Agostino Arciuolo – Didattica allo schermo


Schérmo s. m. [der. di schermire]. – 1. letter. a. Riparo; protezione (s. di protezione), difesa: De l’un de’ lati fanno a l’altro s. (Dante).

Lo schermo, per etimo, è recinto, muraglia, barriera. E, come tutti i recinti e le muraglie e le barriere, ha un di là e un di qua. La parola deriva dal germanico e attiene a un immaginario militaresco, legato al duellare, al combattere. Si pensi alla “scherma”, alle “schermaglie”. A seconda però che ci si trovi di là o di qua, lo schermo può essere riparo o impedimento, elemento di protezione oppure d’intralcio. Tra i più antichi significati della parola “schermo” c’è, non a caso, anche quello di ostacolo.

[…] 2. ant. Ostacolo, barriera; impedimento.

Molti di noi insegnanti, neoassunti o veterani, l’abbiamo percepito o lo stiamo percependo come tale. Di fronte a uno schermo ci siamo sentiti tutti almeno una volta degli Edward mani di forbici tragicamente impediti, impossibilitati al contatto umano (nel senso proprio di con-tatto, quello stesso che, come ci viene detto in tutte le salse ogni santo giorno, occorre evitare il più possibile).

Eppure tutto ciò che facciamo da un po’ di tempo, l’assoluta maggioranza delle nostre azioni quotidiane passa attraverso uno schermo (lo schermo che chi legge ha presumibilmente davanti). Non facciamo che stare ore a muovere gli occhi lungo una superficie più o meno illuminata, alta suppergiù come la nostra testa e larga come le nostre spalle.

[…] 4. a. Schermo di proiezione, superficie piana atta a diffondere l’immagine formata da un apparecchio di proiezione.

Ma lo schermo è riparo, si diceva, se si è al di qua della barricata. E allora mi chiedo: se in aula la barricata è quella fin troppo visibile che esiste tra cattedra e banchi, adesso dov’è? Me lo chiedo io che, da insegnante di sostegno, su quella barricata ci sto seduto tutto il tempo, in quello spazietto di confine tra il di là e il di qua, tra la cattedra e i banchi. Spesso d’intralcio, vicino o davanti all’entrata. Ebbene, quel limbo sottile ora, in rete, sulle piattaforme che abbiamo imparato a conoscere, si configura in una prospettiva nuova, straniante, dislocata.

In aula l’insegnante di sostegno è assorbito dalla costante urgenza di veicolare, facilitare, rendere accessibile, mediare. È un ruolo che richiede il sapersi barcamenare nell’incertezza, nella necessità di porre rimedio all’imprevisto, di reinventarsi all’occasione dattilografo, tecnico informatico, psicologo, applicato di segreteria, inventarista. E di farlo con discrezione, stando scomodi, a volte con le mani legate. È un ruolo che abitua a inghiottire, spesso, il non poterci far niente. Ora, davanti allo schermo, tutto ciò si trasfigura, l’urgenza si sposta su un piano diverso, più radicale: dal come posso fare al cosa posso fare. Se in aula il nostro campo visivo è ampio abbastanza da osservare, intercettare dinamiche più o meno sotterranee, in video è l’atto stesso di osservare che perde il suo senso più genuino. Uno schermo si guarda, si vede: non si osserva.

La compresenza, d’altro canto, non può più essere una com-presenza. È semmai una forma di non-presenza. O, al più, una con-assenza. Oppure è solo una nuova maniera di esserci, di stare al proprio posto. Quale che fosse. Nonostante tutto, comunque.

Mi chiedo perciò dov’è ora, quella barricata su cui di solito sto seduto. Mi guardo intorno e me lo chiedo, me lo chiedo e non me lo so dire. Forse, dico forse, un po’ si sfarina, si divide in tante piccole barricate di una decina di pollici di diametro ciascuna, in tanti schermi e schermetti quanti sono gli account in collegamento (vedi numeretto in alto a destra con annesso elenco, nome e cognome se va bene, due o tre nickname improbabili quando va bene un po’ meno). Così, forse, quella barricata è più bassa, adesso, più debole. Ciò che si sacrifica in termini di vicinanza fisica si guadagna in vicinanza virtuale, alunni e prof uniti nell’emergenza, nella prova di arrangiarsi insieme coi potenti mezzi a disposizione (o con qualche altro mezzuccio, magari più antiquato ma non meno potente).

O forse, al contrario, la barricata si moltiplica, si dilata fino a diventare onnipervasiva, insormontabile. Ognuno a farsi schermo col proprio, ognuno al di qua della sua barriera personale. Noi compresi. “De l’un de’ lati a l’altro schermo”, cantava il poeta.

[…] 5. fig. Modo, mezzo per tenere nascosti i proprî atti e le proprie intenzioni.

Ognuno al di qua, quindi. E spesso con camera e microfono staccati. Il nascondimento è totale, perfetto, “insgamabile” dicono loro. Buio, e silenzio. Quello che in classe farebbero volentieri in molti, specie le volte in cui si interroga: tuffarsi nel buio, sparire nel silenzio. Ora possono, e lo fanno. Anche quando non si interroga. Conoscono il mezzo meglio di noi. Giocano in casa, e non solo perché se ne stanno chiusi nelle loro camerette, sui loro letti o alle proprie scrivanie. Davanti a uno schermo ci sono nati, sanno come adoperarlo. Adottano stratagemmi, piccole furbizie di cui nemmeno, pur sapendolo, ci accorgeremmo mai.

 

Schermare v. tr. [der. di schermo] 1. ant. Difendere, riparare, in senso generico. 2. Riparare, proteggere con uno schermo.

Si schermano, i ragazzi. Non tutti, però. Qualcuno anzi si mostra, si ostenta. Assume pose calcolate, posiziona la camera verso quell’angolo col poster di Achille Lauro in bella vista, in modo che si scorga ma non troppo il proprio outfit primaverile. Ma ogni mostrare è un nascondere, e ogni volta che si mostra qualcosa se ne sta nascondendo un’altra. Le lenzuola con quei motivi floreali tremendi, la sedia coi vestiti sporchi ammonticchiati sopra.

Anche noi nascondiamo. Perché anche noi scegliamo cosa mostrare, di noi e delle nostre case. L’angolo più luminoso in salotto, la libreria sulla parete in fondo. Ognuno di noi nasconde e, a conti fatti, un po’ si nasconde. La pianta appassita, la macchia sul muro. Il sentirsi impacciati, il timore di esserlo. Ci vediamo in alto a destra, piccoli piccoli, a volte sfocati, di sicuro ridimensionati. Siamo abituati a dare per scontata la nostra immagine, e ora ce la vediamo rispedita indietro nella sua limitatezza.

Anche noi dunque ci schermiamo. Voce del verbo “schermare” ma voce del verbo “schermire”, anche. Perché c’è chi si scherma e c’è chi si schermisce.

 

Schermire v. intr. e tr. [dal germ. *skirmjan «proteggere»] – 1. tr. Proteggere; usato quasi soltanto nel rifl.: Se la mia vita da l’aspro tormento Si può tanto s., et dagli affanni (Petrarca). 2. a. Eludere accortamente quanto può costituire motivo di disagio, sottrarsi, esimersi (anche + da).

Tra i ragazzi c’è, ad esempio, chi si schermisce dall’intervenire anche se ha una risposta, dal chiedere anche se ha una domanda. Oppure. Oppure c’è chi usa la chat, chi si sente a suo agio negli ambienti virtuali perché più ordinati, strutturati, preimpostati. C’è chi si trova bene, benissimo a lavorare soltanto in digitale, magari perché l’ha sempre fatto o perché la sua disabilità o il suo disturbo specifico l’ha da sempre costretto a farlo. I più fragili, i più timidi che esplorano nuove forme dell’apprendimento, nella loro stanza finalmente soli, senza fiato sul collo, liberi da sguardi altrui. “Da l’aspro tormento et dagli affanni”, cantava l’altro poeta.

[…] b. sottrarsi a domande o incombenze con abilità.

Ecco. Eppure non abbiamo altro, ora come ora, per continuare a fare il nostro mestiere, per allevare i nostri allievi e alleviare le loro paure. Per restare con loro in con-tatto. To keep in touch dicono gli anglofoni. Parola che, già che siamo in tema, per noi italofoni sta a indicare la possibilità di interagire con uno schermo toccandolo. Tocchiamo schermi touch in continuazione. Abbiamo polpastrelli ormai abituati a sentire liscio, a scorrere pagine, a ingrandire foto tra pollice e indice. È il con-tatto principale che, di questi tempi, abbiamo per non perdere quello col resto del mondo, il mondo che è ancora là fuori, oltre le finestre delle nostre stanze, delle nostre cucine abitabili, dei nostri salotti ben arredati (mentre il pianeta tira un grande, gigantesco sospiro di sollievo).

Finché la sera non lo spegniamo, quello schermo, e restiamo lì a guardarlo per un attimo, prima di massaggiarci gli occhi. Nessuno più, dall’altro lato della barricata. Noi e noi stessi, coi nostri pensieri.

Lo schermo è nero, quando è spento. È nero e riflette la nostra immagine, è specchio. Uno specchio nero. Black mirror è il titolo di una fortunata serie tv britannica che mostra scenari distopici in cui l’abuso umano di tecnologia porta a degenerazioni drammatiche, angosciose, talvolta orrorifiche. Viene in mente anche il finale di quel racconto di Asimov, “Chissà come si divertivano”, che da oggi ha un portato di senso ulteriore.

Eppure, si diceva, non abbiamo altro. Così l’indomani mattina lo schermo si riaccende. Basta una leggera pressione col dito, la delicatezza di un tocco. E subito di nuovo, immancabili, tutti al di qua della barricata, riprovando a smontarla, noi Edward mani di forbici alle prese col nostro dovere impossibile: insegnare.

 

4 Aprile 2020

 

Agostino Arciuolo

Liceo Classico “Luigi Galvani” Bologna