Per fortuna, a differenza di molti miei colleghi qui negli Stati Uniti, non sono stato colto proprio impreparato nel momento in cui ci è stato detto che le lezioni sarebbero state annullate e trasformate in didattica a distanza per il resto del semestre. Anzi, avendo qualche dimestichezza con la tecnologia, da settimane avevo seguito con interesse, e con ansia, l’escalation dei decreti del governo italiano e l’aggravarsi della crisi nella nostra amata Italia. E sebbene avessi cercato –forse invano, o solo per consolarmi – di ragionare sul perché il virus aveva colpito l’Italia in modo particolarmente duro e perché da noi sarebbe andato diversamente – il carattere nosocomiale della diffusione del virus; la densità delle zone rosse; la dipendenza dai mezzi pubblici; il tasso alto di fumatori (facevo pure i calcoli: età media dei decessi 80 anni, la percentuale dei fumatori maschile tra i 50/60 anni, quando i decessi oggi sarebbero stati fra i 15 e i 30 anni, si registrava intorno a 60%-70%...e così via) – intellettualmente ed emotivamente sapevo che, prima o poi, anche a noi sarebbe toccato più o meno lo stesso destino, una chiusura pressoché totale che implicava la didattica a distanza. Non per questo sarebbe stato facile: per il programma d’Italianistica alla University of Dallas questo doveva essere l’anno del nostro coronamento. Per la prima volta, avremmo avuto una studentessa laureata in Lingua e Letteratura italiana. Dunque una delusione professionale e personale, ma una tristezza infinita per i nostri studenti dell’ultimo anno.
In genere, le università americane hanno più esperienza con la didattica a distanza, ma la mia università è rinomata per il suo essere controcorrente allo zeitgeist universitario, per la sua recalcitranza. Inoltre, dato il tasso alto di professori che si occupano di Medioevo, e la presenza di una nostra sede fuori Roma nei Castelli Romani, la University of Dallas è anche molto italofila e medieval-friendly. Non a caso, il mio collega John Alvis, grande studioso di Shakespeare, letteratura e politica, ha definito la nostra università una “academic Alamo” (siamo in Texas, dopo tutto), una specie di baluardo contro ciò che è visto come il relativismo solipsistico dell’accademia attuale.
A mo’ di introduzione, la University of Dallas è un liberal arts college vero e proprio, dove, per i primi due anni, tutti gli studenti – non importa la specializzazione – seguono più o meno lo stesso piano di studio. Ad esempio, nei primi due corsi di letteratura, le matricole studiano, fra l’altro, l’Odissea, l’Iliade e l’Eneide, e poi la Commedia, il Paradiso perduto e il Sir Gawain e il cavaliere verde. Ad essi si aggiungono corsi di storia, teologia, filosofia, economia, politica, biologia, chimica, matematica e lingue. Senza eccezione, tutti gli studenti undergraduate (di corso di laurea) incontreranno Eschilo, Shakespeare, Dostoevskij, Faulkner, Adam Smith, Thomas Jefferson, Tucidide e Livio, Tommaso Moro, Marx, Engels, Papa Leone XIII, Frederick Douglass, Benjamin Franklin, The Federalist Papers, Martin Luther King, Platone, Aristotele, San Tommaso d’Aquino, Cartesio, Kant, Heidegger, Tocqueville, Nietzsche, San Agostino, Martin Lutero, i documenti del Concilio di Trento, Vaticano I, Vaticano II, e via discorrendo. Insomma, siamo tradizionali e, intellettualmente nonché pedagogicamente, un po’ conservatori. Lungi dall’essere all’avanguardia, andiamo fieri della nostra didattica medievale e cattolica: testi primari, dialogo socratico, rapporti umani con gli studenti. Non sarebbe azzardato affermare che la didattica a distanza è anatema alla nostra missione, nella quale si legge che «l’università considera la natura umana spirituale e fisica, razionale e libera». Il nostro approccio si fonda sul dialogo reciproco fra studente e professore che si svolge nell’ambito del locus amoenus incarnato dal campus.
Eppure, i miei stimati colleghi – anche quelli ultrasettantenni – si sono dati da fare per trasformare tutti i corsi in remote classes in una sola settimana, grazie alla loro caratteristica dedizione all’insegnamento. Sono il primo ad ammettere che la didattica a distanza, soprattutto di una lingua, non è l’ideale. Anche quando va bene, è un’impresa stancante, sia fisicamente che psicologicamente. Non sono mai stato così esausto in vita mia: le mie giornate sono diventate un alternarsi di ore passate davanti al computer e faccende domestiche. (Sarà più frustrante l’insegnamento via computer o il figlio di due anni che mi chiede di sbucciargli un’arancia mentre insegno?)
Ma nel vedere le facce dei miei studenti per la prima volta dopo due settimane, e per la prima volta “a distanza”, mi sono reso conto che, proprio come intendeva Boccaccio nel suo Decameron, le lezioni sincroniche servono più che altro come consolazione, un tentativo di ricordarci l’umana cosa, quell’elemento imprescindibile della nostra missione. La comunicazione, anche quella elettronica, ѐ insita dal momento che comunicare deriva dal latino comunis (“condiviso”) e comunis a sua volta è parola composta formata cum e munis (“compiacente, servizievole”). E così mi ci sono tuffato anch’io in questo grande esperimento pedagogico, con tutta l’energia che potessi portare. Da quando ci siamo organizzati per insegnare in rete, ci tengo a vedere e ad “incontrare” i miei studenti; non solo a lezione, ma anche nelle mie ore di ricevimento, adesso virtuali, e anche nelle ore di conversazione che sto organizzando. Come si sente dire ultimamente, ciò che ci occorre intraprendere, almeno per ora, consiste nella distanza fisica, non in quella sociale.
L’accanimento degli eventi sulla vita umana è cosa costante. Ne scriveva a proposito l’Anonimo Romano citando l’Ecclesiaste: «Non è cosa nova sotto lo sole, ché cosa che pare nova stata è». Gli italiani come Dante, Boccaccio e Manzoni, hanno molto da insegnare anche qui in America. Gli studenti statunitensi sono fortunati a essere nutriti con delle idee e dei testi che possono aiutare a riflettere e a convivere con la crisi. Proprio oggi (ndr: il 4 aprile), alcuni di loro hanno scritto e poi condiviso su YouTube una canzone (I Wish I Was at the University of Dallas) che trasmette la loro saudade per i bei tempi della normalità, appena dietro di noi. All’inizio del video, pur se la musica sia di stampo folk-irlandese, si recitano i primi versi della Commedia nella traduzione di Mandelbaum: «When I had journeyed half of our life's way, / I found myself within a shadowed forest, / for I had lost the path that does not stray». Negli Stati Uniti, o almeno qui a Dallas, la cultura italiana sta aiutando a riflettere sul tempo di crisi. Non sappiamo se presto andrà tutto bene né se presto usciremo «a rivedere le stelle», ma nel frattempo possiamo consolarci a vicenda, afflitti e non, adattando al nostro oggi il Dante della Vita nova: «li nomi [non] seguit[a]no le nominate cose», ovvero trovandoci di fronte a una didattica a distanza che non è necessariamente distante.
Appendice: Una email che ho mandato ai miei studenti un paio di settimane fa:
Cari tutti,
Well, even if I – we – had begun preparing for this eventuality, it is still surprising to find ourselves in this new paradigm. Nevertheless, we are going to undertake this grand experiment of online –but not remote (!) – learning together. I recognize that we are all experiencing the emotions that come with external tumult, but be not afraid, for I, your Italian professor, am with you always! (Ok, not always, but during our appointed lesson times and for [now virtual!] office hours!) As the University of Dallas Mission Statement says, “The University seeks to educate its students so they may develop the intellectual and moral virtues, prepare themselves for life and work in a problematic and changing world, and become leaders able to act responsibly for their own good and for the good of their family, community, country, and church.” And so here we are! The aim for the final six or so weeks of the semester is to make a smooth transition into our new, online course. You didn’t sign up for this–neither did I! – but His ways are not ours, after all.
The great Italian writer Giovanni Boccaccio began his Decameron – written, in fact, amidst the Black Death in Florence (1348), which did not just decimate the city, but killed up to 2/3 of its population–thus: “Umana cosa è avere compassione degli afflitti” (It is a most human thing to have compassion for the afflicted.) For the rest of the semester, you are the “afflicted” and so it will be my job to practice “la cosa umana”. Here below will follow a rough outline. The goal is to keep things as simple as possible so that we can concentrate on our job of (1) living and being human even in a time of trouble, and (2) learning Italian. (Believe me, there will still be an Italy after all this!)
Distinti saluti,
Dr. Nussmeier
7 aprile 2020
Anthony Nussmeier
University of Dallas