Gabriele Baldassari - La didattica online al tempo di una pandemia

 

Partirò da alcune constatazioni banali.

La prima: ci troviamo dentro un evento storico che ci cambierà tutti, dopo il quale il mondo non sarà più quello a cui eravamo abituati.

La seconda: come sempre accade, questo avviene nostro malgrado e al di là delle nostre (nel mio caso scarse) capacità di prevedere l’entità di quanto stava per succedere.

Infine: ci possiamo rendere conto con estrema chiarezza del fatto che l’evento storico non è un avvenimento precisamente determinabile nello spazio e nel tempo, ma un processo, alla cui evoluzione assistiamo e assisteremo giorno per giorno, e a lungo. Se a volte si può avere l’illusione prospettica che un singolo fatto muti il corso della storia (l’attentato di Sarajevo, il sequestro Moro, l’11 settembre...), in questo caso ci troviamo a osservare quotidianamente la diffusione, la propagazione di un fenomeno. Stiamo cercando di contrastarlo, o meglio di rallentarlo, di contenerlo, e misuriamo così anche la nostra umana debolezza di fronte a eventi di questa portata, ma anche le nostre potenzialità, per poco che sia ciò che ciascuno di noi può fare, e il valore di una resistenza puramente passiva.

Ora, in tutto ciò c’è anche la didattica online. Anche questo è qualcosa a cui non eravamo preparati. In tutti i nostri atenei esistevano da tempo strumenti utili, piattaforme su cui caricare avvisi, materiali e PowerPoint, e quasi tutti noi li usavamo. Abbiamo però dovuto fare un salto, e spostare tutta la nostra didattica su queste piattaforme: spesso non è facile; spesso questo ha richiesto un grosso sforzo aggiuntivo da parte dei tecnici informatici delle nostre università; spesso le piattaforme sono sovraccariche, e ci si trova a pregare che la rete regga.

Mentre scrivo, utilizzando un vecchio portatile malandato, i miei due figli (che sono in quarta e quinta elementare) stanno seguendo le loro lezioni online (ciascuno con uno strumento e una piattaforma diversa) e mia moglie sta lavorando in cucina, da dove è in grado (o dovrebbe essere in grado) di vedere il suo computer aziendale e operare su di esso come se fosse nella sua redazione: intanto fa una telefonata o una riunione telematica dietro l’altra. Io ho registrato parte di una lezione stanotte, proprio per lasciare il computer buono, stamattina, a mio figlio; nel pomeriggio di ieri mi sono riunito per via telematica con alcuni colleghi, per prepararci alle discussioni delle tesi magistrali che avremo tra qualche giorno, e abbiamo durato fatica a comprendere la procedura; più tardi avrò una commissione di tesi triennale... Nei giorni scorsi ho sentito studenti attraverso lo stesso strumento e via Skype: mercoledì, per il Dantedì, ho raccolto contributi con letture dantesche e commenti di colleghi e studenti su una pagina Facebook che ho pensato di creare con un amico (consacrando alla raccolta di una ventina di video l’intera giornata), e settimana prossima sarò ospite di un collega di un’altra università, sempre per via telematica e su un’altra piattaforma...

La quantità di impegni, insomma, è notevole: ci sono di continuo nuove cose da imparare e da mettere in pratica, e non c’è dubbio che la didattica online sia non poco gravosa, almeno per me. Io registro le lezioni attraverso Microsoft Teams e le inserisco sulla nostra piattaforma dell’Università degli Studi di Milano, chiamata Ariel. Non faccio didattica live. Devo confessare anzi che sono costantemente in ritardo sulla tabella di marcia, perché nonostante abbia da tempo molti PowerPoint a disposizione per gran parte del programma che sto svolgendo, dedico parecchie energie a controllarli, a rifinirli, a ripensarli, e sono naturalmente un po’ preoccupato di consegnare la mia lezione a una registrazione che resterà, che gli studenti potranno passarsi nel tempo, che chissà dove finirà. L’errore è un’eventualità che spaventa. Anche se le cose ormai non sono molto diverse quando si fa didattica in aula: tanti studenti registravano le mie lezioni con i loro cellulari o fotografavano le mie slide, che comunque mettevo sempre a disposizione su Ariel. Un’altra confessione: ci hanno chiesto di fare lezioni più brevi di quelle in aula. Io, che sono verboso per natura, finisco costantemente per farle più lunghe. Gli studenti, però, interpellati al riguardo, non hanno finora avuto nulla da ridire; mi arrivano invece apprezzamenti che appaiono (e spero siano) sinceri, e i collegamenti giornalieri, che posso agevolmente verificare, sono tanti.

Tra gli apprezzamenti ne estraggo uno, perché è significativo delle potenzialità magari inaspettate che si creano in una situazione del genere. La settimana scorsa, dopo aver tenuto due lezioni molto dense (e lunghe), ho pensato di fare una lezione più breve per introdurre Ariosto, prendendo le prime ottave del Furioso con l’intento di mostrare agli studenti come si fa una parafrasi: ho indicato cioè i diversi passi che bisogna compiere, mi sono soffermato su alcune forme grammaticali e sul significato di alcune parole ed espressioni, ho spiegato alcuni passaggi, ma ho lasciato poi la parafrasi di ciascuna ottava all’esercizio individuale. Nella lezione successiva ho parlato del Furioso riprendendo anche il proemio e dando la mia parafrasi (nel tentativo anche di spiegare che non ne esiste una e una sola). Uno studente mi ha scritto per dirmi che finalmente ha capito in cosa consista la parafrasi, questa cosa su cui io insisto sempre molto, essendo stato educato al liceo da un insegnante di vecchia scuola, che ci faceva leggere un brano mai visto, sia in italiano sia in latino, e ci chiedeva di parafrasare o tradurre immediatamente. Ecco, pur facendo costantemente la parafrasi, pur cercando di spiegare all’inizio dei miei corsi cosa sia e perché la ritenga tanto importante, io non avevo mai concepito una lezione di questo tipo. Forse non sarebbe stata necessaria la didattica online, ma è stata la didattica online a spingermi a sperimentare una modalità di insegnamento un po’ diversa da quella a cui sono abituato quando faccio lezione in un’aula con centocinquanta persone e per un corso come quello che tengo in questo semestre, dove ho studenti di tre corsi di studi contemporaneamente (nonché di anni diversi), con tutte le implicazioni che ciò comporta: Storia, Scienze umane dell’ambiente, del territorio e del paesaggio, Filosofia. Quando sono in aula, fatico spesso a capire se ciò che sto spiegando sia arduo o troppo facile, se interessi oppure no, se coinvolga solo una parte e non un’altra degli studenti: la didattica online invece può essere modulata dal singolo studente sulla base delle proprie esigenze, nel senso che in un caso come quello descritto chi viene dal liceo classico e sarebbe in grado magari di parafrasare Ariosto all’impronta può anche decidere che quella mia lezione non gli serve, invece di guardare il soffitto dell’aula tutto il tempo (o la vicina o il vicino di banco...), mentre un altro, che viene magari da un istituto tecnico, come quello che mi ha scritto, può finalmente imparare un metodo.

Naturalmente molti di noi sono preoccupati all’idea che si sia intrapresa una strada irreversibile, e io penso di sì, che sia vero: come dicevo all’inizio, siamo dentro un processo che ci cambierà tutti. Non credo che la nostra didattica si trasformerà in una perenne didattica online. Spero anzi di no. Ho sempre amato l’università Statale di Milano per i suoi spazi (che ora tanto mi mancano), e anche per la sua confusione, per gli incontri e gli scambi che mi offriva ogni giorno, per il contatto umano, prima da studente, poi da ricercatore (precario), infine da docente. E ci sono tanti rischi in una vita condotta su internet. Una delle implicazioni più preoccupanti per me è che gli studenti si trovano costantemente servito il pasto giornaliero che devono consumare. Eccolo lì: è pronto. Il professore ha già elaborato e digerito per te il nutrimento che ti serve, e te lo porge imbeccandoti con microporzioni sotto forma di slide. Tutto questo rischia di creare una fruizione della didattica molto più passiva della classica e tanto vituperata lezione frontale, quella lezione che ti costringeva a stare attento perché quell’attimo, quella riflessione poteva passare senza che tu l’avessi còlta. Adesso lo studente si trova davanti un video che può fermare quando vuole, ma sappiamo tutti che questo accresce anche le possibilità di distrazione e induce a frammentare la fruizione, a dilazionarla nel tempo; ma soprattutto dà l’idea che sia tutto lì, nella voce del professore e nelle diapositive che mostra, che non sia necessario cercare nulla di più, o magari giusto un’informazione captata dal primo risultato che esce su un motore di ricerca. Si tratta di qualcosa che vedevamo già ben presente nei nostri studenti prima di questa emergenza: ad esempio nelle tesi, spesso condotte in maniera pigra, raffazzonando informazioni, copiando e incollando, nel peggiore dei casi (ma certo non raramente), con un semplice clic. Credo che si tratti di tendenze che noi dobbiamo contrastare con forza e senza tentennamenti, senza preoccuparci di apparire “sorpassati”: purtroppo dalla scuola dell’obbligo molti studenti vengono abituati a chiamare “ricerca” proprio operazioni di copia e incolla, compiute senza chiedersi non solo se la fonte sia attendibile, ma nemmeno il significato delle parole. Io vedo in questo la nostra missione per il futuro (immediato): non contrastare l’uso degli strumenti di didattica che ormai, dopo questo evento traumatico, diventeranno parte della nostra quotidianità, ma impegnarsi per accrescere il coinvolgimento e la curiosità degli studenti e per far sì che imparino a usarli con consapevolezza, stimolandoci e aiutandoci magari a loro volta a sfruttarli nel pieno delle loro potenzialità.

Chiuderò queste mie riflessioni da dove sono partito: da questo processo che ci cambierà tutti. Non sappiamo ancora dire in quali forme e con quali risultati. Può darsi che tra diciotto mesi avremo un vaccino contro il Coronavirus e al contempo un mondo basato su equilibri geopolitici ed economici molto diversi da quelli a cui eravamo abituati. Io sono convinto di una cosa, che magari la storia smentirà: gli studenti a cui oggi stiamo offrendo la nostra didattica online saranno quelli che trasformeranno il nostro mondo sulla base di ciò che stanno vivendo in questo momento. Personalmente penso da almeno quindici anni che la mia generazione (quella di chi è nato negli anni Settanta ed era adolescente quando crollò il Muro) non sia riuscita a dare un contributo significativo al suo tempo. Non mi attarderò in considerazioni sulle ragioni: certamente non ha aiutato il connubio tra il benessere in cui quasi tutti sono cresciuti e la fine delle ideologie e dei partiti di massa novecenteschi; il risultato è stata una tendenza alla passiva accettazione dell’esistente da parte di giovani che non avevano strumenti in mano, né ideologici né pratici, per concepire autentiche alternative, che non si risolvessero in nostalgie o utopie velleitarie, in un antagonismo fin troppo facile da reprimere, come dimostrò in maniera brutale il G8 di Genova. Uno spazio per l’impegno è rimasto, naturalmente, e non può essere disconosciuto; ma è mancato un collante autentico, una visione del presente e del futuro che fosse in grado di tenere insieme una generazione o almeno buona parte di essa. Gli studenti di oggi, che spesso a noi appaiono sprovveduti e impreparati, così distanti dall’educazione (anche formale) in cui tanti di noi ancora erano cresciuti, stanno sperimentando qualcosa che può aiutarli a cambiare il corso della storia: potranno portare dentro e si spera fuori di sé la consapevolezza del fatto che non c’è benessere individuale senza benessere collettivo, un pensiero che tanti stavano maturando grazie a un movimento ecologista che destava spesso qualche sorriso e qualche perplessità ma che adesso potrà trovare in una situazione estremamente drammatica la base per affrontare con maggiore pragmatismo e minore retorica sfide assai impegnative. I nostri studenti di oggi porteranno poi sulla loro pelle la coscienza di qualcosa che noi, che pure avevamo assistito a eventi come la guerra nella ex Jugoslavia o l’11 settembre o la crisi del 2008, non riuscivamo compiutamente a mettere a fuoco, essendo sempre abituati all’idea che comunque in definitiva tutto passasse senza mutare più di tanto il corso delle nostre esistenze e il nostro stile di vita: le catastrofi possono accadere e possiamo esserne travolti. Questo richiede un atteggiamento nuovo: è ormai chiaro che bisogna essere preparati a certi scenari, e quindi esercitare una prevenzione lungimirante, individuare e tutelare settori strategici, come quelli della ricerca, della sanità, dell’ambiente, pensare al proprio mondo come a un mondo nel quale ciò che succede a migliaia di chilometri di distanza può riguardarci il giorno dopo.

Si dirà: che cosa c’entra tutto questo con la nostra didattica online? Per me molto. Grazie al cielo, nonostante i tanti paragoni che in questo momento si fanno con la guerra (forse per un bisogno di similitudini che non stupisce certo chi si occupa di letteratura e retorica), ci troviamo in una situazione che non può essere paragonata a quella vissuta dai nostri nonni, quando (è bene ricordarlo) chi era fortunato in genere viveva sotto la minaccia dei bombardamenti e chi era sfortunato rischiava la deportazione in campi di concentramento o di sterminio. La tecnologia che permea le nostre vite e che sta permettendo (occorre tenerlo presente) uno sforzo di ricerca mai visto in tutto il mondo per trovare soluzioni diverse, su diversi piani, a un problema che riguarda tutti, consente anche di mantenere un sistema di istruzione che raggiunge molti studenti di ogni età (anche se sarebbe meglio che fossero tutti). Questo naturalmente è prezioso di per sé. Ma non solo: insegnare, coltivare il sapere, soffermarsi su una questione critica, sul significato di un verso, su un episodio storico, respingendo il più possibile la tentazione della superficialità, vuol dire offrire anche il senso di un impegno individuale, mostrare la consapevolezza del significato del proprio lavoro, trasmettere una visione di ciò che conta, stimolare l’idea che la vita continua, nonostante tutto, e che attraverso questo presente bisogna prepararsi al domani, sperando che sia un domani diverso da quello che non abbiamo saputo progettare prima. Non possiamo paragonarci a chi è veramente in prima linea oggi: a chi rischia la vita negli ospedali, nelle ambulanze, nella cura dei pazienti, a chi lavora per assicurare la tenuta delle filiere produttive e dei settori ritenuti essenziali, a chi si occupa del trasporto delle merci, a chi passa la giornata nei supermercati e nelle farmacie, ai coraggiosi volontari che assistono anziani e senza tetto. Non possiamo trascurare la fortuna di avere un lavoro nelle nostre università di fronte al dramma di chi vede spazzare via gli sforzi di una vita da una crisi economica che sarà profonda e, si spera, non devastante. La didattica online è il nostro modo per fare la nostra parte. Per quanto possa essere faticosa o straniante, ci consente di dividere quel cibo che solum è nostro. Dobbiamo continuare a pensare che siamo nati per lui.

 

30 marzo 2020

 

Gabriele Baldassari

Università di Milano-La Statale