Nicola Bonazzi - La lezione del teatro, il teatro della lezione

 

Ho deciso che l’ultimo giorno di lezione dei miei due corsi di quest’anno chiederò agli studenti una piccola cosa.

Chiederò loro di aprire i microfoni e fare, ognuno dalla propria straniata solitudine, un applauso.

Naturalmente applaudirò con loro. Mi figuro, e non credo di andare lontano dal vero, che sarà un applauso liberatorio e commosso.

Sarà un modo per dirci tutti insieme: “Ce l’abbiamo fatta, siamo arrivati in fondo”.

Sarà il compimento naturale a quello strano rito di ringraziamento vicendevole, del tutto inedito in aula, che celebriamo sempre alla fine di ogni lezione.

Ringraziamento proprio in quanto gratitudine: da parte mia nei loro confronti per avere continuato a seguire il corso (pressoché tutti!), e presumo da parte loro nei miei confronti perché ho provato a risarcire la mancanza di un rapporto diretto attraverso il surrogato di quella presenza fantasmatica consentita dal supporto tecnologico, andandolo a riempire di ausilii ulteriori (mai fatti tanti PowerPoint in vita mia!), e con la voglia, necessaria, essenziale, di esibire la mia passione per l’insegnamento. Cioè per loro.

Cioè, in ultima istanza, per quel rapporto diretto che è venuto meno, per quegli istanti di condivisione dentro l’esperienza comune della lezione, per quello stare insieme di cui ora rimane solo un’illusoria parvenza.

 

Arrivo all’insegnamento dal teatro.

Dirò meglio, per non fare la figura del guitto prestato a qualcosa di più serio: il mio percorso accademico si è sviluppato insieme a un percorso professionistico di drammaturgo, regista e pedagogo teatrale.

Una dei primi esercizi che fanno gli allievi attori a teatro è di camminare nello spazio, e di guardarsi negli occhi tutte le volte che si incontrano. Di guardarsi veramente negli occhi. Poi di salutarsi stringendosi la mano.

La conoscenza reciproca passa attraverso un gesto, uno sguardo, qualcosa di fisico.

Perché il teatro è una forma espressiva che si può dare solo in presenza, nell’incoercibile sostanza dei corpi.

È esperienza che diventa sapere.

Esattamente quello che succede nel “teatro” della lezione.

 

Ricordo che Ezio Raimondi, ogni prima lezione dei suoi corsi (o almeno di quelli che ho frequentato io), si prendeva un tempo per raccontare la responsabilità che avvertiva nei nostri confronti in quanto insegnante, e lo faceva paragonando l’attività del docente a quella dell’attore.

Chiunque abbia esperienza di insegnamento sa che la lezione è (anche) una performance.

E una parte del successo della lezione o della propria pratica d’insegnamento passa (anche) dalla qualità di quella performance, da ciò che essa è in grado di veicolare.

Mi sarei preso la briga di leggere a vent’anni La morte di Virgilio di Hermann Broch, se quello stimolo non mi fosse arrivato dalla figura dinoccolata di Raimondi in perenne movimento davanti alla cattedra, con le gestualità misurata delle sue braccia che accompagnavano le inflessioni di una voce profonda e calma?  O di rileggere con occhi nuovi e mente sgombra i Promessi Sposi dopo le letture sghembe e annoiate della scuola superiore? O di andare a spulciare nei libri la miriade di sollecitazioni che mi arrivavano da Gian Mario Anselmi, Maria Luisa Altieri Biagi, Antonio Faeti…

 

Ritrovavo, nelle lezioni di quei docenti, la capacità suasoria dell’actio.

Non come fatto tecnico, ma come tensione comunicativa che si traduce prima di tutto in un fatto fisico, il più concreto, il più diretto, il più immediato.

So che la mia formazione è passata anche da lì.

E vorrei, da ciascuno dei docenti che hanno contribuito a formarmi sul piano intellettuale, aver appreso anche la capacità di insegnare attraverso quella tensione, quell’attitudine fisica che può darsi solo “in presenza”.

 

Niente da dire sulla possibilità di recuperare quanto di utile ci può essere nell’uso di dispositivi tecnologici, nel momento in cui questi siano in grado di coadiuvare realmente la didattica o possano, in situazioni di emergenza, dimostrarsi sostitutivi efficaci (ma pur sempre sostitutivi) della didattica in aula.

Dobbiamo già, del resto, convivere con l’idea che anche all’inizio dell’accademico prossimo molti studenti saranno impossibilitati a spostarsi da regione a regione (senza contare quelli che finora si erano spostati da altre nazioni) per motivi sanitari o per motivi, ahinoi, economici.

Senza abdicare alla complessità e alla lenta assunzione (o “manducazione”, per dirla in termini petrarcheschi…) che l’oggetto-libro comporta, dobbiamo abituarci all’idea che i nativi digitali preferiscono spesso altre forme di accesso al sapere, di cui l’editoria dovrà sempre di più tenere conto e, a cascata, anche gli altri attori del processo di comunicazione del sapere, ovvero, in prima istanza, i docenti, le scuole, le università.

Ma.

Ma nulla, nulla è in grado di sostituire il sapere che passa dall’esserci, nell’incoercibile sostanza fisica dei corpi, nella condivisione di un momento che si rivela irripetibile proprio per quanto è in grado di trasmettere sensibilmente (ciò che vedo, ciò che sento, perfino ciò che odoro).

Tutto il resto è fasma, parvenza instabile e provvisoria.

 

Ho deciso che l’ultimo giorno di lezione chiederò ai miei studenti di aprire il microfono.

Aprirò il microfono insieme a loro.

Ci faremo un applauso.

L’applauso che si fa alla fine di ogni spettacolo ben riuscito.

L’applauso che di solito si fa agli attori che sono lì, davanti a noi, e che ringraziano.

Noi invece non ci saremo.

O meglio, ci saremo senza esserci.

Ci stringeremo idealmente la mano senza potercela stringere.

In quell’applauso si misurerà il rimpianto per una presenza mancata.

Si avvertirà il peso di un vuoto non più colmabile.

Ci faremo un applauso.

Un applauso pieno, coinvolto, potente.

Un applauso che, sono sicuro, non dimenticheremo mai.

 

5 aprile 2020

 

Nicola Bonazzi

Università di Bologna