Ovvero: ciò che è ineludibile della distanza è… la distanza
Nel settimo libro della serie di Harry Potter, Harry Potter e i doni della morte, Harry, all’inizio dell’anno scolastico, non torna a Hogwarts (e, insieme a lui, neppure possono i fidi compagni del trio: Hermione e Ron). Non può tornare a Hogwarts, passato sotto il controllo di Voldemort, perché ne andrebbe della sua incolumità (è ricercato) e perché il momento di rientrarvi, se pure di nascosto, deve essere accuratamente preparato con un piano. Hogwarts è tuttavia presente nei sogni, nei desideri, nei ricordi, nelle parole, nei gesti persino, del protagonista, continuamente. Attraverso i canali di comunicazione che hanno sotto mano (le notizie sui giornali, gli occasionali incontri con qualcuno che ne sa, ma, soprattutto, alcuni strumenti che consentono di annullare fittiziamente la distanza come la mappa del malandrino, la cornice dei quadri magici o il frammento di specchio), Harry continua, ossessivamente, a ‘collegarsi’ a Hogwarts, per restare in contatto, per quanto può, con la sua scuola.
Da quando insegno (ho cominciato nel 2001) e sono usciti i Doni della morte, ho sempre citato ai miei alunni e alle mie alunne l’esempio del settimo libro di Harry Potter per dire loro che – anche se capivo che fosse difficile crederlo – la scuola, quando non c’è per forzatura, manca. Mai avrei pensato, devo dire, che ne avrei – ne avremmo – fatto, insieme, una esperienza così pervasiva e diretta.
Comincio da qui la mia riflessione su quelle che nella mia scuola, consapevolmente, abbiamo deciso di chiamare A.D.I.D. (Attività Didattiche Integrative Domiciliari), «inserendo le parole “Integrative” e “Domiciliari” e togliendo la parola “Distanza”, forse inappropriata al presente contesto in cui c’è bisogno di prossimità» (cito dall’ultima Circolare in merito, del 3 aprile 2020, che fa il punto su questo primo mese), proprio perché – e da Animatore Digitale aggiungo che la nostra è stata una riflessione immediata, ponderata e condivisa – c’era la volontà di sottolineare il valore integrativo, di qualcosa che arriva nelle case, di un processo (quello educativo) la cui sostanza specifica vive di altre relazioni in presenza e altri luoghi assai reali.
Eppure – se da un lato (come dice appunto Harry di Hogwarts a un certo punto dei Doni) la relazione scolastica arriva a mancare «quasi quanto la […] ex-fidanzata» – dall’altro lato il fatto che ciò che rende complessa una didattica di prossimità domiciliare sia proprio l’ineludibilità della distanza è, e resta, una tautologia insormontabile, con la quale tutti noi ‘abitanti’ del sistema scuola ci troviamo a fare inesorabilmente i conti, giorno dopo giorno.
La scuola tutta, infatti, è per chi la frequenta il mondo che si esplicita fisicamente dentro quelle mura (non importa se sbertucciate come la troppo vasta maggioranza dei nostri plessi, o formidabili ed evocative come quelle del castello di Hogwarts): sottrarre agli studenti e alle studentesse la scuola è per questo tanto più invasivo che sottrarla a degli studenti universitari, il cui statuto di studenti si esplicita dentro, ma anche intorno all'università: non solo nelle sue aule, non solo a lezione. In qualche modo, la loro condizione di universitari, pur in stato di eccezione, è mantenibile anche a distanza, specie con risorse online di solidarietà digitale che consentono, quanto più sei avanti negli anni di corso, di fare anche molte attività che si fanno anche senza lezione. Anche le tribune di intervento e partecipazione se non istituzionali comunque accreditate sono più ampie (la stessa sede su cui pubblichiamo queste nostre riflessioni di quarantena ne è un esempio): ci sono una comunità istituzionale e iniziative tutte intorno che consentono piccoli atti di appartenenza.
A scuola, no. Venute meno le mura, apparentemente non c'è altro. E questo vuoto è reso tanto più assordante da una differenza di accesso digitale che si radica in differenze sociali ed economiche profondissime (che l’assenza di un punto fisico di incontro neutro e livellante come la scuola pubblica acuisce dolorosamente con progressione geometrica), e in una difformità di confidenza digitale complessiva del mondo scolastico, sulla quale il Ministero, negli anni, ha agito con una pluralità di dichiarazioni inversamente proporzionale a un modello strutturato in una idea forte, e organicamente calibrata sui singoli contesti (e un piano di finanziamenti dall’aspetto casuale quanto insufficiente).
In questa prospettiva, il dialogo a distanza, come ha ricordato nel suo discorso alla cittadinanza il suo malgrado spettinato Presidente Mattarella, ha un suo valore profondo, di stato di necessità. Forse non bello (del resto nulla può essere definito tale come misura di emergenza, in uno stato di pandemia globale), talora non gradito; soggetto a giustificati timori, e suscettibile di miglioramento; ma in ogni caso esistenzialmente ineludibile (giacché ineludibile è la distanza), perché fornisce quella parvenza di struttura che gli studenti dei 13 gradi di scuola pubblica, non hanno, non è previsto che abbiano, da soli.
Per questo, a me sembra, una differenza pregnante sul significato della dicotomia distanza/presenza tra scuola e università si gioca proprio sul piano che ho appena ricordato. L’Università è un mondo dove si può seguire l’intero corso di studi da non frequentanti, ci si può laureare da non frequentanti: a scuola, di nuovo, no. La presenza, la costituzione di un gruppo, la relazione sono elementi non solo quotidiani, ma vincolanti, non solo di procedure amministrative (oltre una soglia di assenze, non si è ammessi allo scrutinio per il passaggio alla classe successiva, o all’esame di licenza), ma di costruzione di identità.
Si tratta, beninteso, di una diversità di condizione che ha al suo interno vantaggi e svantaggi. Il ginepraio burocratico che la forzata attivazione di pratiche esclusivamente integrative domiciliari mette in campo (la frequenza, la valutazione, la validità dell’anno scolastico) è enorme e assai più complicato rispetto a quello dell’insegnamento accademico (nel quale, peraltro, la ripetizione di un anno o di un esame non è vista con quello stigma doloroso con il quale solo in Italia si definisce la ripetizione di un anno di scuola “un anno perso”). Nello stesso tempo, se distanza ha da essere, la scuola, rispetto all’Università, ha il grande vantaggio che la relazione di presenza si interrompe con precise identità singole e di gruppo.
Voglio ribadirlo con chiarezza: la mia idea di fare scuola è altro, e questa che siamo costretti a inventarci non è un’opzione vantaggiosa, ma di supplenza. Nello stesso tempo, pur chiusi in casa, pur dietro uno schermo, pur imprigionati dietro una voce a scatti, un “non prende”, un contributo al Decameron di classe mandato attraverso una foto storta, gli studenti e le studentesse con cui io resto in contatto sono visi, caratteri, personalità che io conosco già da tempo – quando va male da settembre, in alcuni casi da una pluralità di anni. Sono, appunto, persone a tutto tondo, così come lo sono io, con i nostri pregi, difetti, idiosincrasie che abbiamo imparato a conoscere, accogliere, smussare, in tanti mesi di prossimità reale. Ed è su questo dato che si fonda, per quanto mi riguarda, con tanta sperimentazione, molta fatica e una nostalgia di Hogwarts perenne, il mio dialogo quotidiano con le mie classi.
In due momenti particolarmente difficili del suo lungo viaggio da solo fuori dalla sua scuola, Harry si sofferma a guardare speranzoso nel frammento di specchio magico, tragicamente rotto, eppure ancora capace di funzionare, talvolta, sperando di trovare una risposta: «Un penetrante occhio azzurro l’aveva guardato dal frammento di specchio e l’aiuto era arrivato». Perché: «‘A Hogwarts chi chiede aiuto lo trova sempre’». Alla fine, è tutto qui.
5 aprile
Orsetta Innocenti
I.I.S. “Santoni” – Pisa