In questi giorni difficili, gli psicoanalisti si sono interrogati a lungo, fra di loro e in interventi pubblici, sulle forme che assume il setting analitico classico nel momento in cui si è costretti ad adottare una modalità virtuale. L’interazione a distanza, infatti, modifica profondamente il lavoro analitico in sé, influenzando il percorso e i contenuti del discorso anche a livello inconscio.
Fatte le debite differenze, qualcosa di simile avviene anche nelle nostre lezioni, quando si è costretti dall’emergenza ad adottare (sottolineo costretti, perché la libera scelta dell’e-learning è evidentemente un’altra questione) una modalità telematica in luogo delle tradizionali lezioni in presenza. Anche la lezione universitaria comporta la costruzione di un setting, che mette in gioco una tensione comunicativa – non solo intellettuale ma empatica – fra chi parla e chi ascolta, e su questa relazione si gioca la riuscita della didattica nel trasferimento delle conoscenze, che non è di natura meccanica né passiva. Docenti e studenti collaborano alla costruzione della lezione e alla sua possibilità di innescare nuovi percorsi, lavorando non solo sul noto, ma sulla scoperta del nuovo, che avviene anche attraverso l’attivazione di processi di natura empatica. Quando alla fine degli anni Sessanta Hans Robert Jauss, il fondatore dell’estetica della ricezione, coniava la definizione di “orizzonte d’attesa”, riconosceva implicitamente alle emozioni del lettori, alla loro esperienza diretta di coinvolgimento nell’ascolto del testo, una parte fondamentale del discorso ermeneutico.
Non è un caso che Jauss affrontasse il discorso negli anni in cui aveva inizio la cosiddetta università di massa: tanto più oggi, dinanzi a un pubblico di studenti quanto mai frastagliato per provenienza, competenze, consapevolezza, il rapporto fra docenti e studenti deve avvenire nel segno della reciprocità. In altri termini, la lezione consiste nella capacità di costruire una relazione didattica a partire da quell’orizzonte d’attesa, individuale ma anche collettivo: non per confermarlo, ma per insinuare i dubbi, le inquietudini e le tensioni che ogni trasmissione del sapere in quanto tale comporta. La didattica universitaria implica dunque non solo le conoscenze pregresse del docente, la sua abilità nel comunicarle dal punto di vista scientifico, ma soprattutto la sua capacità di costruire una relazione, impresa vana senza il confronto diretto con gli studenti e la loro collaborazione fattiva alla nascita della lezione, che è sempre il risultato di un incontro non dato a priori. Nella lezione universitaria didattica e ricerca si uniscono: senza l’apporto della ricerca la didattica universitaria si trasforma in ripetizione di contenuti; d’altro canto l’esposizione sul piano didattico delle questioni su cui si lavora consente di metterle alla prova, di tornarci sopra in altro modo, saggiandone la validità, perché ogni ipotesi di lavoro è il frutto di un percorso: insomma, la lezione universitaria è un laboratorio di conoscenze di cui gli studenti sono parte integrante, non solo i destinatari di un discorso.
Anche la posizione che lo studente occupa nello spazio reale dell’aula, le sue reazioni verbali e non verbali fanno parte del setting didattico, senza contare poi un fatto su cui forse non si riflette abbastanza, in quest’epoca di entità virtuali disincarnate: lo studente non esiste solo come singolo individuo, ma diviene parte di una collettività proprio attraverso la sua partecipazione fisica alle lezioni, il suo essere presente in quel luogo e in quel tempo insieme agli altri. L’espressione “corpo studentesco” non è da intendersi solo in senso metaforico: è un’istanza collettiva prima di tutto fisica che implica relazioni molteplici in divenire, ed è il senso stesso dell’università intesa come possibilità condivisa di immaginare un altro mondo.
30 marzo 2020
Silvia Contarini
Università di Udine