Sergio Lubello - 3 aprile. Diario minimo. Ventisettesimo giorno di isolamento

Professore a distanza (siderale), ovvero del volare basso. Lettera di un professore frustrato ai suoi studenti.

 

Cari studenti,

vorrei chiarire a scanso di equivoci la mia posizione sulla didattica on line di questo periodo: non ne metto in discussione le possibilità che ci offre; senza, sarebbe stato peggio. Anzi dico meglio: senza, sarebbe stato terribile, perché avremmo dovuto interrompere tutto: o a distanza o nulla, tertium non datur. Né metto in discussione le potenzialità del cosiddetto e-learning: all’estero, lo so, gode di molta fortuna ma anche di applicazioni efficaci e rigorose, richiede competenze e appropriati contesti d’uso, soprattutto docenti formati ad hoc.

Metto solo in discussione me stesso. Ecco, lo confesso. Sono in questo momento un docente frustrato. Avevo fatto appena in tempo a illustrarvi la struttura dei corsi e annunciarvi le varie attività che avevo in mente di proporvi… e poi d’un colpo l’interruzione.

Ho dovuto ripensare il programma, le cose da dirvi, le cose da fare, quelle a cui rinunciare, e mi son messo in modalità ‘monologo davanti allo schermo’, pronto a intravedervi attraverso quadratini con le iniziali dei vostri nomi e cognomi, e quasi a intrasentire qualche rara vostra timida domanda.

C’è ora tra di noi una sintonia flebile, smorzata, intermittente. Nella lezione in classe, quando scorgevo volti stanchi mi affannavo a trovare la battuta giusta per richiamare l’attenzione, e se i volti erano smarriti mi arrovellavo a trovare un esempio più efficace, e se invece i volti erano attenti avevo la sicurezza di trovarmi sulla via giusta, e se i vostri occhi erano prensili potevo avventurarmi in qualche riflessione più complessa. Ecco, molto spesso eravate voi a guidarmi: il canovaccio di una lezione non è una scaletta fissa, è anche trattativa, dialogo continuo, esplorazione improvvisa di sentieri non programmati, spesso inattesi; si sa quasi sempre da dove si comincia, ma spesso si arriva inaspettatamente altrove; ed è quell’altrove la magia di alcune lezioni. Tutta questa comunicazione - segnali, sguardi, avvertimenti, intuizioni, dialoghi serrati e scambi continui - tutto questo si è perso, o esiste in una tonalità minore, variante amorfa, rallentata, talvolta surreale. Ci troviamo a distanza, io in una landa desolata in cui mi pare di parlare da solo, al vento, a me stesso. E sì, lo confesso, mi manca la materialità del pennarello, della lavagna, dei miei block-notes, delle vostre consegne manoscritte, del mio agitarmi dietro e intorno al tavolo, del mio protendermi verso di voi, cogliere i vostri movimenti, la vita della classe, guardarvi de visu, sbirciare i vostri appunti, capire dai vostri fogli se qualcosa delle mie parole resta lì fissata, pronta per essere rielaborata. La lezione vera è anche fisica, corpo, gesti, sinfonia di suoni, voci, pause e silenzi.

Come mi sento?

Mi sento amputato, mi sento dimidiato, un professore a metà. Non sarà così per tutti i miei colleghi, probabilmente. Anzi, qualcuno meglio di me saprà gestire questa distanza, saprà essere all’altezza, saprà non farvi sentire la differenza. Io invece la differenza la sento e la soffro, e ho l’impressione di volare basso, a volte di non alzarmi per nulla da terra. E me ne scuso. Non so improvvisarmi quello che non sono.

 

3 aprile 2020

 

Sergio Lubello

Università di Salerno