Mercoledì 4 marzo 2020, ore 11.40, soggiorno borghese di una casa romana: un attempato docente di letteratura italiana contemporanea di Torino apprende che il suo corso, che sarebbe dovuto iniziare il 24 febbraio, non è stato solo posticipato, ma quasi certamente non avrà mai luogo in presenza. In quell’istante – in quell’esatto momento; né un secondo prima, né un secondo dopo – la preparazione delle lezioni iniziali, delle relative slide, degli specifici discorsi tarati sui 90 minuti vengono accantonati; ma ancor di più, in quel preciso istante, tutti quei mezzi e mezzucci, che l’attempato professore ha come innati e che servono per avviare quel ponte comunicativo indispensabile all’interno della classe, vengono inceneriti, rimossi, annientati. Si apre la domanda che il saggio formulava più di un secolo fa: «Che fare?». E ancor prima di dare la risposta, nasce anche la consapevolezza che quel «fare» è da farlo in fretta.
L’attempato professore di Torino sono io. Ma la mia storia, con tutti i mutamenti del caso e le variabili narrative che ogni individuo ha esperito, è comune a quella di molti colleghi. E non lo dico per ipotesi. Infatti, e lo ricordo non tanto per inciso, il viavai di telefonate, confronti, consigli, e conforti, è partito già alle 11.41, con l’obiettivo, unico e impellente, di rispondere concretamente al materialistico «Che fare?» menzionato sopra. Nel mio caso si è risolto, quasi in forma obbligata, con videolezioni registrate, data la necessità di recuperare le due settimane perse. Ma su questo ci tornerò. Per ora è più urgente sottolineare due aspetti: lo smarrimento iniziale (il baratro di un lavoro nuovo, già partito senza avere avuto la possibilità di saperlo, e già a pieno ritmo) e la solidarietà fattiva tra colleghi (piattaforme da usare, come, esperienze pregresse, ipotesi, fallimenti di dieci minuti prima, condivisione immediata di successi, dove i successi sono appunto la capacità di caricare il video, con tanto di materiale didattico annesso, nella forma esatta): smarrimento e solidarietà.
Insisto su questi due elementi perché sono quelli che spiegano una prima reazione che c’è stata, una volta messo davvero in moto il meccanismo: un generale sentimento di soddisfazione, il sorriso sulle labbra per “avercela fatta”, il piccolo e umano compiacimento per non essersi fatti fermare. Il piccolo e piccino orgoglio che si ha quando si apprende qualcosa di nuovo, come ad esempio – mi riferisco sempre al brizzolato e attempato umanista da cui è partita questa analisi – quello di tagliare un video, recuperare un audio perso, scaricare programmi per rimuovere suoni, ritoccare video, ecc. E il vero e proprio sospiro di sollievo: il servizio, sia pure in una forma nuova, è stato erogato.
È da qui che nascono, in larga parte (secondo me), i diversi giudizi tolleranti sulla didattica a distanza: i vari «non è così male», «credevo peggio», «si possono fare cose interessanti», «è un’occasione per imparare a usare strumenti nuovi», ecc. Che poi, è anche vero: anche io credevo peggio, temevo la catastrofe, non potevo immaginare che dal video potesse nascere altro che video, e in fondo ho imparato a usare Zoom, Meet, Kaltura, Audacity, Filmora, Format Factory. Bello! (detto col tono di Gaber… a scanso di equivoci). Insomma, senza tirarla troppo per le lunghe, il rischio è quello di confondere la soddisfazione per la reazione e per la prova di forza mostrata di fronte all’emergenza con uno sdoganamento della distanza didattica (didattica a distanza ormai è troppo abusato); di confondere la procedura con l’obiettivo, i mezzi con la fine, i video con la classe.
Cerchiamo allora di rimettere ordine, sebbene ogni forma di ordine sia sempre parziale, e in questo caso anche partigiana. Ciò che ha dato soddisfazione – a me, come a molti altri miei colleghi – è il fatto che un’esigenza, profonda e radicale, venisse, sia pure in piccolissima parte, appagata e risanata. E se questo è accaduto, non è per la bravura dei singoli, ma per la cooperazione che c’è stata tra i vari colleghi, che davvero hanno condiviso – in barba a ogni valutazione comparativa e di merito che tanto piace a chi gestisce questo servizio pubblico –strategie ed esperienze. Ma il merito, ovviamente, ed è detto senza alcuna forma di facile populismo, non è solo dei docenti, ma anche e in pari grado degli studenti, che hanno partecipato, spesso fattivamente, al funzionamento della macchina. È grazie a loro, ad esempio nel mio caso, che si si sono reperiti i testi in programma d’esame, che si sono pensati canali alternativi a una rete d’ateneo sovraccarica e in affanno, che si è ricostruita la comunità classe. Perché, ed è questo l’elemento che più mi dà euforia, la mia esigenza (e quella di molti miei colleghi) era ed è anche la loro: la classe e la didattica non come forma di trasmissione sacerdotale di conoscenze, ma come esperienza di crescita comune.
Ho optato, come dicevo, per le videolezioni registrate. Ho poi chiesto agli studenti se avevano desiderio di intervenire anche loro, così come avrebbero fatto in classe viva, con relazioni da offrire agli altri, che poi venivano assorbite e commentate nelle lezioni successive: e non è servito un grande incoraggiamento per avere una risposta positiva. Si è intensificata la comunicazione mail, telefonica (il ricevimento), incontri in diretta, confronti sul materiale da commentare. Insomma, sia pure in una forma molto più laboriosa, stancante e sfiancante, meno redditizia, si è ricostruita una comunità. L’obiettivo comune, in una forma inevitabilmente dimidiata rispetto a quello che sarebbe stato in presenza, è stato chiarito; e nel momento in cui è stato stabilito, è stato anche raggiunto. L’esperienza, questa sì, è stata comune.
Io non so se, come si suole dire insistentemente, «nulla sarà come prima». Ma certamente quest’anno sarà segnato dalla sospensione didattica in presenza; ed è un trauma (nel senso non valutativo del termine) che ci porteremo tutti dentro. Ma questo trauma ha segnato, con una violenza positiva, l’esigenza della vicinanza, della tangibilità, dell’esperienza immediata. È questo che ci porteremo in classe, domani, quando torneremo tutti all’interno delle stesse mura.
Un’ultima considerazione. Il cambiamento del medium implica inevitabilmente un cambiamento di contenuto. È sin troppo banale ricordarlo, ma è chiaro che nessuno di noi ha affrontato gli stessi concetti che avrebbe discusso in classe, e ha toccato tutti quegli argomenti che avrebbe indagato dal vivo; senza tener conto di tutte quelle suggestioni che sarebbero state provocate dagli interventi estemporanei (geniali e sbagliati), o anche solo dagli occhi appesantiti, o improvvisamente svegli, o altre volte confusi, che guidano chi insegna. Ognuno di noi ha dovuto ristrutturare il corso. Allora – e concedo qualcosa ai sostenitori dell’«è un’occasione» – l’emergenza didattica, e dunque la condanna alla distanza e al remoto, ha imposto a tutti noi di ridomandare, in maniera radicale, quali sono gli obiettivi principali della propria disciplina. Ci siamo dovuti interrogare, in maniera bruciante e sincera, su quali sono gli aspetti fondamentali su cui puntare, avendo meno riscontri, meno tempo e meno mezzi. È stata, ed è, una verifica dei valori.
Ma anche questa verifica, insieme all’esperienza collaborativa che sta contraddistinguendo queste settimane, tradisce quell’esigenza di comunità e di dialogo di cui si diceva prima. Allora mi piace credere che domani quando torneremo in classe non sarà come prima, perché avremo un’esperienza in più di comunità; e dunque una possibilità maggiore per ridurre quella inevitabile distanza, che c’è già in presenza, tra docenti e discenti. È la vicinanza quello che ci stanno insegnando queste settimane di urgenza, non certo la distanza.
4 marzo 2020
Massimiliano Tortora
(Università degli Studi di Torino)