Sorpresa, stordimento, paura sono le sensazioni di questi mesi: le sento addosso, ogni giorno, insieme alla determinazione ad andare avanti, come al solito, senza lamenti (almeno “fino a che c’è la salute”, come recita la saggezza di un modo di dire drammaticamente attuale). Perciò quando il 6 marzo 2020 l’Università di Trento ha proposto al corpo docente due modalità di lezione, una sincrona (cioè in collegamento simultaneo e telematico con gli studenti collegati in remoto) e una asincrona (che consente di preparare materiali in formato digitale da condividere sulla piattaforma del corso), mi sono detta che sono una privilegiata: in una Trento blindata dove molti amici e conoscenti non possono svolgere le consuete attività, ho un lavoro e posso scegliere come farlo. Con prudenza ho optato per la seconda modalità, a mio avviso più facile e più autonoma.
Ho verificato anzitutto di essere capace di registrare la mia voce: Quick Time Player mi ha aiutato. Orribile risentirsi, ma pazienza. Ce l’ho fatta a progettare una nuova forma di comunicazione, cioè una nuova retorica che, però, ho organizzato nel modo classico: inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio.
Ho cominciato con l’inventio di lezioni audio. Prima solo 20 minuti alla volta e ora molti, molti di più: commento testi, illustro i PowerPoint con le parole-chiave di un corso sulla riscrittura di favole e fiabe (insegno nel Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive un corso, opzionale, di 42 ore: Letteratura, pregiudizi e stereotipi). Sono monologhi, è vero, non posso coinvolgere studentesse e studenti con domande, battute, osservazioni sul quotidiano, insomma con gli elementi che rendono la lezione in aula viva e spesso anche piacevole. Ma vediamo come va… (ho riflettuto un po’ impaurita dalla novità); intanto invio anche testi in PDF, link a interviste, PowerPoint che miglioro e adatto a queste circostanze.
Ogni domenica sera carico tutto il materiale per la settimana (due incontri di un’ora e mezzo l’uno) e scrivo una lettera di accompagnamento. Mio figlio sedicenne commenta disgustato: «ma perché mandi tutta quella roba; non hai altro da fare nella vita?». Inutilmente gli spiego che questo sarebbe il mio lavoro, anzi il nostro lavoro, visto che il suo disappunto riguarda anche le sue “Prof.” che «lo riempiono di cose da fare».
Insieme al materiale propongo anche una serie di domande a cui si può rispondere in modo orale (una sorta di guida allo studio) o scritto (con “esoneri” sul colloquio finale). In questo modo organizzo l’ordine delle lezioni, la dispositio della nuova comunicazione. Risultato? Passo le giornate a leggere gli elaborati di una cinquantina di studentesse e studenti (soprattutto le prime). È faticoso, ma anche interessante, soprattutto perché mi permette di verificare la conoscenza della lingua italiana.
Colgo infatti l’occasione per commentare l’elocutio e dunque proporre anche un po’ di lezioni di stile. E faccio anche la strega indovina (d’altronde, parlo di fiabe…): se qualcuno scrive bene chiedo se ha un genitore insegnante, se ha avuto ottimi docenti di italiano o se ha frequentato il liceo classico. Ebbene, indovino sempre, suscitando negli studenti stupore e in me un insieme di sensazioni: l’orgoglio di fare un mestiere che insegna a esprimersi in modo corretto, coerente, chiaro; e insieme l’amarezza nei confronti di un sistema scolastico diseguale (altro che «tutti gli usi delle parole a tutti», come affermava Gianni Rodari). D’altronde ho insegnato alle “professionali” e conosco bene la fatica di convincere gli studenti a impegnarsi in un laboratorio di parole.
Eppure, alla fine, prevale in me la fiducia nella scuola, nell’università, nei colleghi di ogni ordine e grado e negli studenti; in breve tempo siamo tutti impegnati a garantire che la cultura esiste e può essere trasmessa e condivisa, sempre. Perciò, ogni giorno, sono felice di leggere pagine e pagine di risposte che mostrano l’immaginario dei giovani (la loro memoria, per dirla con la retorica): accanto alla letteratura, propongono serie televisive, graphic novel, canzoni, film; inventano finali differenti per le favole e le fiabe della tradizione; inviano Ted Talks che divertono o commuovono in modo pertinente; insomma dialogano (loro sì) in modo attivo e partecipe.
E allora? L’entusiasmo di studentesse e studenti mi ha contagiato. E mi sto reinventando di nuovo: con un’actio differente, ormai per il dopo Pasqua. Sarò sincrona e non più asincrona; video e non più audio; dialogica e non più monologica: riparto con una nuova inventio, ce la posso fare; ho già scaricato “zoom” e fatto le prove. Ce la devo fare, ce la dobbiamo fare, tutti insieme, in questo anno “bisesto e funesto”.
4 aprile 2020
Lucia Rodler
Università di Trento