presidente della Camera, Laura Boldrini, pronunciate il giorno 8 agosto 2013 in occasione della cerimonia per dell’anniversario del disastro di Marcinelle, in cui persero la vita 262 minatori, dei quali 136 di nazionalità italiana: «Venivano chiamati 'musi neri'. Spesso chi cercava un alloggio in affitto per potersi ricongiungere alla propria famiglia trovava affissa sulla porta la scritta: “Ni animaux, ni étrangers”, “Né animali, né stranieri”. Proprio come oggi, in Italia, c'è chi specifica “Non si affitta a stranieri” negli annunci di locazione. In barba, oltre che alle nostre leggi, alla nostra storia. Una storia che scegliamo di ignorare, definendo l'immigrazione nel nostro Paese come una “emergenza”, mentre sappiamo bene che si tratta, a tutti gli effetti, di un fenomeno ormai strutturale. Una storia che scegliamo di ignorare decidendo di non vedere, in quei migranti stremati che arrivano a Lampedusa, i volti dei nostri padri che partirono per Marcinelle, i loro stessi occhi. O accettando che chi, nel nostro Paese, riempie i cantieri edili e raccoglie i prodotti agricoli, lavori in condizioni inaccettabili - e viva in baracche fatiscenti o in rifugi di fortuna, senza acqua e elettricità. Alloggi simili o forse peggiori delle cantines

Il Premio Volponi edizione 2011 è stato assegnato a Paolo Di Stefano per La catastròfa, una non fiction novel formata da un intarsio di testimonianze orali trascritte con scrupolo e accostate l’una all’altra:[52] quelle dei congiunti delle vittime, riportate integralmente e mantenendo, anche a livello espressivo, la lingua originale, con tutte le incertezze e le contaminazioni che usi dialettali e mescolanze linguistiche hanno prodotto nella loro stratificazione naturale, e quelle dei responsabili dell’impianto nelle deposizioni ufficiali agli atti del processo, con il loro linguaggio freddo e asettico, disumano e artificioso. Particolarmente felice, dunque, questa scelta stilistica che affida anche ai diversi registri linguistici la ricostruzione dei fatti e la valutazione degli stessi da parte dei lettori, che non possono rimanere emotivamente indifferenti e sono particolarmente coinvolti in una strategia di montaggio che persegue sistematicamente lo spaesamento e richiama la lezione del metodo storico integrato basato sullo spaesamento di Saul Friedländer.[53]

La vivacità e la varietà degli accenti restituisce la durezza del vivere di quei tempi, e ogni racconto ha la sua particolarità, la sua individualità anche nel tentativo di ricostruire dinamiche di relazione: «A Marcinelle si viveva con gli amici e per gli amici. Me, da veneto, andavo d’accordo con tutti, anche con quei sacramenti di abruzzesi...», dice Vittorio; la distanza che molti belgi stabilivano con gli italiani scomparve, dicono in molti, di fronte alla tragedia, mentre il senso di lontananza con l’Italia aumentò, soprattutto una volta raggiunta la piena consapevolezza che un accordo economico aveva svenduto la manodopera italiana, della cui sicurezza sul lavoro e delle cui condizioni di vita le istituzioni della madrepatria si disinteressavano, anche dopo la tragedia: «Con il nostro lavoro e con i soldi che mandavamo al paese abbiamo rimontato l’Italia e siamo stati pure maltrattati», sostiene Geremia. E Vincenzo: «Eravamo 50 mila in tutto il Belgio, eravamo 30-40 mila solo nella Vallonia. Prima però c’è da dire che il Belgio per mille operai ricevuti regalava all’Italia da 2.500 a 5.000 tonnellate di carbone. Non so se mi spiego, non so. Ora ne viene uno che ha bisogno dello psichiatra, come il senatore Bossi, a dire che noi del Sud siamo parassiti: non sanno che noi, dopo la guerra, abbiamo messo in piedi l’Italia!».

Accanto al libro di Paolo Di Stefano, che ricostruisce «un evento rimosso […] in nome di un’esibita fedeltà testimoniale e della volontà di far parlare con le loro parole soggetti marginali»,[54] anche per far apprezzare la differenza fra racconto storico di fiction e di non-fiction, può esser proposta ai ragazzi la lettura di un romanzo di Gerardo Giordanelli, Luce e carbone a Marcinelle,[55] storia di Damiano, giovane calabrese che scampa alla tragedia del Bois de Cazier perché vittima, il giorno prima del disastro, di un’aggressione xenofoba in conseguenza della quale aveva scelto la fuga per evitare di essere indicato come responsabile della stessa. Damiano, tuttavia, senza alcun timore delle conseguenze, ritornerà a Marcinelle alla notizia della catastrofe e parteciperà alle operazioni di soccorso e di recupero dei morti dal pozzo di estrazione che li aveva inghiottiti.

 

Emigrare in Francia: Guccini e Macchiavelli

Nei quarant’anni dell’emigrazione italiana di massa, fra il 1876 e il 1915, chi sceglie di restare in Europa, si dirige soprattutto in Francia, paese confinante verso il quale già dal 1850 si registrano significative presenze di lavoratori italiani. Dagli anni Novanta dell’Ottocento sono le industrie, grandi e piccole, ad attirare lavoratori in Francia, in particolare le fabbriche di semi oleosi, di sapone, di vetro, di candele del Sud e i cantieri navali di Marsiglia.

Si inserisce in questo contesto il romanzo Macaronì[56] (termine dispregiativo con cui venivano chiamati gli italiani in Francia) di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, pubblicato nel 1997,  un racconto poliziesco molto ben costruito, a sfondo storico sociale, in cui si alternano il passato della vicenda francese del protagonista Ciaréin e il presente della storia, costituita dall’indagine del maresciallo dei carabinieri Benedetto Santovito,[57] che nel 1938, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, viene chiamato a indagare su una serie di misteriosi delitti: gli autori lavorano sulle rimozioni della memoria, aprendo fascicoli chiusi nella mentalità comune, riempiendo i vuoti con materiale verosimile e adottando strategie narrative efficaci che sfruttano la forza emozionale della parola letteraria.[58]

Al centro dell’ingranaggio narrativo c’è la storia del giovane Ciaréin, originario di un paesino dell’Appennino tosco-emiliano, che nel 1884 lascia l’Italia, anche per liberarsi dell’ingombrante immagine del padre Spirito, un fuorilegge a lungo latitante e infine ucciso sull'aia di casa.[59] In Francia Ciaréin svolge le attività più umili, come il lavoro nelle vetrerie

 

uno dei più faticosi e pericolosi. Bruciature quando il vetro debordava dal cannello nel quale scorreva dopo la fusione; dolorose fitte dentro, forse ai polmoni; maltrattamento degli operai francesi che scaricavano su quei ragazzi la loro stanchezza ... D'estate era l'inferno. In vetreria e nel capannone. Prima di aprire il tegame che il caporione consegnava alla partenza, i ragazzi sapevano già cosa ci avrebbero trovato dentro: maccheroni sempre ...[60]

 

La situazione per gli italiani, accusati di rubare il lavoro ai francesi, di accettare paghe misere, è davvero molto difficile: Ciareìn colpisce un francese durante una rissa ed è costretto a scappare per cercare lavoro in una miniera, al nord, dove incontra addirittura altri paesani. Ciò che ha spinto il protagonista a una nuova partenza, è il clima molto teso che culminerà nell’eccidio di Aigues Mortes, fra il 16 e 17 agosto del 1893, una pagina di storia davvero vergognosa di cui si riferisce ampiamente nel romanzo:[61] al grido di «Viva l'anarchia! Morte agli italiani! Comincia la caccia all'orso», in un’ondata xenofoba un esercito di centinaia di francesi, muniti di armi improvvisate di ogni genere, scatena una spaventosa e feroce caccia all’uomo in cui soccombe un numero mai precisato di immigrati italiani,[62] colpevoli, pur di sopravvivere, di aver accettato il lavoro offerto dalla Compagnia delle Saline della Camargue per un salario inferiore a quello che i francesi pretendevano. Una guerra fra poveri a sfondo razzista che impedirà per molto tempo qualsiasi dialogo fra i lavoratori dei due paesi, che in realtà condividevano una condizione di sfruttamento.

Per giungere a una corretta messa a fuoco delle complesse questioni sollevate dal famoso episodio dell’agosto 1893, suggerisco di svolgere un percorso didattico curato da Enrico Bacchetti e Nadia Olivieri, storici e insegnanti, dal titolo Il massacro di Aigues-Mortes. Un caso di xenofobia o guerra tra poveri?:[63] la proposta degli autori, corredata di ampia documentazione, propone di affrontare un debate per «sottoporre a “processo” un evento, una fase, un tema storico – in questo caso il massacro di Aigues-Mortes –, analizzare criticamente i vari aspetti del problema e soppesare la legittimità storiografica di tesi contrastanti [per] cogliere la complessità e problematicità della questione presa in esame, non riducibile a banali schematizzazioni o a generici giudizi».[64] Il compito a cui sono chiamati gli studenti è quello di sostenere una delle due seguenti tesi: l’episodio è frutto di un diffuso sentimento di xenofobia che sfocia nell’uso della violenza ovvero l’episodio nasce dalle difficili condizioni economico-lavorative imposte dal lavoro nelle saline e si configura come una «guerra tra poveri» che prescinde da questioni razziali.

Parallelamente alla lettura del romanzo e all’approfondimento storico può essere proposta la visione del film Il cammino della speranza di Pietro Germi (1950): il regista qualche anno prima aveva interpretato il ruolo di Tembien nel film di Mario Soldati Fuga in Francia (1948) e, a seguito della testimonianza di alcuni finanzieri che avevano salvato alcuni migranti clandestini sorpresi da una bufera di neve mentre tentavano di superare le Alpi, aveva deciso di tornare sull’argomento raccontando la storia di un gruppo siciliani che, rimasti senza lavoro per la chiusura della miniera di zolfo in cui lavoravano, decidono di lasciare l’isola alla volta della Francia. Il film è una denuncia delle condizioni del Meridione d’Italia nel Dopoguerra, in cui gli ultimi diventano facili prede di organizzazioni e truffatori senza scrupoli, che alimentano false speranze al solo scopo di trarre guadagno. Le disavventure di un gruppo di sprovveduti, ingenui e umanissimi italiani, disposti a credere al miraggio di una vita serena e dignitosa altrove, raggiunge la massima intensità drammatica nelle scene di marcia sulle nevi dei valichi alpini.

Il confronto con la contemporaneità può essere condotto attraverso la lettura di un romanzo per giovani adulti, Bruciare la frontiera,[65] dello storico Carlo Greppi: i passi di due amici diciottenni di oggi, Francesco e Kappa, che decidono fare esperienza della frontiera fra Italia e Francia attraverso i sentieri alpini come una sorta di rito di passaggio per la loro maggiore età, si incrociano con l’avventura di Abdullah (Ab), un loro coetaneo: partito dalla Tunisia, vuole arrivare in Francia per incontrare nel mondo reale Céline, una ragazza conosciuta online, ma trova la frontiera sbarrata.

 

La verità storica degli scrittori

Interrompo qui la rassegna delle opere narrative che negli ultimi anni mi sono sembrate più di altre adatte ad affrontare a scuola il tema della vocazione migratoria degli italiani così come si è manifestata nel passato recente, tessere utili per ricostruire il complesso mosaico di un fenomeno storico che solo uno sguardo miope può far percepire come un’emergenza attuale e inattesa, che non ci riguarda direttamente e attivamente.

Su questo processo storico ricorsivo i media tengono desta l’attenzione appiattendo il discorso sul presente, rincorrendo la notizia e restituendo visioni parziali e narrazioni superficiali, talvolta tossiche. Per sfuggire alla forza di attrazione di queste sirene e mantenere la lucidità critica di fronte alla realtà complessa delle migrazioni,  alcuni romanzi dell’Estremo contemporaneo svolgono la funzione di lenti, che mettono a fuoco quello che rimane lontano, sullo sfondo, e rischia di passare inosservato: distogliendo l’attenzione da ciò che è troppo vicino, rovesciando il punto di vista si può posare uno sguardo spaesato sulle esperienze, depositate sulla pagine dei romanzi, dei tanti italiani della diaspora migratoria, perché, come afferma Iosif Brodskij

 

il libro, nato perché noi ci rendessimo conto non tanto delle nostre origini quanto delle possibilità intrinseche dell’homo sapiens, è un mezzo di trasporto attraverso lo spazio dell’esperienza, alla velocità della pagina voltata.[66]

Tenendo presenti le linee essenziali sul dibattito sugli statuti disciplinari della storia e della letteratura, nei loro rapporti necessari con la retorica, con la soggettività delle testimonianze e delle ricostruzioni immaginarie, con i metodi di critica delle fonti, nonché con le implicazioni didattiche che ne derivano – un dibattito infinito perché legato alla incessante evoluzione della realtà - continuo a ritenere con Brodskij che la letteratura sia «maestra di finesse umana», e faccio mie le sue parole:

 

Se i padroni di questo mondo avessero letto un po’ di più, sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e le sofferenze che spingono milioni di persone a mettersi in viaggio. Poiché non sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze in un mondo migliore, poiché tutto sembra condannato a fallire in un modo o nell’altro, dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura sia l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre, che sia l’antidoto permanente alla legge della giungla; che essa offra l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa – se non altro perché la diversità umana è la materia prima della letteratura, oltre a costituirne ragion d’essere. [67]

 

 

 

 


[1] Ho scritto questo lavoro pensando a tutti gli studenti e a tutte le studentesse con cui nel corso degli anni ho letto libri sul tema della migrazione; lo dedico con speciale affetto ai diplomati e alle diplomate nel 2015 della classe 5I, e fra loro in particolare agli expat che vivono, studiano e/o lavorano all’estero: Claudio (a Gand, in Belgio), Giulia con Gabriele (a Friburgo, in Svizzera), Francesca (a Londra, nel Regno Unito).

[2] V. Nabokov, Buoni lettori e bravi scrittori, ora in Lezioni di letteratura, Milano, Adelphi, 2018, p. 42.

[3] B.C. Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Torino, Einaudi, 2022, pp. 9-10.

[4] C. Mizzotti, Quando gli altri eravamo noi. Raccontare ai “nuovi italiani” altre migrazioni, in «Griseldaonline - Il Portale di letteratura», Sezione «Didattica per la scuola», n. 6 n.s. giugno 2022,  https://site.unibo.it/griseldaonline/it/didattica/claudiamizzotti-quando-altri-eravamo-noi, ultima consultazione 3.1.2023.

[5] R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 99.

[6] P. Audenino e M. Tirabassi, Migrazioni italiane. Storia e storie dall’Ancien Régime a oggi, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 21.

[7] Sulla difficoltà di stabilire una netta distinzione fra flussi temporanei e permanenti si veda P. Corti, L’emigrazione temporanea in Europa, in Africa e nel Levante, in Storia dell’emigrazione italiana, I. Partenze, Roma, Donzelli editore, 2009, pp. 213-36.

[8] Cfr. P. Audenino e M. Tirabassi, Migrazioni italiane. Storia e storie dall’Ancien Régime a oggi, cit., p. 23.

[9] La rete restituisce abbondanti dati attendibili: oltre all’Istituto nazionale di statistica (https://www.istat.it), le cui banche dati non sono sempre di facile consultazione soprattutto quando si tratta di recuperare dati storici a causa della vastità del materiale pubblicato, si segnalano ad esempio i portali https://www.altreitalie.it (a cura della fondazione Giovanni Agnelli) e http://www.emigrati.it/index.asp  (costantemente aggiornato da una ONLUS di emigrati italiani), attraverso i quali è abbastanza agevole mettere in relazione i dati di ieri con quelli di oggi, cogliendo da una parte la ricorsività dei processi migratori che coinvolgono la nostra Penisola e dall’altra le specificità dei fenomeni nei diversi periodi storici. Sulla situazione della mobilità italiana si segnala per chiarezza e facilità di consultazione il RIM (Rapporto italiani nel mondo) della Fondazione Migrantes: l’edizione 2022 è disponibile all’indirizzo https://www.migrantes.it/rapporto-italiani-nel-mondo-migrantes-mobilita-italiana-convivere-e-resistere-nellepoca-delle-emergenze-globali/, ultime consultazioni 3.1.2023.

[10] Le forme narrative di fiction, non-fiction e autofiction, accanto a romanzi di genere, romanzi inchiesta, spesso fra loro ibridati, saranno prese in considerazione così da restituire un campione variegato delle tendenze della narrativa dell’Estremo contemporaneo, che ha nel romanzo neostorico, variamente declinato, una delle manifestazioni più significative.

[11] Solo con l’ultimo romanzo, Il cercatore di luce (Milano, Mondadori, 2021), Abate abbandona il tema della migrazione: esso, infatti, ruota intorno alla figura di Carlo Segantini, di cui si ricostruisce la vicenda umana e artistica filtrata dagli occhi del giovane Carlo, il protagonista, che scopre legami inaspettati fra la sua famiglia e il pittore. Quest’opera, pur distinguendosi dalle precedenti, conferma tuttavia la predilezione dello scrittore per i romanzi di formazione.

[12] G. Veltri, Profili. Carmine Abate, «Il mucchio selvaggio», ottobre 2006, http://www.carmineabate.net/mucchio.htm, ultima consultazione 3.1.2023.

[13] C. Abate, Vivere per addizione e altri viaggi, Milano, Mondadori, 2010, p. 141 e 146.

[14] Id., Le stagioni di Hora, Milano, Mondadori, 2012.

[15] Id., L festa del ritorno, Milano, Mondadori, 2004.

[16] C. Mizzotti, Scrivere (e vivere) per addizione, «Chichibio», a. XIV, n. 66 gennaio-febbraio 2012.

[17] Alla ricostruzione delle vicende familiari è dedicato il romanzo d’esordio, Casa Fenoglio, Palermo, Sellerio, 1995.

[18] M. Fenoglio, Vivere altrove, Palermo, Sellerio, 1997.

[19] M. Fenoglio, Il ritorno impossibile, Roma, Nutrimenti, 2012.

[20] In particolare I. Scego, La mia casa è dove sono, Torino, Loescher, 2012 (cito l’edizione scolastica, ma del romanzo esistono anche altre edizioni).

[21] Cfr. L. Wadia, Come diventare italiani in 24 ore, Siena, Barbera, 2010.

[22] G. Garane, Il latte è buono, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2005.

[23] J. Lahiri, In altre parole, Roma, Guanda, 2015. Il volume raccoglie scritti originariamente pubblicati sulla rivista «Internazionale» e rivisti per l’edizione in volume.

[24] M. Fenoglio, Vivere altrove, cit., p. 146.

[25] Come osserva Luigi Matt (Forme della narrativa italiana di oggi, Roma, Aracne, 2014, pp. 257 ss.), le notazioni metalinguistiche abbondano nei testi di scrittori che hanno vissuto esperienze di migrazione: essi hanno aumentato il loro grado di consapevolezza dell’atto verbale nei diversi codici linguistici che la vita li ha messi in condizione di praticare in relazione alla loro identità ibrida. Su questo ho cercato di riflettere anche in chiave didattica in C. Mizzotti, Lingua e identità: da Ovidio agli scrittori migranti… e ritorno, in La letteratura italiana e le arti, Atti del XX Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016), a cura di L. Battistini, V. Caputo, M. De Blasi, G. A. Liberti, P. Palomba, V. Panarella, A. Stabile, Roma, Adi editore, 2018,  https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/la-letteratura-italiana-e-le-arti/Mizzotti.pdf, ultima consultazione 3.1.2023.

[26] Le espressioni «lingua del pane» e «lingua del cuore» sono mutuate da Carmine Abate: la prima «a volte rintocca come una campana lontana e un po’ stonata» (C. Abate, Vivere per addizione, cit., p. 121), mentre l’altra è quella in cui si pensa e si sogna (cfr. P. Eller, Una lingua multiculturale, «L’Adige», 23 gennaio 2001,  http://www.carmineabate.net/lingua.htm, ultima consultazione 3.1.2023).

[27] M. Fenoglio, Vivere altrove, cit., p. 35.

[28] Ivi, pp. 35-7 passim.

[29] Ibidem.

[30] Ivi, pp. 80-1.

[31] In questo senso può essere esemplare il meccanismo autofinzionale che enfatizza la reciprocità dell’investimento emotivo nell’opera ibrida M.G. Mazzucco, Io sono con te, Torino, Einaudi, 2016, in cui è raccontato l’incontro fra la scrittrice e una donna arrivata in Italia dal Congo.

[32] C. Ingrao, Migrante per sempre, Milano, Baldini e Castoldi, 2019.

[33] C. Ingrao, Le sette sfide di Migrante per sempre, resoconto a seguito del workshop tenuto organizzato dalla SIL (Società delle letterate) in occasione del convegno «Visibile e invisibile. Scritture e rappresentazioni del lavoro delle donne», Venezia, 13-15 dicembre 2019, https://www.letteratemagazine.it/2022/03/12/varcare-confini-chiara-ingrao/, ultima consultazione 3.1.2023.

[34] C. Ingrao, Migrante per sempre, cit., pp. 336-7.

[35] I dati sono stati ricavati da P. Barcella, Venuti qui per cercare lavoro. Gli emigrati italiani nella Svizzera del secondo dopoguerra, Bellinzona, Fondazione Pellegrini Canevascini, 2012 e sono consultabili sul sito della Fondazione Mingrantes http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new_v3/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=40672,  ultima consultazione 3.1.2023.

[36] La recensione di Moravia uscì su «L’Espresso» nel 1973 ed è ora consultabile all’indirizzo  http://www.francobrusati.com/cms_dime/public/doc/PaneCioccolata.pdf, ultima consultazione 3.1.2023, insieme a un’ampia serie di giudizi critici. Il film è stato analizzato più recentemente nei suoi risvolti sociologici da D. Guzzo, Pane e cioccolata. Cronaca ordinaria di una straordinaria emigrazione. La ristorazione italiana nella Svizzera anni ’70, «Italies», 14, 2010, pp. 485-502, https://journals.openedition.org/italies/3375, ultima consultazione 3.1.2023.

[37] Ricordo Vietato obbedire e Ali di piombo (Milano, Rizzoli, usciti in prima edizione rispettivamente nel 2005 e nel 2007), sul terrorismo degli anni Settanta e i suoi presupposti ideologici, la ricostruzione del caso di Giorgina Masi (Milano, Feltrinelli, 2017) e, da ultimo, la biografia romanzata di Emanuele Macaluso L’ultimo compagno (Milano, Chiarelettere, 2021).

[38] C. Vecchio, Cacciateli! Quando i migranti eravamo noi, Milano, Feltrinelli 2020.

[39] «Alla fine ho scritto un libro su mio padre e mia madre. Ho riassunto un pezzo delle loro vite comuni, uguali a quelle di mille altri invisibili» (ivi, p. 182).

[40] Sull’innesto dell’autobiografia nella scrittura del passato, sulle narrazioni in forma di inchiesta soggettiva raccomando la lettura del saggio di E. Traverso, La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona, Roma-Bari, Laterza, 2020.  La riflessione sul fenomeno si impone, considerato il successo di pubblico e di critica delle opere di grandi autori del panorama attuale come Sebald, Carrère, Binet, Cercas, Mendelshon e, in Italia, di Affinati (ad esempio L’uomo del futuro su don Milani), Scurati (ad esempio Il tempo migliore della nostra vita su Leone Ginzburg), Tobagi (ad esempio Una stella incoronata di luce), Wu Ming (in particolare Timira e Point Lenana) e molti altri.

[41] C. Vecchio, Cacciateli!, cit., pp. 8-9.

[42] Si tratta del fratello di Annemarie Schwarzenbach, scrittrice, fotografa, giornalista protagonista del romanzo di M.G. Mazzucco, Lei così amata, Torino, Einaudi, 2000.

[43] C. Vecchio, Cacciateli!, cit., p. 184.

[44] Il lavoro del 2019 è disponibile online all’indirizzo https://www.raiplay.it/programmi/nonfarrumore, ultima consultazione 3.1.2023.

[45] N. Bortolotti, Chiamami sottovoce, Milano, HarperCollins, 2018.

[46] M. Desiati, Ternitti, Milano, Mondadori, 2011. Segnalo che lo stesso Desiati ha vinto il Premio Strega nel 2022 con il romanzo Spatriati (Torino, Einaudi, 2021), termine con il quale si designa non tanto chi lascia fisicamente la propria terra, in particolare il Meridione, quanto chi vive una condizione di sradicamento esistenziale, insoddisfatto e irrisolto, perennemente alla ricerca di un senso nei luoghi e nei libri che scandiscono la sua esistenza. Il luogo altro è per Francesco e Claudia, i protagonisti del romanzo, Berlino, città eletta da altri scrittori dell’Estremo contemporaneo come laboratorio umano ed esistenziale che dalla vita precipita nell’opera: si vedano in particolare È bellissimo il vostro pianeta (Torino, EDT, 2014), originale resoconto di un anno vissuto a Berlino da Andrea Bajani, e il romanzo di formazione Niente di vero (Torino, Einaudi, 2022) di Veronica Raimo.

[47] La motivazione di Paolo Di Stefano è conservata nell’archivio del Premio all’indirizzo http://www.premiostrega.it/la-storia/vincitori/137/ternitti, ultima consultazione 3.1.2023.

[48] F. Guccini e L. Macchiavelli, Macaronì, Milano, Mondadori, 2011.

[49] F. Guccini e L. Macchiavelli, Macaronì, cit., p.59.

[50] Ivi.

[51] J. Brodskij, «Un volto non comune». Discorso per il Premio Nobel, in Dall’esilio, Milano, Adelphi, 1988, p. 51.

[52] J. Brodskij, Dall’esilio, cit., p. 15.

[53] Su questo tema delle solitudini moderne, oltre al già citato Spatriati, segnalo lo struggente romanzo Vita precaria, amore eterno (Milano, Mondadori 2006) e il desolante successivo Il paese delle spose infelici (Milano, Mondadori, 2008). Il tema della migrazione viene affrontato dall’autore anche in un’opera per ragazzi, Mare di zucchero (Mondadori 2014), storia dell’amicizia tra Ervin, d’origine albanese, e Luca, un ragazzo italiano di Bari.

[54] P. Di Stefano, La catastròfa, Palermo, Sellerio, 2011.

[55] Il manifesto da cui è tratta la citazione si può facilmente trovare in rete, ad esempio  https://convegnomemoriaculturale.wordpress.com/2016/03/05/immagini102/, ultima consultazione 3.1.2023, all’interno di un interessante articolo di L. Visani Bianchini dal titolo Le parole illusorie dei manifesti per il reclutamento in miniera.

[56] Per un quadro sintetico dell’emigrazione italiana in Belgio, rinvio al contributo di A. Morelli, In Belgio, in Storia dell’emigrazione italiana. II. Arrivi, Roma, Donzelli, 20092, pp. 159-170; più specifico sulla deportazione economica di minatori italiani nel Secondo dopoguerra è il contributo di F. Cumoli, Dai campi al sottosuolo. Reclutamento e strategie di adattamento al lavoro dei minatori italiani in Belgio, all’interno del Dossier Migrazioni e lavoro della rivista online «Storicamente», all’indirizzo: http://www.storicamente.org/07_dossier/emigrazione-italiana-in-belgio.htm, ultima consultazione 3.1.2023. Segnalo anche il percorso didattico, con documenti e attività, curato da G. Cipriani, Pane e carbone. L’emigrazione italiana in Belgio nel decennio 1946-1956, «Novecento.org», n. 11 febbraio 2019, https://www.novecento.org/didattica-in-classe/pane-e-carbone-lemigrazione-italiana-in-belgio-nel-decennio-1946-1956-3453/, ultima consultazione 3.1.2023. Un bilancio storiografico rigoroso e denso di testimonianze, ricchissimo di dati e con un’ampia sezione fotografica sulla tragedia di Marcinelle e del contesto in cui maturò, si trova nel saggio di T. Ricciardi, Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Roma, Donzelli 2016.

[57] Segnalo anche E. Corocher, Morire a Marcinelle. Storia di un minatore italiano, Lucca, Tra le righe libri, 2017: si tratta della ricostruzione, attraverso le testimonianze di familiari e conoscenti, nonché attraverso documenti e immagini d’archivio, della vicenda di Giuseppe Corso, nato a Verona nel 1920, soldato nella Seconda guerra mondiale in Jugoslavia e quindi dal 1946 minatore in Belgio, dove si compì il suo destino l’8 agosto 1956.

[58] Saul Friedländer ha applicato il suo metodo storico integrato allo studio della Shoah, in particolare nel volume Aggressore e vittima, Roma, Laterza, 2009, in cui mette «in guardia contro affrettate generalizzazioni e […] l’autocompiacimento del distacco scientifico», sostenendo il valore della testimonianza e delle memorie soggettive: esse infatti ci dicono come l’individuo ha vissuto e interpretato ciò che gli è accaduto e rivelano dall’interno entro quale sistema di valori egli operava, presupposto fondamentale per la ricostruzione critica di un quadro storico completo e attendibile, che tenga conto di tutti gli attori coinvolti a partire dal microlivello. Nel suo lavoro di storico Friedländer ha sistematicamente contrapposto «livelli di realtà del tutto diversi – ad esempio, dibattiti ad alto livello sulla politica antiebraica […] a comuni scene di persecuzione – al fine di creare un senso di estraneazione che si contrapponga alla nostra tendenza ad ‘assuefarci’ a quel particolare passato. […] Tale senso di estraniazione, la percezione delle vittime […] di una realtà assurda e minacciosa, di un mondo al contempo grottesco e agghiacciante sotto una patina di ancor più agghiacciante normalità» (S. Friedländer, Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei (1939-1945), trad. di S. Caraffini, Milano, Garzanti, 2009, pp. 9 e 13).

[59] R. Donnarumma, Ipermodenità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 80.

[60] G. Giordanelli, Luce e carbone a Marcinelle, s.l., Cromosema, 2012.

[61] Il maresciallo Santovito è il protagonista anche di altre indagini firmate dalla coppia Guccini-Macchiavelli (Questo sangue che impasta la terra e Un disco dei Platters), poi riuniti in un unico volume dal titolo Appennino di sangue (Mondadori, Milano, 2011).

[62] Cfr. A. Perissinotto, Grandezza e limiti del poliziesco di denuncia, in Finzione, cronaca, realtà. Scambi, intrecci, prospettive nella narrativa italiana contemporanea, a cura di H. Serkowska, Massa, Transeuropa, 2011, p. 262.

[63] Alle vicende del leggendario Spirito la coppia Guccini Macchiavelli ha dedicato il volume di racconti Lo Spirito e altri briganti (Milano, Mondadori, 2003).

[64] Ivi, pp. 127- 135.

[65] Le cifre ufficiali parlano di 8 morti e 50 feriti, ma il «Times» nel riferire dell’episodio scrisse che le vittime italiane furono almeno 50.

[66] Il percorso è pubblicato sulla rivista online «Novecento.org», n. 11 febbraio 2019, http://www.novecento.org/didattica-in-classe/il-massacro-di-aigues-mortes-un-caso-di-xenofobia-o-guerra-tra-poveri-3487/, ultima consultazione 3.1.2023.

[67] C. Greppi, Bruciare la frontiera, Feltrinelli, Milano, 2018.