Storie di compagni ed etica del lavoro in Primo Levi
Il materiale qui sotto presentato è frutto di una personale attività di ricerca didattica, maturata durante l’anno scolastico 2023/2024, in ordine alla lettura del romanzo di Primo Levi, La tregua, in una seconda classe del Liceo Scientifico “L. Cambi” di Falconara.
Motivo dell’inchiesta, attorno alla quale è stato condotto lo studio, è il tema del lavoro, che, sin dai primi testi, proposti agli studenti, ossia L’altrui mestiere e l’intervista condotta allo stesso autore dallo scrittore statunitense di origine ebraica, Philip Roth, è parso saldamente legato a due aspetti ricorsivi in tutta la produzione di Levi: il lavoro nei termini di spazio identitario ed il lavoro come patria.
È opportuno ricordare (come ben risulta dalla bibliografia analizzata), che per Levi il lavoro costituisce uno strumento di affermazione del proprio essere, un’occasione di realizzazione piena della propria. Se il lavoro coincide con la fedeltà a se stessi, implicando anche il nesso con un orizzonte geografico in cui trovare un proprio ubi consistam, allora non sarà inopportuno pensare al tema in oggetto nei termini di nóstos; ciò spiega la scelta metodologica di condurre tale analisi in relazione alla lettura della Tregua di Primo Levi.
Dunque di “ritorno” e di “vie del ritorno” bisogna scrivere, per dimostrare come la violenza fisica e morale dell’universo concentrazionario, l’Iliade mortale dei corpi straziati e contraffatti dalle torture, si sia trasformata nell’Odissea del deportato, che, nell’avventura medioeuropea, segnata da un’irragionevole peregrinazione, dai modi ariosteschi, si è fatto protagonista di una storia variopinta e movimentata, verso una «non più sperata libertà», pervasa di disgelo, primavera, esuberanza e culto dell’arbitrario, volta al recupero della propria identità e della propria patria.
Il legame tra attività svolta e terra dei padri è mirabilmente espresso nell’Altrui mestiere, una miscellanea di articoli che Levi pubblicò su riviste e quotidiani tra il 1976 e l’anno 1984. Qui, nel capitolo intitolato Ex chimico, si legge «il rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese», dunque è nell’esilio da Itaca che si registra la frattura identitaria. Quella che un giovane Levi, appena laureato, tentava di suturare attraverso la mania del lavoro nell’azienda milanese, la cui esperienza è riportata ne Il sistema periodico, al capitolo intitolato Fosforo. E quella che diventerà la “ferita immedicabile” di Auschwitz, provocata dalla barbarie estrema, volta a demolire l’Uomo: la lacerazione si consuma attraverso il lavoro, che, con irridente cinismo, è stato rovesciato in parodia senza scopo e senza senso, come recita sarcasticamente l’infame scritta, che sormonta la soglia dell’inferno, nel quale l’azione del prigioniero si traduce in contrappasso fino alla morte tormentosa.
La tregua, in tal senso, appare come un diario di viaggio, affollato di voci, di esperienze e di personaggi, disposti secondo una schidionata di avventure, in cui, talvolta nella forma di meta-racconti, la sofferenza e le pene sfumano nella levità picaresca delle peripezie dal respiro collettivo di un’umanità sghemba e disorientata, quella incarnata dei compagni di Levi, il quale appare nell’opera come un novello Ulisse. È proprio in questo orizzonte, sospeso tra la morte e l’empito vitalistico dei sopravvissuti, che si individuano dei medaglioni vivacissimi capaci di tratteggiare figure memorabili come “il Greco”, Mordo Nahum, l’ebreo di Salonicco cui Levi riconoscerà l’autorità di un maestro e Cesare, il prigioniero allettato nel reparto dei dissenterici, con il quale stringerà una singolare amicizia. Entrambi sono descritti in relazione all’etica del lavoro e risultano protagonisti di brillanti siparietti, in cui la lingua diviene comica e leggera, in grado di restituire la vena istrionica dei personaggi alle prese con i commerci post-bellici.
L’opera condivide, con il suo reciproco sul tema del Lager, l’urgenza catartica della testimonianza, attraverso il valore terapeutico della scrittura, nella rievocazione condotta con il rigore conoscitivo dello scienziato.
Tutta la fatica che lo scrittore-Levi condivide con il chimico-Levi, ovvero l’arte di separare, pesare e distinguere, nel desiderio costante di non arrestarsi alla superficie del reale, è assimilabile al processo di trasformazione della materia, nel tentativo di restituire umanità all’esperienza, senza sbavature retoriche, in una prosa asciutta e sobria, priva di emotività, secondo l’attitudine scientifica di chi, per mestiere, è avvezzo ad osservare, registrare e dedurre. Sempre in Ex chimico afferma «è necessario misurarsi con la materia che è giudice imparziale, impassibile, ma durissimo».
Ecco, allora, la necessità di orientare la propria rotta verso Itaca, la terra aspra e brulla, che si pone come traguardo del processo di liberazione, perché obbliga alla fedeltà verso se stessi. Nella biografia dell’autore questa è la città di Torino: toponimo in cui paese e identità ritrovata si sovrappongono attraverso l’esercizio del lavoro.
I legami tra i due testi gemelli di levi legati all’esperienza del lager e della deportazione sono piuttosto evidenti, perché, sebbene Se questo è uomo sia un testo in bianco e nero, mentre La tregua in technicolor - come ebbe a dire il fratello di Natalia Ginsburg – il testo del nóstos prende avvio in una nebbiosa giornata invernale, in cui quattro sagome di giovani a cavallo, i militari dell’Armata Rossa, si stagliano contro un cielo grigio, umido e minaccioso, annunciando la pace, senza salutare, né sorridere, apparendo piuttosto «oppressi da pietà e ritegno». Questo stesso scenario, vale a dire Auschwitz, il fondale che ospita tutti i capitoli del romanzo d’esordio, chiude anche La tregua, imprimendo a tali opere un sigillo di appartenenza, la marchiatura a fuoco del sopravvissuto.
Il romanzo si conclude, infatti, con il ritorno in patria, l’autore per mezzo del consueto stile asciutto e lapidario informa «Giunsi a Torino il 19 di ottobre dopo trentacinque giorni di viaggio», qui il paragone con l’Ulisse omerico si fa molto evidente «ero gonfio, barbuto e lacero, stentai a farmi riconoscere». In verità tutta l’opera può essere analizzata in relazione ai motivi dell’Odissea omerica ed è proprio tale aspetto ad aver suscitato maggior curiosità negli studenti, che sono stati in grado di riconoscerli prontamente: ad un esame cursorio basti pensare all’incontro con il diverso, giudicato a seconda delle circostanze, alter o alius, o alla pluralità delle lingue ascoltate e parlate, dall’afasia di Hurbinek ai personaggi poliglotti, o ancora alla dimensione orale delle vicende che sono state trascritte a ben sedici anni di distanza dagli eventi. Il romanzo, esattamente come l’Odissea, sembra concludersi con degli accordi di pace: il nemico è stato vinto, l’ordine riportato ed il sopravvissuto giunto in patria ai caldi affetti, quindi un happy ending consolatorio, tantoché nell’ultimo capitolo Levi riferisce di aver ritrovato gli amici, il tepore di una tavola imbandita e di un letto pulito, «la concretezza del lavoro quotidiano» e la pienezza catartica dell’atto del raccontare, tuttavia l’epilogo del testo non è affatto rassicurante, anzi l’ultima parola del romanzo inchioda l’explicit ad una spannung la cui ombra incombe anche oggi nella nostra quotidianità.
La parola “lavoro” compare in questo ultimo capitolo in due occorrenze, caricandosi di particolare pregnanza semantica. Levi precisa che essere tornato a casa ha significato ritrovare lo spazio abituale del lavoro, che conferisce senso all’azione dell’uomo, inoltre la parola diviene protagonista di un sogno, con il quale l’autore decide di chiudere il libro.
L’inserto onirico assume la forma di un meta-racconto: a mesi di distanza dal ritorno in patria, dopo un viaggio che tanto è stato capace di rievocare alcuni dei più celebri motivi dell’Odissea omerica, l’ex-deportato riferisce di essere ossessionato da un sogno, che continua a visitarlo durante la notte, lasciandolo pieno di sgomento.
Le soglie del racconto onirico sono ben chiare e coincidono con la descrizione di un ambiente placido e disteso, in cui il Levi-personaggio del sogno autobiografico rivede se stesso muoversi in ambienti familiari e rassicuranti: la casa, gli amici, il lavoro, la natura in fiore; apparentemente tutto sembra sereno e consolatorio, quando nella dimensione a colori della vita, coincidente con il ritorno in patria tra gli affetti e l’attività, irrompe uno scenario cupo ed angoscioso, capace di dissolvere gli ambienti ed i volti delle persone amate: l’ordine volge in caos ed il fondale si fa greve e pieno d’angoscia. Il sogno continua a possedere un marcato tratto visivo, si indugia sui colori, che da vividi diventano opachi e la campagna verde che sfuma repentinamente nel Lager.
Nell’orizzonte concentrazionario risuona una parola in lingua polacca Wstawac’, a rimarcare l’idea del caos e della Babele degli idiomi: questa esclamazione è la più temuta dai prigionieri, significa, infatti, “Svegliarsi!”. Allora Levi sceglie una chiusa potentissima in cui il motivo onirico, invece che accogliere l’immaginazione euforica, reifica l’incubo della demolizione dell’individuo, generando uno stato di angoscia permanente nel superstite. Al contempo richiama noi lettori ad un imperativo: vigilare come solerti sentinelle, perché l’alba che sta annunciando un nuovo giorno è foriera di morte, nuovi venti di guerra soffieranno sull’Europa pacificata e la tregua dal male è stata breve sogno, esperienza fugace, destinata a dissolversi. Il lavoro che diventa non-senso è in agguato e nessun uomo potrà sentirsi allora integro e pienamente se stesso. La tregua non esiste.