Silvia Contarini - Gli studenti e la DAD

 

Avvicinandosi la fine dei miei corsi di Letteratura italiana e di Letteratura contemporanea all’Università di Udine, che ho tenuto questo semestre in streaming, ho chiesto ai miei studenti di esprimersi sulla cosiddetta DAD, per raccontare la loro esperienza o partecipare alla discussione in corso sulle potenzialità, i rischi e i risultati dell’insegnamento universitario a distanza.

Ecco le prime testimonianze.

 

1.

Dino Pavlovic

(corso di Laurea in Lettere, Scuola Superiore dell’Università di Udine)

 

Sorvegliare e verbalizzare: il panottismo a prova di Teams

 

La chiusura delle sedi universitarie è caduta con un tempismo da calendario accademico, ovvero, per molti, sul confine preciso tra la fine della prima sessione di esami e l’inizio del secondo semestre. Nessuno tra i docenti ha mancato di osservare che l’ideale corrispondenza con la didattica in presenza, per cui quella consisterebbe nella semplice virtualizzazione di questa, è minata da una serie di discrasie che pertengono alla qualità della didassi, all’efficienza tecnica, allo snaturamento della fisionomia della lezione che diventa videoconferenza privata - e forse non è il caso di incoraggiare la controtendenza ottimistica.

Con un po’ di ironia, si potrebbe distinguere, in questa stagione della teledidattica, la fase 1 delle lezioni dalla fase 2 degli esami, con alcuni problemi relativi che si potrebbero enunciare, in tempi di videocamere accese, con l’immagine del panoptikon.

I professori, esposti davanti a uno schermo nero, risentono di quella inverificabilità dell’osservazione che Foucault riconosce nell’edificio benthamiano: visti senza vedere, devono rinunciare al feedback visivo che costituisce, a tutti i livelli, una parte essenziale dell’insegnamento. Questa rinuncia forzata induce a una condizione di vulnerabilità, e l’osservazione unilaterale è ulteriormente promossa dal diasistema a cui sono costretti da una piattaforma che non è stata creata su misura dell’università: gli studenti possono intervenire in chat, creando un’interazione a doppio medium e sottraendosi all’occasione di una pratica della condivisione più diretta, spontanea e formativa. Sarebbe interessante chiedersi, a questo proposito, se le chat di Teams abbiano qualche volta generato un “effetto gige”, per il quale il maggiore anonimato favorito dall’invisibilità rischierebbe di legittimare un allentamento della buona prammatica accademica nel rapporto tra studente e docente, indulgendo a una comunicazione inappropriata. A questo si aggiunge il pericolo che la digitalizzazione dei corsi provochi un effetto-meme su altri canali, se fin da subito si è osservata su facebook una moltiplicazione delle condivisioni di istantanee che divulgavano i momenti più bizzarri dei (comprensibili) inconvenienti nell’interfaccia con il nuovo strumento.

L’immagine del panoptikon è tanto più emblematica per la fase 2, ora che gli studenti dovranno affrontare raffinate strategie di sorveglianza remota che suppliscono il setting più naturale dell’aula a sedute separate. La figura dell’invigilator prende forma panottica, funzionalmente a un controllo razionale che minimizzi i rischi della frode, e che si fa tanto complesso da richiedere un sistema di trasparenza quasi invasivo.

Una misura di sorveglianza abbastanza comune vorrebbe che tutti gli esaminandi attivassero la videocamera, come a ricreare un’aula virtuale in cui, di nuovo, si è visti senza vedere, e in cui l’inverificabilità dell’osservazione è ancora più pertinente: il sorvegliante potrebbe non effettuare alcun controllo individuale ma la sola possibilità costituirebbe un deterrente.

Agli studenti si chiede di inquadrare il tavolo sgombro, eventualmente di fare una panoramica della stanza per verificare che non vi siano suggeritori, sono vietate le cuffiette e i più rigorosi chiedono un’inquadratura dell’altra metà del mezzobusto e della schiena, quasi ad aspirare a una visione simultanea di tutto il corpo, la stessa che si può ottenere in aula girandovi attorno, e c’è chi ci ha provato facendo richiesta di uno specchio alle spalle.

La razionalità di questo sistema si scontra fin da subito con la contingenza del medium: nella fase 1 abbiamo sperimentato i disguidi delle connessioni, le interruzioni improvvise, i problemi audiovisivi, e non era difficile prevedere che Teams non avrebbe retto a cinquanta videocamere accese.

Accantonata questa soluzione, qualcuno ha pensato a controlli a campione, che hanno lo stesso principio di deterrenza: immersi nella concentrazione dell’esame, bisogna tenersi pronti a rispondere a un’eventuale e improvvisa chiamata all’appello.

Non serve dire che le complicazioni tecniche rischiano di inficiare anche questo metodo, magari a svantaggio dell’effettiva buona fede dello studente. Bisognerà però considerare che alcuni fattori determinanti nel processo esaminatorio rischiano di essere sottoposti a delle variabili significative, tra cui la possibilità di una riduzione del tempo a disposizione al fine di ostacolare consultazioni indebite, il condizionamento nella valutazione che prevederebbe una tendenza al ribasso, i problemi tecnici che comporterebbero la compromissione o l’annullamento della prova.

Al fondo della questione, resta l’ennesima aporia di uno stato d’eccezione: il dovere di garantire il corretto svolgimento dell’esame può accompagnarsi a un rapporto di fiducia e cooperazione che non ricorra a macchinosi sistemi di sorveglianza?

 

2.

Letizia Moschitz

(corso di Laurea di Lettere, Università di Udine)

 

Didattica a distanza: amica e nemica

 

Un’inaspettata pandemia è la protagonista delle nostre conversazioni e di contenuti mediatici a cui accediamo da più di quattro mesi. Allo smarrimento e al panico iniziale della quarantena sono seguite le attività più varie: letture, cura dell’orto, pulizie, catalogazione dei libri in soffitta. Sono cominciate le lezioni a distanza e il tempo si è dilatato, offrendo a ciascuno la possibilità di reinventarsi. Tale opportunità è presto mutata in motivo di frustrazione. Di questo sentimento sono testimone come studentessa universitaria, frequentatrice dei corsi a distanza.

Il primo approccio a questo sistema è stato timido ma positivo, poiché nell’incertezza avevamo comunque la possibilità di non interrompere il nostro percorso. Inizialmente, ciascuno di noi era entusiasta all’idea di non rispondere agli orari dei mezzi pubblici, di non incontrare traffico, di non rischiare un raffreddore sotto la pioggia o di non trovare posto in aula: imparare dalla comodità della propria scrivania non ha prezzo. Per gli studenti lavoratori, la quarantena è stata un sogno vero e proprio.

Ampia voce hanno avuto coloro che, profondamente soddisfatti, propongono di estendere la didattica a distanza anche in futuro, considerati i vantaggi e lo sviluppo delle risorse tecnologiche a prezzi accessibili. Ne espone gli argomenti a favore Luca Taddio (Università di Udine), in un articolo apparso nei giorni scorsi nel «Messaggero veneto», il quotidiano locale: è possibile certamente abbassare i costi per gli studenti, ricreare un’aula in cui permettere agli studenti di interagire, accogliere milioni di studenti. Ridurre l’impatto ambientale, aggiungo io.

Tutte considerazioni vere e nobili, ma la bilancia resta squilibrata. I corridoi di casa non possono sostituire quelli dell’Ateneo, né ispirare un progetto di tesi, i propri scaffali non possiedono le risorse della Biblioteca Universitaria, la famiglia non offre un dibattito su un saggio da preparare in vista dell’esame, i vicini non sono vivaci come i gruppi di studenti in attesa del professore.

A partire da queste considerazioni, è corretto affermare che la didattica a distanza non sostituisce le dinamiche della lezione in aula. Essa costituisce una straordinaria risorsa in quanto a insegnamento e comunicazione virtuale, ma presenta sfumature deleterie: lo studente si alza al mattino, si stropiccia gli occhi bevendo il caffè, accende il computer. Da quella postazione non si muoverà più: lo strumento che gli permette di seguire le lezioni è lo stesso attraverso il quale esegue poi delle ricerche, scrive un messaggio, consulta il quotidiano, videochiama parenti e amici, fa acquisti, guarda film e documentari. Questo di per sé danneggia la salute e la psiche, e personalmente ritengo che danneggi anche la fantasia e il desiderio di scoprire e dialogare.

La possibilità di reinventarsi resta, ma nei limiti delle proprie mura, con contatti e progetti per la maggioranza virtuali. Quando mi alzo, sono lieta di poter seguire la lezione, intervenire (anche se attraverso un microfono che non restituisce la mia personalità), imparare a conoscere. Tuttavia alla fine della giornata sopraggiunge una sensazione inquietante: non importa quanto si è studiato, pesa di più il timore di non poter fuggire.

Dalla scrivania devo fare ogni giorno lo sforzo di ricordarmi di essere una studentessa che dialoga con il docente, non il destinatario anonimo di una comunicazione virtuale.

 

4 giugno 2020