La notizia della temporanea sospensione delle attività didattiche in presenza è arrivata domenica 23 febbraio sera, a poche ore dall’inizio dei corsi del secondo semestre programmati per tutta la Scuola di Scienze umanistiche, cui il Dipartimento di Studi umanistici appartiene. Con il senno di poi si può valutare quanto quella scelta drastica e improvvisa, inizialmente criticata da qualcuno, sia stata intelligente e lungimirante e quante vite umane abbia salvato. Il rettore Stefano Geuna, che è tra l’altro un medico, e la prorettrice Giulia Carluccio, membro del nostro dipartimento, che porta tutta la sensibilità del mondo umanistico, hanno rischiato l’impopolarità ma a loro va ora il riconoscimento di un’intera comunità non solo accademica. Non è retorica visto che a quell’altezza cronologica alcuni che occupano posizioni più apicali di loro non avevano ancora capito la pericolosità dell’epidemia e si divertivano nella caccia del fantomatico paziente zero. La scelta dei vertici dell’ateneo – non va dimenticato – fu presa quando in Piemonte non c’erano casi di positività conclamata e la stampa unanimemente si concentrava attorno a un paese della bassa Lombardia suo malgrado sbattuto in prima pagina, Codogno.
La didattica in presenza è, da quando esiste l’uomo, la via privilegiata della trasmissione della conoscenza. Rinunciarvi significa rinunciare alla parte più nobile dell’insegnamento. Questa sensibilità è tanto più avvertita nel mondo umanistico perché ci sono ancora molti docenti che non si piegano alla didattica manualistica e si sforzano di creare percorsi sempre diversi per ogni anno di insegnamento.
Per questo abbiamo sperato e atteso che l’emergenza finisse presto, ma quando, con l'emanazione del DPCM del 9 marzo 2020, si è definitivamente capito che non sarebbe stato possibile tornare a fare lezione in presenza, recuperando le ore già trascorse per la conclusione del primo modulo del secondo semestre, la gamma di soluzioni proposte per garantire il mantenimento della nostra offerta didattica anche in questa particolarissima circostanza è stata piuttosto ampia, con la consapevolezza che l’emergenza poteva essere un’occasione per procedere insieme sulla via della didattica innovativa. I docenti di StudiUm, che appartengono a 45 settori scientifico disciplinari diversi, in pochi giorni hanno saputo con fantasia e intelligenza avviare e portare avanti il proprio insegnamento in modalità alternativa alla lezione in presenza, utilizzando una tra le varie soluzioni consigliate dall'ateneo e in alcuni casi introducendone di nuove con l’obiettivo di trovare la modalità migliore per insegnare ai propri studenti.
I dottorandi e gli assegnisti stanno anche con difficoltà portando avanti le loro ricerche dimostrando quanto amano questo lavoro. In questi tempi di chiusure stiamo imparando più che mai quanto siano importanti per noi le biblioteche per la ricerca ma anche per la didattica, e ciò ci dovrebbe spingere a difenderle con forza in futuro, quando tutto sarà finito.
I due principi guida che hanno ispirato il programma dell’Ateneo e del nostro Dipartimento sono stati:
Si è rivelato perciò necessario fin da subito coordinare e promuovere l’organizzazione delle diverse forme di didattica alternativa (immediatamente assimilate alla didattica frontale ai fini della compilazione dei registri).
Il confronto costante con i colleghi e con il nostro rettore e la nostra prorettrice, Stefano Geuna e Giulia Carluccio, con la vicerettrice Barbara Bruschi e la presidente della commissione didattica del Senato Franca Roncarolo, ha garantito tempestività nella scelta di soluzioni alternative ai problemi che di volta in volta si presentavano. Le riunioni, tutte in modalità telematica, sono fitte e continue e vedono la presenza dei direttori di dipartimento, dei vicedirettori alla didattica, del personale tecnico-amministrativo maggiormente coinvolto nella didattica e nei servizi informatici, e dei rappresentanti degli studenti.
L’organizzazione capillare ha permesso fin dai primi giorni di fornire indicazioni precise per una didattica in linea con le necessità degli studenti DSA o con bisogni educativi speciali, e per la realizzazione a distanza di esami di profitto e discussioni finali di tesi.
In particolare il dipartimento, utilizzando gli strumenti messi a disposizione dall’ateneo e fabbricandone in proprio si è immediatamente mobilitato per offrire a ciascun docente il supporto tecnico necessario:
Si è sfruttata una piattaforma di didattica a distanza in uso da alcuni anni in quei corsi di studio che già prevedevano percorsi di questo tipo, implementandola e aprendone l’uso a tutti, ma ciascun docente ha potuto scegliere quale modalità didattica adottare:
La flessibilità ha dato frutti positivi, evitando di sovraccaricare le singole soluzioni e permettendo una diffusione degli studenti, i quali, a loro volta, con grande pazienza e intelligenza stanno vivendo un’esperienza di apprendimento nuova.
Proprio per stare maggiormente vicini agli studenti si sono messe (metterei il verbo al maschile, visto che sotto si parla anche di “potenziamento”) in atto
La tabella in allegato fornisce una fotografie delle varie soluzioni adottate dai docenti di StudiUm per la didattica a distanza.
La direzione e i presidenti di corso di laurea hanno un costante contatto con i docenti. Alcuni di loro hanno anche attivato soluzioni comuni per aree scientifico disciplinari. Si può garantire che nessuno è stato lasciato da solo. La solitudine come percezione individuale non può ovviamente essere discussa qui perché appartiene ad altri ambiti. Va detto comunque che l’ateneo ha anche attivato uno sportello di consulto psicologico aperto a tutti.
Una presenza tecnologicamente assistita Le narrazioni di sciagure rappresentano un genere ben codificato e collocano quasi sempre, nella fase iniziale, il topos della “sorpresa”: la narrazione sull’epidemia di Covid 19 non fa eccezione. Ci ha colto di sorpresa? Se guardo la cosa dal mio punto di vista devo rispondere affermativamente: sì, c’è stata sorpresa, ma non sgomento.
E l’università era preparata? La minaccia ha cominciato a essere tangibile venerdì 21 febbraio, con i primi casi di contagio segnalati a Codogno, cosicché domenica 23 febbraio le unità di crisi di Piemonte, Lombardia e Veneto hanno decretato lo stop a lezioni ad esami. Martedì 25 febbraio l’Università di Torino rendeva note le linee guida per la didattica a distanza: una reazione che definirei “pronta”. E pronte erano anche le infrastrutture tecnologiche per erogare e seguire le lezioni da casa: avevamo a disposizione Moodle per la gestione dei corsi online e delle esercitazioni e Webex per la teleconferenza e il webinar. Da quanto li avevamo? Più o meno 15 anni: credo che molti atenei si siano trovati nella condizione di avere da tempo degli efficienti sistemi di e-learning utilizzati però da pochi appassionati.
A fronte di questa situazione mi sono offerto di condividere le mie conoscenze con i colleghi che ne avessero necessità: su invito del Direttore di Dipartimento ho organizzato un incontro in aula (aula da 480 posti per una cinquantina di colleghi, con pieno rispetto delle distanze di sicurezza), poi, quando la situazione è precipitata, ho proseguito con i webinar.
Nei miei interventi non dovevo soffermarmi sulle questioni tecniche, dal momento che per quelle erano già stati predisposti efficaci tutorial dagli informatici: ciò che mancava, a mio parere, era una riflessione sul nostro modo di fare lezione e la conseguente elaborazione di strategie didattiche che contemplassero quella che più avanti definirò “presenza tecnologicamente assistita”. Rivolgendomi a colleghi del Dipartimento, tutti afferenti alle discipline umanistiche, prima con il mio intervento in presenza e poi con le lezioni online e i video, ho cercato di collegare gli aspetti meramente procedurali a questioni più complesse che stanno alla base delle didattica a distanza, ovvero come ridefinire il tempo e lo spazio.
Ben prima che il sistema dei crediti giungesse a formalizzare e a quantificare tutto questo, esistevano un “tempo di lezione” e un “tempo di studio”; essi definivano anche due ambiti spaziali, complementari tra loro: l’aula, luogo privilegiato nel quale trascorrere il tempo di lezione, e l’altrove (casa, biblioteca, sala studio, parco, ecc.) dove impiegare quello di studio. Il tempo/spazio lezione/aula è spesso caratterizzato, almeno nelle discipline umanistiche, da una comunicazione unidirezionale (docente discente), con brevi concessioni all’inversione dei ruoli attraverso le domande.
Ognuno di noi sa bene che l’unidirezionalità non è il modo migliore per mantenere alta l’attenzione e, probabilmente, neppure per trasmettere conoscenza, la quale avrebbe bisogno di un più alto grado di interazione. Eppure la formula del monologo è così radicata nella nostra tradizione che ci sembra l’unica possibile. Ciò che ho spiegato ai miei colleghi nei tutorial (abbassando, forse, la mia già non alta popolarità) è che la consuetudine del monologo è poco adatta alla didattica a distanza. Davanti a un monitor, lontani dall’occhio vigile di chi insegna, l’attenzione si spegne ancora prima che in aula. È dunque necessario riaccenderla spesso per suscitare l’attenzione. Così ho consigliato ai colleghi di frammentare il loro tempo di lezione online in unità indipendenti, inframmezzandole con esercitazioni, ricerche di materiali, letture, ascolti musicali; in altri termini ho suggerito di abbattere gradualmente le barriere tra tempo di lezione e tempo di studio.
Anche la didattica d’aula è una didattica che contempla diverse distanze da colmare: una distanza d’età che, con l’anzianità di servizio dovrebbe sempre più essere compensata dall’esperienza, una distanza di ruolo e, talvolta, anche una distanza spaziale. Di sicuro, l’esperienza della didattica in aule immense è ampiamente condivisa dai colleghi delle discipline umanistiche. Mi chiedo allora: è davvero così diverso fare lezione via internet e farla in un’aula in cui l’interlocuzione da parte dei discenti è ridotta al minimo?
Prima che questa emergenza scoppiasse, il mio compito nel progetto di formazione dei nuovi docenti universitari dentro l’Università di Torino (progetto Iridi Start) consisteva proprio nello spiegare come “usare” comunicativamente gli spazi e i tempi dell’aula: come muoversi davanti alla cattedra per costringere gli studenti a riorientare continuamente il loro sguardo (modalità utilissima per prevenire fastidiose ecchimosi da addormentamento improvviso con testa sul banco); come usare lo spazio della lavagna anche se non abbiamo formule o teoremi con i quali consumare il gesso; come leggere un brano letterario camminando lungo le gradinate dell’anfiteatro, come usare gli oggetti degli studenti (quaderni, bottiglie d’acqua, penne, ecc.) per costruire esempi e, naturalmente, come dar loro la parola anche quando non vorrebbero affatto parlare.
L’ipotesi di una didattica a distanza non stravolge dunque i miei metodi di insegnamento e cerco di spiegare ai colleghi che non dovrebbe stravolgere neppure i loro. Mentirei se dicessi che preferisco stare dietro a una webcam piuttosto che camminare tra i banchi, ma rispetto alla sciagura immane che si è abbattuta sul nostro pianeta, la mia perdita di soddisfazione professionale è davvero poca cosa. La sfida che ci è stata imposta, a mio parere, non ha a che vedere con la tecnologia, ma con la creatività, con la voglia di trovare soluzioni alternative al monologo: molti di noi quelle soluzioni alternative già le adottano e trasferirle su una piattaforma informatica è compito assai semplice. Infatti anche la didattica a distanza può essere efficace se si trova il giusto equilibrio tra registrazioni, materiali testuali, videoconferenze con la partecipazione telematica dei discenti, esercitazioni e lavori di gruppo con i relativi interventi di correzione.
Per concludere, vorrei far notare che, in questo breve testo, così come nella formazione dei colleghi, non ho usato la contrapposizione distanza/presenza perché secondo me, con le attuali tecnologie, presenza e distanza sono conciliabili tra loro: chi di noi non ammette che la persona che sta parlando con noi al telefono dall’Australia o dal Nevada esprime, pur nella distanza, un certo livello di presenza? Chi di noi, in questi giorni, non ha provato sollievo nel vedere, anche solo con una videochiamata, le persone care? Più che di distanza, mi piace parlare di una presenza tecnologicamente assistita: certo, se la persona cara è quella con la quale dividiamo la vita, la presenza tecnologicamente assistita (ma non surrogata) può essere deludente (sempre meglio dell’assenza però) ma, per quanto possano esserci cari i nostri studenti e le nostre studentesse, in una relazione didattica può essere spesso stimolante.
«La perdita della favella» Letteratura per ragazzi è il titolo del corso che avrei dovuto iniziare in presenza neI secondo semestre, destinato agli studenti del DAMS, di Scienze della Comunicazione e di Scienze dell’Educazione; un corso da 12 CFU, con un’utenza di circa trecento persone e con un problema in più: si tratta, anche per gli studenti che si definiscono (e spesso sono) lettori e spettatori forti, di una disciplina nuova, che richiede strumenti che la scuola superiore ha fornito solo in minima parte, affondi nella letteratura non esclusivamente italiana molto settoriali (la fiaba barocca, ad esempio) e un’interazione trasversale e costante fra testi letterari, film, sceneggiati, arti grafiche e fumetti, tanto facile e piacevole da utilizzare in aula, quanto difficile da rendere in una modalità a distanza.
Il corso è da sempre strutturato con un primo modulo introduttivo (Grandi penne per piccoli lettori), finalizzato a fornire agli studenti una strumentazione critica adeguata, e un secondo modulo monografico che quest’anno, ironia della sorte, evoca un’assenza perché si intitola Sui banchi di scuola ed esplora l’immagine dell’istituto scolastico nella letteratura per l’infanzia.
L’offerta immediatamente attivata dall’Ateneo torinese all’inizio dell’emergenza è stata ampia e completa: bisognava provare a individuare lo strumento migliore, tenendo conto che, sulla base dell’esperienza degli anni precedenti, la platea dei frequentanti, e più in generale degli studenti, non era omogenea.
Ho fatto una scelta mista, condivisa con non pochi colleghi, dopo aver riformulato il programma iniziale in modo da non incorrere in problemi di copyright. Ho optato per un percorso di slide che disegnasse sottopercorsi interni e rimandasse in modo univoco ai testi letterari e ai saggi critici di approfondimento. Ho caricato tutto il materiale sulla pagina del corso nell’apposita sezione di CampusNet e ciò ha consentito agli studenti di avere integralmente a disposizione la bibliografia necessaria per la preparazione dell’esame, salvo poche eccezioni acquistabili come e-book e alcuni film acquistabili anch’essi in rete, particolare non trascurabile dopo il blocco delle consegne di noti servizi di commercio e delle grandi librerie on-line.
Come per gli ospiti del Castello dei destini incrociati questa opzione ha però imposto una «perdita della favella», una rinuncia all’oralità a favore di una scrittura che doveva essere chiara, piana e non facilmente fraintendibile ma che, soprattutto, doveva essere in grado di dar voce ai testi chiamati a parlare direttamente con gli studenti. Non una scrittura saggistica, quindi, e neppure una scrittura che riproducesse l’oralità della lezione, ma una scrittura rastremata, in grado di fornire una serie di indicazioni che lo studente era chiamato a seguire per esplorare i percorsi proposti all’interno del programma.
I contenuti sono stati erogati attraverso presentazioni in PowerPoint, ognuna corrispondente a una lezione; al momento del caricamento sono stati abbinati tutti i saggi e i testi chiamati in causa in quella presentazione, in modo che gli studenti potessero iniziare immediatamente a fruirne. Mano a mano che si procedeva con il caricamento si sollecitava il feedback degli studenti, con un livello di risposta più che positivo.
I dubbi e le criticità che la ristrutturazione a livello organizzativo e didattico del corso aveva inevitabilmente fatto sorgere sono stati risolti attraverso un costante confronto, gestito con gli strumenti che di volta in volta sembravano più adeguati: mail, con l’impegno di risposta entro ventiquattr’ore, incontri via Meet, molto richiesti, e telefonate, per coloro che disponevano di poca rete. Perché questo è un altro aspetto di cui poco si parla, ma che ha incidenza anche in UniTo, come abbiamo appreso prima dalle segnalazioni dei rappresentanti degli studenti nelle commissioni di Senato accademico e nelle riunioni in remoto che settimanalmente si tengono per gestire l’emergenza e poi da quelle che arrivavano a ognuno di noi, alla spicciolata: non tutti gli studenti, privati del wifi di UniTo, sono in condizioni di disporre di una banda larga e di un abbonamento flat, non tutti possono sostituire l’assenza fisica con una costante presenza virtuale. Per citare qualche esempio significativo: capita per coloro che abitano nelle valli montane attorno a Torino e che sono rientrati a casa per la quarantena; capita per gli studenti fuori sede che sono tornati in zone del Sud poco servite; capita per chi, semplicemente, non ha la disponibilità economica per permettersi un collegamento e una strumentazione adatti. Mai come in questi giorni la proposta di Stefano Rodotà relativa al riconoscimento dell’accesso a Internet come diritto primario, ha assunto un senso pratico e tangibile. Anche in questo caso la scelta di UniTo, di non convogliare tutta la didattica sugli stessi canali, ha permesso a coloro che erano più in difficoltà di scaricare il materiale utile a seguire i corsi con poco dispendio di rete e destinare la disponibilità rimanente sugli altri corsi.
In questa fase di colloqui in remoto è poi emerso un aspetto che non avrei immaginato: le chiacchierate informali negli intervalli sono diventate richieste di spiegazioni, certo, ma anche richieste di consigli di lettura, domande e curiosità che, forse, a lezione, non sarebbero emerse o sarebbero emerse in modo diverso. Particolarmente interessante, e stimolante, il costante confronto che gli studenti propongono fra la letteratura per l’infanzia, che sotto questa forma appare per loro una novità, e la letteratura “alta”, quella che sono abituati a studiare da sempre. Interessante anche il fatto che cerchino, nella realtà che meglio conoscono di letture o wargames, affinità con quanto sta accadendo fuori da casa loro.
Infine, prima dello scoppio dell’emergenza Coronavirus era stato attivato un percorso di tutorato per il corso di Letteratura per ragazzi. In previsione dell’avvio del secondo semestre, i tutores entrati in servizio per questo corso e per la Letteratura italiana destinata al DAMS (Lorenzo Resio e Chiara Tavella) si erano già accordati con i docenti titolari degli insegnamenti su come impostare le diverse attività di assistenza e recupero. Le attività in presenza e online avrebbero permesso di offrire agli studenti interessati un supporto costante per affrontare il proprio percorso didattico. L’emergenza ha ovviamente imposto un ripensamento di questa stessa esperienza: le ultime restrizioni hanno impedito la programmazione di appuntamenti in presenza e la chiusura delle biblioteche ha inizialmente limitato la possibilità di reperire eventuali materiali di approfondimento utili per il recupero di alcuni argomenti.
Fortunatamente è stato possibile ricorrere ai servizi di Bibliopass, spesso poco sfruttati (provvidenziale era stata una Lezione 0, inserita in CampusNet quando ancora non si presagiva il blocco totale e che illustrava parte delle possibilità offerte dalla ricerca bibliografica digitale). In effetti le riviste e le bibliografie on line a cui è abbonato il Dipartimento di Studi umanistici, e la cui offerta è stata ulteriormente ampliata in questi giorni offrono uno strumento ineludibile.
Gli studenti interessati alle attività di recupero si sono potuti mettere in contatto con i tutores, i cui recapiti erano chiaramente indicati sulla pagina dei vari corsi, e i tutores hanno individuato di volta in volta la modalità che meglio poteva rispondere alle singole esigenze di didattica e di assistenza. Particolare attenzione è stata rivolta agli studenti con DSA o con bisogni educativi speciali, per i quali è stato, a seconda delle richieste, personalizzato, dalla docente o dai tutores, il materiale didattico messo a disposizione.
In questo momento, «sospesi in un viaggio» non ancora «terminato», non possiamo far altro che vivere questa esperienza cercando di farne tesoro, attenti alle esigenze che ogni giorno emergono e in vista degli esami che saranno, comunque, un’esperienza diversa da tutto quello che abbiamo vissuto.
Poi, finalmente, potremo tornare a entrare in aula, a parlare con i nostri studenti, a rispondere alle loro domande senza che l’anomalia di questa situazione ci faccia avvertire la loro stessa presenza come una minaccia.
Per una didattica dell’incontro e del dialogo Leurs yeux se rencontrèrent: quell’incontro di sguardi che – per riprendere il titolo di un celebre saggio di Jean Rousset – sta alle radici di ogni relazione didattica, di ogni magistero e di ogni percorso di apprendimento, ci è stato improvvisamente sottratto nella settimana del 24 febbraio, che in Piemonte ha segnato l’inizio del blocco delle attività. All’incontro si è sostituita la distanza e il rituale della lezione è stato rimpiazzato (o meglio: surrogato, come ha rilevato Franco Tomasi)[1] dalla luce verde della videocamera. No, decisamente, non è la stessa cosa. Non sono cambiati solo il supporto didattico, il contesto, lo scenario: è il passo, il respiro stesso di quell’organismo chiamato lezione a essere mutato.
Forse per questa ragione, quando si è cominciato a parlare di migrazione online degli insegnamenti, mi è tornata alla mente una delle ultime Lettere luterane, quella del 18 ottobre 1975 in cui Pasolini auspicava provocatoriamente l’abolizione della scuola (là era la scuola media, oggi estesa a ogni ordine e grado) per correggere la falsa democrazia di una società piccolo borghese violenta e schiava delle idee dominanti. Una abolizione che avrebbe dovuto preludere a una radicale riforma. E per quanto la proposta swiftiana di Pasolini mal si adatti al cupo dramma in cui siamo immersi, certamente in queste settimane ci siamo trovati di fronte a qualcosa di altrettanto radicale che ci impone di ripensare profondamente il sistema della nostra istruzione pubblica. L’urgenza è particolarmente grave e impellente per la scuola dell’obbligo (dove avventurosamente ho insegnato per oltre 10 anni), e tuttavia sono le nostre università il “fronte di scavo”, l’avanguardia di una didattica alla ricerca di nuove forme – forme che dovranno essere integrative, e non radicalmente sostitutive.
La “cassetta degli attrezzi” messa a nostra disposizione dall’Ateneo è dunque ricca, variegata, duttile e direi ragionevole, considerata l’urgenza e la velocità con cui ci è stato chiesto di reagire allo shock. Personalmente ho scelto la presentazione PowerPoint con registrazione di commento audio: questo mi ha consentito di ridurre al minimo le difficoltà di banda (la videolezione in streaming necessita di una connessione molto più prestante e veloce) e di eliminare ogni distrazione visiva per privilegiare la pura voce, e ricreare almeno in parte quello spazio puro in cui ha luogo il rito pubblico della lezione. Nell’impossibilità di utilizzare le aule attrezzate del dipartimento (prima per il divieto di spostamento intercomunale, poi per la chiusura del dipartimento stesso) mi sembrava che il salotto di casa, con le sue cianfrusaglie, non costituisse il setting adatto, proprio per il rischio di creare una commistione tra pubblico e privato che contraddice la funzione stessa dell’università. Ci tornerò tra poco.
Sulle incognite (in particolare politico-democratiche) di una trasmigrazione totale della didattica sulle piattaforme e-learning non mi soffermo: li hanno discussi con grande chiarezza Guido Mattia Gallerani in un articolo pubblicato su www.leparoleelecose.it e Federico Bertoni qui.[2] Vorrei invece ragionare brevemente su come sia possibile realizzare a distanza quel circolo ermeneutico che secondo Luperini è il cuore di ogni azione didattica. L’idea stessa della distanza sembra in effetti contraddire ogni ipotesi di dialogo e di confronto, di incontro: certo, ci sono i forum, le chat, le e-mail, la possibilità di interagire in video, ma fino a che punto la piattaforma a nostra disposizione reggerà il sovrautilizzo di queste settimane? In che misura i nostri studenti possono realmente accedere a questi strumenti? Come sarà possibile raggiungere le fasce sociali e le aree geografiche più disagiate, integrandole compiutamente? Il digital divide purtroppo non è solo uno slogan e la generazione dei nativi digitali non è così compatta al suo interno (per competenze e per risorse a disposizione) come si potrebbe pensare. Il tema è stringente per quanto riguarda gli ordini inferiori dell’istruzione, ma a giudicare dal tipo di domande che mi pongono i miei studenti iscritti al primo anno di Scienze della comunicazione, direi che richieda una seria riflessione anche per l’istruzione universitaria.
Avere a disposizione, accanto a quelli tradizionali, anche strumenti digitali (non solo piattaforme di comunicazione, ma strumenti di ricerca e di studio, come rilevato benissimo da Paola Italia) renderà sicuramente più efficace e flessibile la didattica, faciliterà gli studenti fuori sede e gli studenti lavoratori. Ma l’orizzonte utopico della nostra azione deve continuare a essere l’incontro, l’abolizione della distanza (il montaliano spazio gettato tra te e me è l’immagine poetica che più si avvicina a ciò che intendo), il riscontro continuo e immediato che nessuno spazio virtuale, nessuno scambio di e-mail, nessun forum potrà sostituire. Certo, in questo momento ci troviamo a lavorare nell’emergenza, e nell’emergenza tutti i materiali (e tutti i metodi) sono buoni: macerie del passato e prototipi del futuro. Ma quella disumanizzazione dell’arte che Ortega y Gasset paventava all’inizio del XX secolo è uno scenario da non sottovalutare in tempi di 5G incipiente: perché, in effetti, accanto all’urgenza di questi giorni credo che sia necessario cominciare a pensare a ciò che accadrà dopo. Occorre cioè una prospettiva di lungo periodo, per evitare che l’università mantenga un ruolo di trasmissione delle conoscenze perdendo tuttavia la sua funzione etica più alta. Questa prospettiva è ciò che chiediamo come cittadini ai nostri rappresentanti politici nazionali e sovranazionali, ma è anche ciò che dobbiamo pretendere da noi stessi; salvaguardare spazi ancora umani di scambio e dibattito all’interno di una comunità altamente tecnicizzata non è una scommessa persa in partenza, ma richiede la consapevolezza del ruolo pubblico, dello spazio sociale e del ruolo di mediazione – civile oltre che culturale – delle nostre università.
[1]https://site.unibo.it/griseldaonline/it/diario-quarantena/franco-tomasi-senso-mancanza.
[2] https://site.unibo.it/griseldaonline/it/diario-quarantena/federico-bertoni-cinque-scene-cinque-punti-didattica-distanza.
6 aprile 2020
Donato Pirovano, Alessandro Perissinotto, Clara Allasia, Chiara Fenoglio
Dipartimento StudiUm - Università di Torino