Ho vissuto e ancora vivo, per le sue durature conseguenze sulla mia terra, il terremoto che ha sconvolto questa parte dell’Emilia nel 2012. E l’oggi, nel tempo del Coronavirus, quando il nostro quotidiano è diventato d’un tratto così difficile e tutti i riferimenti, le abitudini, le sicurezze vengono meno, mi ha fatto ritornare inevitabilmente a quei giorni.
Eppure tutto è diverso da allora: là lo spazio interno – casa, edifici pubblici, fabbriche, scuole – era il pericolo; oggi il pericolo è fuori e la casa è la frontiera, per chi può praticarla, lo spazio protettivo di una sicurezza, per quanto precaria e insidiata.
In quei mesi lontani che ci hanno condotto attraverso l’estate fino a settembre a fare scuola senza la scuola – tutti gli edifici scolastici erano distrutti o inagibili – la dimensione della socialità è stata una necessità di sopravvivenza, ma anche un bisogno profondo. Quello fu, per noi insegnanti e per gli studenti, il ritorno: in tenda e ovunque si potesse, in strutture provvisorie, stare insieme a insegnare e imparare, tentando di riappropriarci appassionatamente della nostra vita.
Fu una difficile normalità quella, in cui potevamo contare solo su noi stessi: la voce, i libri – talvolta nemmeno quelli, irrecuperabili nelle case inagibili – le nostre competenze, il senso di essere una comunità del sapere con un orgoglio più forte della disperazione. La tecnologia in quei giorni non esisteva più, si è trattato di tornare per forza all’essenziale e prenderci misura.
Ho sempre avuto un rapporto agnostico con gli strumenti della multimedialità informatica a scuola: né apocalittica né integrata, li ho considerati strumenti – appunto – anche molto utili e talvolta persino preziosi, ma non ho mai creduto a una trasformazione inevitabilmente positiva dei meccanismi cognitivi e delle forme di apprendimento determinata semplicemente dal loro uso.
Oggi la situazione si presenta in termini opposti: scuola e università chiuse, isolamento forzato, comunicazione mediata, senza alternative possibili, da strumenti tecnologici e informatici raffinatissimi, pur con tutte le difficoltà domestiche che spesso compromettono la virtualità interconnessa di un universo completamente ‘wired’. E certo per fortuna esiste questa tecnologia: ho imparato rapidamente l’essenziale, con molto nervosismo e senso di inadeguatezza, rimproverandomi anche per non aver appreso qualcosa di più in tempi di pace, diciamo così.
C’è in molti di noi – e credo sia un fatto anagrafico – una qualche timidezza rispetto all’uso degli strumenti informatici, la paura di sbagliare. Ma presto ci si rinfranca e tutto fila più o meno liscio: ci si abitua persino, per chi come me si trova a registrare le lezioni, a guardare il proprio volto senza distrarsi e senza perdere il filo, a fare i conti con i propri tic, i vizi espressivi, le ridondanze… La lezione, valida per tutti, è che noi umani siamo una specie adattabile e che, volendolo davvero, si impara a fare tutto. O quasi.
Da sempre la mia quotidianità, anche se non sempre armoniosamente, è scandita da due universi paralleli: il mondo della ricerca scientifica e la collaborazione con l’università, da una parte; il mestiere di insegnante di liceo, dall’altra. Sono universi differenti, come differente è l’esperienza di queste giornate.
Più facile – devo dire – quella della scuola, per la consuetudine dei rapporti e delle conoscenze consolidate che creano un retroterra condiviso, la certezza di una comunicazione che passa e arriva dall’altra parte. La video lezione registrata si integra facilmente con altri canali, questa volta davvero bidirezionali perché gli studenti partecipano intensamente: messaggi WhatsApp, mail, piattaforma Classroom, video chiamate attraverso Meet. E si sperimentano anche modi diversi di ‘socializzazione della cultura’ che soccorrono la loro solitudine generazionale, più forte rispetto a quella di chi, come tanti di noi, è avvezzo al silenzio e alla solitudine dei propri studi. Ed ecco l’apericinema, dove si parla di letteratura e cinema in collegamento video; o i video registrati dagli studenti dedicati a cos’è Dante per loro, giacché non si è potuto celebrare a scuola, come previsto, il primo Dantedì. Modesto artigianato didattico ai tempi del Coronavirus, ma anche qualcosa di nuovo, forse una strada da esperire per il dopo e insieme la sicurezza di un percorso che, in modi diseguali, si continua a portare avanti.
Più difficile per me la dimensione universitaria: dopo anni di collaborazione con diversi colleghi in varie sedi e in una dimensione – per così dire – protetta, mai in prima linea, proprio a marzo 2020 ho iniziato presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali dell’Università di Modena un corso di cui sono titolare. Un insegnamento opzionale e di nuova istituzione, dunque senza un retroterra di tradizioni o esperienze a cui fare riferimento: una specie di esordio da sconosciuta in un ambiente in cui certo ho l’appoggio prezioso di alcuni amici e colleghi, ma in fondo sono nuova e mi muovo con l’incertezza di chi è appena arrivato ed è ospite. I dubbi personali, il mettersi in discussione di fronte alla modesta reattività degli studenti iscritti, sono inevitabili.
In questo momento e in questa particolare condizione lo strumento tecnologico mi appare più che mai un succedaneo della relazione diretta che non è solo una dimensione affettiva, ma anche una situazione di apprendimento fortemente connotata, la verifica quotidiana dell’attendibilità scientifica del proprio lavoro e della propria capacità di mediare conoscenze a un livello che si vorrebbe insieme alto e accessibile. Come fare a trovare la tonalità giusta se dell’interlocutore-destinatario della lezione si conosce poco o nulla?
Luci e ombre, dunque, per quanto ciò che prevale in me è la sensazione di essere in movimento e che la costrizione si stia trasformando in opportunità, in possibilità di mettere in discussione ciò che funziona e ciò che non funziona nel modo in cui provo a fare il mio mestiere, con una attitudine forse più rigorosa e meno incline all’autoindulgenza di quanto non consenta la quotidianità ordinaria. In fondo la resilienza – e non pensavo di doverlo sperimentare di nuovo così presto – è proprio questo.
5 aprile 2020
Liceo Classico-Linguistico “Giovanni Pico”, Mirandola
Università di Modena e Reggio Emilia