(Crown Teaching Methodology)
Premetto che sono uno di quelli che ha affrontato il Virus con la sensazione di accogliere – al di là naturalmente di tutti i difficili e, per molti, tragici risvolti – un tempo finalmente rallentato. Poteva dare buoni frutti sentire che il nastro trasportatore su cui ci muovevamo stava scalando le marce, abbordando il futuro a una velocità sempre più contenuta, ormai lontana dai livelli parossistici a cui stavamo andando incontro. E così – mi dicevo – potrò finalmente leggere, senza timori o sensi di colpa di togliere tempo prezioso allo studio o agli studenti, un libro qualsiasi, un giallo, o forse riprendere in mano l’intera serie di Tex Willer e piluccare qua e là gli episodi clou. Purtroppo queste speranze si stanno rivelando illusorie: il tempo ha sì rallentato, ma ci ha condotto in una atmosfera falsata, in una dimensione assurda (ricordate la serie di telefilm televisivi “Ai confini della realtà”?), bidimensionale, perché manca la profondità degli incontri con le persone vere, in carne e ossa. E per quanto riguarda il lavoro, ho più da fare ora che nel passato. Ben è vero che non devo più recarmi di persona in Dipartimento, che era un avvenimento assai salutare perché i ponti di Venezia aiutano la mia pigrizia muscolare, ma il tempo perduto negli spostamenti è stato ampiamente colmato dalle nuove incombenze relative alla didattica on line.
Pensavo oggi che se l’epidemia si fosse trasmessa anche solo venti anni fa, magari ante riforma Berlinguer, quando ai docenti era pur concesso un bel vivere, avremmo dovuto innalzare bandiera bianca, su tutti i fronti. In questi giorni Internet ci supporta momento dopo momento: didattica, esami, riunioni, ricerca, ma anche scambi interpersonali, battute o battutacce via socialnetwork, condivisione di gesti quotidiani, scambio di notizie, immagini, filmati, spese on line, homebanking. Insomma, tutto ciò che ci rende più sopportabile la quarantena. Ma venti anni fa, come avremmo fatto? Tutto via telefono? o fax? O magari attraverso le già Regie Poste? Mentre sto scrivendo vedo un avviso che mi è arrivata una mail dall’ufficio Ricerca della mia Università: mi invita a un incontro in cui un esperto «presenterà i concetti base della didattica online», un «modo per riflettere sulle attenzioni da avere in sede di programmazione, organizzazione e comunicazione con gli studenti e su qualche idea per delle possibili attività da progettare». Ecco, direbbe mia suocera, è come il calcio sui maccheroni, o forse su qualche altra parte, di cui si farebbe volentieri a meno.
A parte le mie lamentele da sior Todero, che spesso l’amica Cristina mi rinfaccia, devo ammettere che fare lezioni in diretta telematica è stata una grande scoperta, che ha il suo fascino. D’accordo: le aule vuote e solo virtuali, le mani che non si alzano ma inviano una “chat” durante la lezione, o forse – nei casi più favorevoli – riattivano il microfono per porre una domanda, sono limitazioni anche forti. Ma volete mettere la gioia di fare lezione in ciabatte e pantaloni della tuta, laddove sopra la linea del petto sono sempre io, il professore, o la maschera del professore nota da tempo agli studenti. Inamidato dalla cintola in su, sbracato nel resto. Doctor Jekyll e Mister Hyde, ma divisi in orizzontale. Certo, sto esagerando i piaceri dell’essere telematico, perché, a pensarci bene, stiamo lentamente diventando dei mezzibusti. Forse in futuro non avremo più bisogno di mostrare la parte inferiore del corpo, ce ne potremmo sbarazzare, con grande discapito dei sarti (se ce ne sono ancora, dico le sartorie artigianali) o dei negozi di abbigliamento.
Torno a essere serio. La mia esperienza di lezioni on line non mi pare molto diversa da quella delle lezioni in presenza, forse anche perché le lezioni di questo corso consistono nella lettura, parafrasi e commento dell’Inferno dantesco. Non cambia il metodo ma il mezzo, la comunicazione si avvale di un canale di contatto a distanza, i destinatari paiono ugualmente soddisfatti, anzi aumentano sensibilmente. Quando il contapersone di GMeet mi avverte che la ressa sta salendo, 60-70-80-90 e magari 100 persone, capisco che anche lo studente non frequentante adesso è lì, che finalmente può usufruire anche lui di un servizio prima inaccessibile; ma capisco anche che c’è qualche (benvenuto) clandestino, magari mia figlia che è a casa in maternità o quell’amico che non vedevo o sentivo da anni (meno atteso il collega spione che vuole sentire quante stupidaggini dico, e adesso lo può fare, ammesso che riesca a procurarsi il link alla lezione).
Assai meno piacevole l’esperienza degli esami a distanza. Ne ho tenuti 130 in una settimana e la prima impressione è stata quella di essere preso in giro, dato che ogni studente, potenzialmente più sgamato di noi in campo informatico, avrebbe potuto dotarsi di un ampio schermo di PC o Mac e dividerlo in due, una parte con la diretta video dell’esame, l’altra con un Bignami delle lezioni tenute dal professore, consultabile con un semplice scroll del mouse; e chi assiste dall’altra parte della telecamera (anzi webcam) non si accorge di nulla, a parte notare lo sguardo fisso da baccalà dello studente di turno, sospetto di strabismo. Ma c’è anche chi, molto più artigianalmente, pone davanti a sé, ma dietro allo schermo e dunque invisibile al docente collocutor, un amico o amica di corso, che, sentita la domanda, gira freneticamente gli appunti per trovare il punto esatto contenente la risposta e poi si mette a fare segnali muti con la bocca e gesti con le mani, in una specie di linguaggio dei segni de noantri, spesso più foriero di incomprensioni e inciampi che di verità utili all’esaminando. Altro caso è quello molto fai-da-te del pacchettino o del quadernetto di appunti sul tavolo, per cui lo sguardo della vittima di turno è perennemente rivolto in giù, come quello di chi prova un’estrema e immedicabile costernazione. Ma questo, per fortuna, è solo folklore, perché mi preme osservare come la grandissima maggioranza degli studenti non ha tentato di barare e ha permesso un colloquio proficuo e perfino piacevole con il docente. Il quale ultimo, anche, ha potuto riempire il suo carnet di una serie di annotazioni sociologiche non prive di interesse. Ad esempio sulla location, come oggi ormai si dice, che nella maggior parte dei casi è stata in una cucina, con prospettive quasi crepuscolari o d’antan, dallo scolapiatti bene in evidenza ai piatti del buon ricordo appesi alle pareti, dagli avanzi della colazione del mattino ai quadretti paghi due e prendi tre comprati al mercato, dai più accattivanti squarci di caminetti al gatto che improvvisamente fa irruzione nello schermo. Ma molti parlavano dalla loro camera-studio, qualcuno stando seduto a gambe incrociate sopra il letto, che si vedevano ogni tanto spuntare; pochi avevano dietro a sé non dico una biblioteca, ma nemmeno una bibliotechina, però alle spalle di uno studente troneggiava una fila di libri grossi e tutti uguali nel dorso, con una legatura plastificata che probabilmente racchiudeva dei vuoti impermeabili. Di là da ciò, urge tornare agli esami faccia a faccia, dove i meriti di chi studia e si impegna, ma sa anche affrontare con viso aperto la singolar tenzone dell’esame, affiorano come i delfini che si sono rivisti capriolare con i figli nella laguna di Venezia. Ah, i tempi del Corona virus!
2 aprile 2020
Tiziano Zanato
Università di Venezia