Parole arruffate, di corsa.
La scuola a distanza: che trambusto! Collegarsi, trovare una videocamera, guardare uno schermo, caricare gli schemi, condividere i materiali, preparare lezioni dove sai che non puoi andare a braccio come prima, fare più attenzione al tempo, ripassare, poi iniziare a spiegare di nuovo…
E intanto loro ti guardano, ti ascoltano, fanno silenzio, fanno qualche domanda, non si mostrano, rispondono. E aspettano.
Intanto tu studi, lavori, prepari materiale, parli, ti stanchi, ti esalti, parli. E poi capisci.
Non puoi fare lezione come prima e basta: è diverso il mezzo, è diversa la possibilità di attenzione, è diverso il modo di entrare in relazione con loro. Certo fin dall’inizio hai chiesto, hai fatto domande, ti sei affannata a cercare risposte: ci siete? Mi sentite? È chiaro? Siete vivi? Hai ripetuto le parole che prima suonavano diverse: “occhi aperti, orecchie attente, cuore e mente accesi, mani pronte a scrivere, il resto del corpo in posizione rilassata ma composta”.
Allora ti sei fermata, hai smesso di correre, hai guardato quello schermo vuoto e hai domandato: come state? Come posso fare perché queste ore vi servano e magari vi interessino? Hai detto: non so come devo fare, aiutatemi, datemi suggerimenti. E loro, una classe di getto, altre piano piano hanno proposto, spiegato: prof, va bene far lezione così, le ore di italiano non sono pesanti, possiamo ascoltarla; altri: potremmo lavorare anche da soli per un po’ poi ci colleghiamo e ne parliamo. E funziona: e scopri quello che avresti già dovuto sapere, ma ora sembra più evidente: se li chiami, i ragazzi rispondono; se dai loro autonomia e fiducia, ti stupiscono ogni volta; e si fidano e ci provano e riescono, i cuori e le menti lavorano, i loro occhi ti guardano.
E poi ti dicono: prof, abbiamo deciso di farci vedere: e i loro volti compaiono, i loro occhi sono belli come prima; siamo tutti un po’ più in disordine, ma facciamo scuola, insieme.
Parole riposate, che camminano.
I primi giorni di didattica a distanza sono stati una corsa continua di ripassi e schemi, poi si è capito che bisognava ricominciare ad andare avanti; dapprima la modalità è stata per me quella tradizionale: lettura insieme, commento, spiegazione, poi ripresa a spirale, confronti con altri testi e autori, schema degli elementi più importanti; poi si è fatto avanti il desiderio di far funzionare questo tempo sospeso anche come tempo regalato: allora abbiamo letto testi che di solito non leggiamo perché per l’appunto “non c’è tempo”; poi è arrivato il momento dello sconforto, dell’annaspare in solitudine, degli occhi stanchi di fissare un monitor vuoto (per me) o troppo pieno delle parole della prof (per i ragazzi e le ragazze); allora è arrivato il momento di fermarsi e parlare e pensare insieme, di progettare insieme il lavoro. Così Ester, Maria, Carlo, Ellen, Caterina, Giacomo, Lorenzo, Matteo, Chiara, Giulia, sono usciti dal buio o dal silenzio dello schermo. E io mi sono sentita volpe davanti a piccoli principi e principesse: ci siamo ricordati reciprocamente che ci sono legami tra noi, che insegnare e imparare è prima di tutto costruire legami, di parole e di sguardi, è ridare voce e respiro e ritmo ai morti, a cui possiamo fare domande, di cui possiamo comprendere le parole, insegnare e imparare è mantenere acceso il fuoco della tradizione, a cui apparteniamo.
Ci siamo risvegliati con Gregor trasformati in enormi immondi insetti, abbiamo ripetuto con fierezza che i Romani fanno il deserto e lo chiamano pace, abbiamo sentito Robert Kennedy ripetere le parole di Calgaco, abbiamo letto un articolo di Concita de Gregorio che parla dei ragazzi e ai ragazzi, riconoscendo in loro e non in noi adulti Enea che ci salva, vecchi e bambini. Abbiamo riconosciuto che quelle sono le parole a cui apparteniamo.
Perché non è tanto questione di identità, quanto di appartenenza: alla scuola, alla tradizione, tutti testimoni, tutti eredi, tutti staffette, con le parole e con gli sguardi.
Anche a distanza.
6 aprile 2020
Silvia Perini (Italiano e Latino)
Liceo scientifico Oriani Ravenna