Cristina Montagnani - Cosa hai imparato dall’esperienza del coronavirus?

 

Non so se capiti solo a me, ma è una delle tante frasi retoriche che girano in questi – tristi – tempi che mi fa più inferocire. In generale credo che nessuno abbia imparato niente, che tutti aspettino di uscire da questo incubo per tornare a fare esattamente le cose di prima, che ci sembravano banali ma ora ci appaiono meravigliose. Persino andare a fare lezione in aule scalcinate, troppo calde o troppo fredde, con studenti che a volte sembrano concentrati più che altro sul cellulare o sulla compagna di banco tanto carina. La quotidianità che ci è stata sottratta insomma; e allora, io cosa ho imparato? A maneggiare qualche strumento informatico, con l’aiuto di Flavio G. e di Giorgio P., i nostri meravigliosi colleghi tecnici, senza i quali anche il poco che facciamo sarebbe stato impossibile. Ho imparato, ma lo sapevo già, a diffidare di chi cavalca l’onda e tenta di fare di un professore una sorta di tutor telematico: come ho anche scritto ai miei colleghi, la nostra non è una didattica a distanza, è una mera didattica di emergenza, una didattica di guerra (per non perdere nemmeno una delle frasi fatte; dall’andràtuttobene preferisco astenermi).

Eppure, eppure qualche cosa di diverso filtra anche in una visione un po’ disincantata come la mia: ricevo tante mail dagli studenti, e non sono mai sciocche, li sento che riflettono, che studiano, e che soprattutto traggono da questo dialogo a distanza una sorta di consolazione che di certo non sembravano trarre dalle lezioni in presenza. Ascoltano le lezioni con la mamma; si danno appuntamento per sentirle con gli amici, insomma hanno costituito una comunità virtuale forte, si fanno coraggio; è bello pensarlo, e mi consola.

E persino le riunioni coi colleghi (no, le riunioni no!) hanno un’aria diversa, un po’ surreale certo, ma nel silenzio forzato di google meet le voci non si accavallano, le persone sembrano ascoltare di più, riflettono prima di chiedere la parola; direi anche che ci sia più rigore, più rispetto, e che si cerchi di operare per il bene comune.

Potrei chiudere così questa mia testimonianza, assai poco significativa; vorrei però aggiungere in coda una riflessione in qualche misura politica: mi preoccupa questo esperimento, e per questo insisto tanto sul suo carattere eccezionale. Non vorrei che a qualcuno, in cerca di qualche soldino da recuperare, venisse la bella idea di riciclare le lezioni di quest’anno. Non tanto le nostre, che uno stipendio lo prendiamo comunque, ma quelle dei più poveri fra i poveri, i contrattisti: pagati per un anno, replicati all’infinito, come in un brutto film di fantascienza. Vigiliamo, amici, e aspettiamo i tempi felici in cui potremo dire che in aula non si mangia, non si gioca col cellulare e non si flirta. Quanto mi manca!

 

3 aprile 2020

 

Cristina Montagnani

Università di Ferrara