Il seguente glossario non ha nessuna pretesa di esaustività, si limita a presentare alcune pratiche che compongono il fenomeno della violenza digitale di genere.
Con il termine "violenza di genere facilitata dalla tecnologia" o Cyber-VAWG (Cyber Violence Against Women and Girls) ci si riferisce generalmente a una forma di violenza di genere che si manifesta nello spazio digitale attraverso atti di abuso, intimidazione e discriminazione, riproducendo e amplificando le disuguaglianze di genere già presenti nella società offline (EIGE, 2017; Parlamento Europeo, 2021). La letteratura esistente suggerisce che la violenza digitale colpisce in modo sproporzionato le giovani donne e le ragazze (Cuenca-Piqueras et al., 2020; CYBERSAFE Project, 2020; Fansher & Randa, 2019), e può essere perpetrata da una varietà di soggetti (Parlamento Europeo, 2021), tra cui familiari, conoscenti, ex o attuali partner, colleghi di lavoro, compagni di classe e utenti anonimi della rete.
Nello spazio digitale le donne sono costantemente esposte a forme di umiliazione semplicemente per la loro presenza online (Bainotti & Semenzin 2021; Eikren, Ingram-Waters 2016; Goulds et al. 2020; Morahan-Martin 2000). Inolte, la Cyber-VAWG è connotata da un continuum tra vita online e offline: le donne che subiscono violenza offline sono spesso vittime anche di comportamenti violenti online (FRA 2018). Come avviene offline, la Cyber-VAWG si manifesta in molteplici modalità, tra le quali hate speech, body-shaming, slut-shaming, doxing, cyberstalking, sextortion, gender trolling, violenza sessuale facilitata dalla tecnologia e la diffusione non consensuale di immagini intime (revenge porn), riproducendo i sistemi di disuguaglianza strutturali della società (Gius, 2021; Jane, 2016; 2017; Morahan-Martin 2000).
Gli atti di Cyber-VAWG sono caratterizzati da un’elevata riproducibilità, personalizzazione e diffusione, peculiarità tipiche dei contenuti digitali (Jenkins, Ford, Green 2006). Le vittime di abusi informatici sono spesso prive di strumenti di difesa, specialmente in assenza di adeguati quadri legislativi e sistemi di protezione. Questo ha conseguenze concrete sul benessere delle vittime, che possono vivere situazioni di depressione e autolesionismo, arrivando, in alcuni casi, persino al suicidio (Citron, Franks 2014; Vakhitova et al. 2021). Inoltre, si riscontrano importanti ripercussioni sulla parità di genere, incidendo negativamente sulla partecipazione delle donne e delle ragazze al dibattito pubblico (ElSherief et al. 2017), con l’impiego dell’autocensura come strategia preventiva (EIGE 2017).
Bibliografia
Bainotti, L., & Semenzin, S. (2021). Violenza di genere online: il ruolo delle piattaforme digitali e la misoginia nella manosphere. In Cannito, M., & Bainotti, L. (Eds.), Genere e tecnologia: nuove frontiere della violenza e della discriminazione. Milano: FrancoAngeli
Citron, D. K., Franks, M. A. (2014). Criminalizing revenge porn. Wake Forest
Cuenca-Piqueras, C., Fernández-Prados, J. S., & González-Moreno, M. J. (2020). Face-to-face versus online harassment of European women: Importance of date and place of birth. Sexuality & Culture, 24(1),157-173.
CYBERSAFE project (2020). Cyber Violence against Women & Girls Report: Changing Attitudes among teenagers on Cyber-VAWG.
EIGE (2017). Cyber violence against women and girls.
European Parliament (2021). Combating gender-based violence: Cyber violence.
Eikren, E., Ingram-Waters, M. (2016). Dismantling ‘You get what you deserve’: Towards a feminist sociology of revenge porn. Ada: A Journal of Gender, New Media, and Technology,10,1–18
ElSherief, M., Belding, E., & Nguyen, D. (2017). #notokay: Understanding gender-based violence in social media. In Eleventh international AAAI conference on web and social media
Fansher, A. K., & Randa, R. (2019). Risky social media behaviors and the potential for victimization: A descriptive look at college students victimized by someone met online. Violence and Gender,6,115–123
FRA, 2018. Fundamental rights report (2018).
Gius, C. (2021). Addressing the Blurred question of 'responsibility': insights from online news comments on a case of nonconsensual pornography. Journal of Gender Studies,31(2), 193-203
Goulds et al. (2020). Free to be online? Girls’ and young women’s experiences of online harassment.
Jane, E. A. (2016). Misogyny online. A short (and brutish) history. London: Sage
Jane, E. A. (2017). ‘Dude stop the spread’: antagonism, agonism, and# manspreading on social media. International Journal of Cultural Studies, 20(5), 459-475
Jenkins, H., Ford, S., & Green, J. (2013). Spreadable media: Creating value and meaning in a networked culture. New York: NYU Press
Morahan-Martin, J. (2000). Women and the internet: Promise and perils. CyberPsychology& Behavior,3(5),683–691
Vakhitova, Z. I., Alston-Knox, C. L., Reeves, E., & Mawby, R. I. (2021). Explaining victim impact from cyber abuse: An exploratory mixed methods analysis. Deviant Behavior. Advance online publication.
Il termine "hate speech" indica generalmente i discorsi che esprimono odio e intolleranza verso una persona o un gruppo, e che rischiano di provocare reazioni violente (Pino 2008), colpendo in particolare soggetti storicamente vulnerabili come donne e minoranze e contribuendo alla loro esclusione sociale (Waldron, 2012).
Benché il concetto sia generalmente riferito ai discorsi consumati in contesti digitali, una prima definizione è rintracciabile già nella Raccomandazione n. 20 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 19971, la quale afferma che:
«Il termine hate speech deve essere inteso come l’insieme di tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo e altre forme di odio basate sull’intolleranza e che includono l’intolleranza espressa attraverso il nazionalismo aggressivo e l’etnocentrismo, la discriminazione e l’ostilità contro le minoranze, i migranti e i popoli che provengono dai flussi migratori».
Con l’affermazione di Internet e successivamente dei social media, l’hate speech assume nuove specificità. L’UNESCO individua quattro differenze essenziali tra i discorsi d’odio che si diffondono attraverso il web e quelli “tradizionali” (Gagliardone et al., 2015):
1) La persistenza per lunghi periodi e attraverso formati diversi (piattaforme, app di messagistica, contenuti fotografici o video, etc.), viaggiando in maniera trasversale attraverso il web;
2) La possibilità che attraverso la rete una manifestazione d’odio possa essere recuperata nuovamente mediante una differente piattaforma;
3) La possibilità che l’anonimato consenta agli autori di hate speech di sentirsi protetti e a proprio agio nell’agire dietro ad uno schermo;
4) La capacità di travalicare i confini nazionali, elemento che pone complicazioni nell’individuazione dei meccanismi giuridici per contrastarlo (Ziccardi 2020).
Note
1: https://rm.coe.int/1680505d5b
Bibliografia
Gagliardone, I., Gal, D., Alves, T., Martinez, G. (2015), Countering online hate speech, in https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000233231
Pino, G. (2008), Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Politica del Diritto, XXXIX, 2, pp. 287-305
Waldron, J. (2012), The Harm in Hate Speech, Cambridge University Press
Ziccardi, G. (2016) L'odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, Raffaello Cortina Editore, Milano
Il body shaming è un fenomeno che implica la ridicolizzazione, il disprezzo o la svalutazione di un individuo in base alle sue caratteristiche fisiche, come quelle relative al peso, alla forma del corpo, alla pelle, ai tratti somatici e agli altri attributi estetici considerati "non conformi" agli standard socialmente ed esteticamente accettati (Grabe, Ward, & Hyde, 2008). Le donne sono fatte particolarmente oggetto di body shaming, in quanto oggetto di maggiore scrutinio rispetto agli uomini, con un'attenzione prevalente alla magrezza e alla giovinezza come criteri di bellezza.
La radice del body shaming è da rintracciarsi in una serie di norme culturali e sociali che promuovono la conformità agli standard di bellezza tradizionali come la magrezza e l'aspetto giovane (Cash & Smolak, 2011). L'elevata pressione per adeguarsi a questi ideali estetici crea un ambiente in cui le persone che non rientrano in tali parametri sono frequentemente oggetto di critica e disprezzo. In tale contesto, gli ambienti digitali rivestono un ruolo centrale: le rappresentazioni mediatiche dei corpi, sia in pubblicità che nei social network, rafforzano costantemente determinati ideali estetici, aumentando la pressione su individui che non rispondono a tali modelli. In particolare, l'uso dei social media è emerso come un fattore cruciale nell'intensificare il body shaming, attraverso la condivisione di immagini idealizzate e la promozione di un'estetica che esclude la diversità fisica (Fardouly et al., 2015).
Dal punto di vista degli effetti, il body shaming rappresenta una forma di violenza psicologica che incide negativamente sull'autostima, sulla salute mentale e sul benessere dei soggetti coinvolti. Le vittime di body shaming sono, infatti, frequentemente vulnerabili a problemi psicologici come depressione, ansia, dismorfofobia, e disturbi alimentari (Tiggemann & Slater, 2014). Il body shaming contribuisce, dunque, a una cultura della vergogna, che spinge gli individui a nascondere il proprio corpo per evitare il giudizio esterno.
Bibliografia
Cash, T. F., & Smolak, L. (2011). Body Image: A Handbook of Theory, Research, and Clinical Practice. The Guilford Press
Fardouly, J., Diedrichs, P. C., Vartanian, L. R., & Halliwell, E. (2015). Social comparisons on social media: The impact of Facebook on young women's body image concerns and mood. Body Image, 13, 38-45
Grabe, S., Ward, L. M., & Hyde, J. S. (2008). The role of the media in body image concerns among women: A meta-analysis of experimental and correlational studies. Psychological Bulletin, 134(3), 460–476
Tiggemann, M., & Slater, A. (2013). NetGirls: The Internet, Facebook, and body image concern in adolescent girls. International Journal of Eating Disorders, 46(6), 630-633.
La diffusione non consensuale di materiale intimo (CNCMI) consiste nella distribuzione di contenuti visivi (immagini, video) di natura intima e personale senza il consenso delle persone ritratte (Citron & Franks, 2014).
Questo tipo di abuso include sia la diffusione di immagini intime ottenute senza consenso, sia quella di immagini originariamente ottenute consensualmente, generalmente nell'ambito di relazioni intime. Quando la diffusione riguarda immagini trasmesse in maniera consensuale da un partner intimo a un altro si parla di “Revenge porn”, benché l’impiego di questo termine sia considerato fuorviante. Il termine Revenge porn associa, infatti, l'azione intenzionale e consapevole di diffondere materiale intimo al fine di danneggiare il soggetto ritratto con i concetti di vendetta e pornografia, i quali da un lato suggeriscono una giustificazione per l'autore (la vendetta, in genere per il termine di una relazione), e dall'altro costituiscono una forma di vittimizzazione della persona esposta. L'impiego della parola “pornografia” per riferirsi a immagini sessualmente esplicite suggerirebbe una volontà di esposizione pubblica da parte del soggetto ritratto, benché tali contenuti non siano stati consapevolmente prodotti con l'intento di una diffusione pubblica.
La diffusione non consensuale è connotata da quattro elementi principali:
1) L'assenza di consenso della persona ritratta, la quale non ha autorizzato la diffusione del materiale;
2) Il contenuto diffuso riguarda atti sessuali, nudità o situazioni private originariamente prodotte per rimanere tali;
3) L'azione è destinata a umiliare, ricattare o vendicarsi della vittima;
4) La condivisione non consensuale di materiale intimo provoca gravi danni alla vittima, tra i quali danni psicologici (ansia, depressione, disturbo da stress post-traumatico, tendenze suicide), danni sociali (stigmatizzazione, perdita della reputazione, isolamento), danni professionali (licenziamento o difficoltà a trovare lavoro) e difficoltà legali (difficoltà di rimozione dei contenuti, con conseguente difficoltà ad ottenere il diritto all'oblio).
In Italia la diffusione non consensuale di materiale intimo è considerata reato a partire dall’articolo 612-ter del codice penale, introdotto dalla Legge n.69 del 19 luglio 2019, nota anche come "Codice rosso"1.
Note
1: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/07/25/19G00076/sg
Bibliografia
Citron, D. K., & Franks, M. A. (2014). Criminalizing revenge porn. Wake Forest L. Rev., 49, 345.
Il cyber-stalking è una forma di persecuzione che avviene attraverso mezzi digitali e tecnologici. Si manifesta con comportamenti ripetuti e perpetrati da parte di una stessa persona nei confronti di un'altra, con l'intento di molestarla, intimidirla, perseguitarla, spiarla, esercitare una forma di controllo, o stabilire comunicazioni o contatti indesiderati con lei, mettendo in atto comportamenti dannosi che la fanno sentire minacciata, angosciata o insicura in molteplici circostanze. Questo fenomeno è spesso legato alla violenza di genere: si manifesta per lo più a scapito di donne, che in ragione del genere o per una combinazione di genere e altri fattori, sono perseguitate da uomini mossi da un senso di possesso o da dinamiche di potere. Un’indagine condotta dall’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali nel 2014 ha rilevato che il 5% delle donne in Europa ha subito stalking online almeno una volta nella vita. Inoltre, il cyber stalking rientra tra le dinamiche di controllo coercitivo utilizzate nella violenza in relazioni di intimità. Infatti, su 10 donne che hanno subito cyber stalking, 7 hanno subito anche almeno una forma di violenza fisica e/o sessuale da parte di un partner intimo (FRA 2014).
Questo fenomeno può articolarsi tramite diverse forme di controllo, come l’installazione non dichiarata sul dispositivo della persona presa di mira di app per monitorarne e tracciarne gli spostamenti, le attività e le interazioni sociali, oppure attraverso sistemi di hacking o cracking del dispositivo della stessa per accedere, in maniera non consensuale, alle sue comunicazioni personali o ai dati registrati sul dispositivo o online. Si include tra le pratiche anche il controllo da remoto di webcam e l’uso di dispositivi intelligenti per ascoltarne le conversazioni. Infine si può manifestare anche tramite una presenza pervasiva e invadente sui social: gli account social della donna possono essere monitorati, con la pubblicazione di commenti sotto i suoi post, l'iscrizione agli stessi gruppi, l'aggiunta di tag ossessivi, anche tramite account falsi.
Il cyber stalking è un fenomeno che può avere conseguenze gravi sulla salute mentale e il benessere emotivo della persona che lo subisce, che può sentirsi imprigionata e privata della propria libertà, oltre che in uno stato di ansia e angoscia reiterata. L'anonimato e l'accesso immediato garantiti da Internet amplificano la portata della violenza, rendendo più difficile sfuggire al controllo dello stalker. La costante sensazione di essere sorvegliate online può portare a livelli elevati di stress e tensione. Inoltre, questa violenza può costringere la donna colpita a modificare alcuni suoi comportamenti e abitudini, sia in ambiente digitale che in quello fisico, per evitare ogni contatto con il cyberstalker; potrebbe anche essere necessario cambiare numero di telefono o chiudere profili sui social media, per preservare la propria sicurezza. Si tratta dunque di un fenomeno che incide negativamente sulla possibilità che le donne hanno di godere dei propri diritti individuali.
In Italia, il cyberstalking è considerato un reato e rientra nella categoria degli "Atti persecutori". È regolamentato dall'articolo 612-bis1 del Codice Penale, introdotto con la Legge n. 39 del 2009. La Corte Suprema ha affermato che "le molestie perpetrate nel mondo virtuale del Web hanno la stessa rilevanza penale di quelle nel mondo reale.” Tuttavia, le leggi e i meccanismi di protezione non sempre sono adeguati a fronteggiare la velocità e la complessità del mondo digitale, lasciando le vittime in una condizione di vulnerabilità ancora maggiore.
Note
1: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale
Bibliografia
EIGE (2022). Cyber Violence against Women and Girls: Key Terms and Concepts
FRA (2014). Violence against women: an EU-wide survey. Main results report
La pratica del doxing consiste nella pubblicazione e diffusione intenzionale e non consensuale di informazioni personali di un individuo su internet, come per esempio nome, numero di telefono, indirizzo e-mail e indirizzo di residenza. Questi dati possono essere già disponibili online, ma in forme che ne limitano l’accesso o li rendono difficili da individuare. Il termine doxing, noto anche come doxxing o d0xing, deriva dall’espressione dropping documents o dropping dox (rilasciare documenti) e affonda le sue radici nella cultura hacker degli anni ’90, quando veniva utilizzato per rivelare l'identità di persone fino a quel momento anonime. Oggi, il doxing è diventato uno strumento di violenza digitale, capace di trasformare la vita privata di una persona in un bersaglio pubblico, violandone la privacy ed esponendola a possibili molestie. Questo fenomeno colpisce in modo sproporzionato le donne, che diventano vittime di attacchi mirati con l'intento di intimidirle, zittirle o danneggiarle. Spesso, inoltre, il doxing avviene nel contesto di violenza nelle relazioni intime.
È possibile distinguere tre principali tipologie di doxing:
Il doxing rappresenta una chiara violazione del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR)1 dell'Unione Europea, che tutela la privacy e i dati personali dei cittadini. Secondo il GDPR, la divulgazione non autorizzata di informazioni personali, soprattutto se sensibili, costituisce un illecito che può comportare sanzioni legali e amministrative. L'articolo 5 del GDPR stabilisce come principi fondamentali la limitazione della finalità e la protezione dei dati personali, entrambi violati nel caso di doxing. Al di là del quadro giuridico, parlare di doxing è importante poiché si tratta di una forma di violenza, le cui ripercussioni possono essere molto estese. Per esempio, le persone colpite da doxing posso trovarsi in uno stato di vulnerabilità costante e di disagio psicologico per la paura di essere rintracciate o minacciate da persone che possiedono, senza il loro consenso, le loro informazioni private. Questo può portare anche a una limitazione della libertà di espressione di donne e ragazze che, temendo per la propria privacy o incolumità, possono auto-censurarsi o sottrarsi dalle conversazioni. Inoltre, la mancanza di controllo sui propri dati, la propria immagine e la propria reputazione può tradursi in una riduzione della stima individuale, oltre che ripercuotersi in un senso di disagio nella sfera delle relazioni quotidiane.
Secondo un rapporto del Pew Research Center, circa il 21% degli utenti internet ha subito una qualche forma di doxing. Sono pochi i dati esistenti che permettono di analizzare il fenomeno del doxing in un’ottica di genere. Uno studio di Amnesty International condotto con 4000 donne di età compresa tra i 18 e i 55 anni in otto paesi diversi (Danimarca, Italia, Nuova Zelanda, Polonia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Stati Uniti d’America) ha mostrato che il 26% delle donne intervistate sono state vittime di doxing.
Note
1: Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR)
Bibliografia
Douglas, D. M. (2016). Doxing: A conceptual analysis. Ethics and information technology, 18(3), 199-210.
Amnesty International Italia. (2017). https://www.amnesty.it/ricerca-amnesty-international-rivela-limpatto-allarmante-delle-molestie-online-le-donne/
Il termine "sex-tortion" si riferisce alla minaccia di diffondere, tramite la tecnologia, immagini sessualmente esplicite di una persona, per costringerla a soddisfare determinate richieste, come la condivisione di ulteriori immagini intime, l’esecuzione di atti indesiderati o il pagamento di un riscatto. Si tratta di una forma di violenza che può verificarsi in diversi contesti, tra cui l’abuso da parte di un partner intimo, il cyberbullismo, l’outing di persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ o sex-workers, gli incontri online, il traffico sessuale, lo sfruttamento sessuale online dei minori, l’hacking informatico e la criminalità organizzata. Spesso, una persona, falsificando la propria identità, contatta la persona presa di mira, stabilisce con lei una relazione e ottiene delle immagini, la cui diffusione sarà poi oggetto di ricatto.
Sono maggiormente le donne che vivono questo tipo di violenza. Infatti, questa pratica include anche una dimensione di violenza di genere, non solo perché la sex-tortion può verificarsi in contesti di abuso in relazioni di intimità, ma anche perché le immagini intime hanno un forte impatto a causa della vergogna e dello stigma associati al genere e alla sessualità delle donne.
Bibliografia
EIGE (2022). Cyber Violence against Women and Girls: Key Terms and Concepts
Il gender trolling è una forma di molestia o abuso online che si concentra specificamente sul genere della vittima, con l’obiettivo di insultare, intimidire, umiliare o danneggiare psicologicamente la persona presa di mira. Si tratta di un fenomeno orientato particolarmente verso le donne e le persone non conformi alle norme di genere, e può includere insulti sessisti, minacce di violenza sessuale, body shaming, e altre forme di violenza psicologica.
Secondo Mantilla (2013), il gender trolling si distingue dalle forme più generiche di trolling per la sua intensità, persistenza e per l'uso di minacce esplicite, che spesso includono riferimenti a violenza sessuale, insulti sessisti e pratiche come il doxxing, e la diffusione non consensuale di informazioni personali della vittima. Erin Jane (2017) sottolinea come il gender trolling non sia un semplice comportamento provocatorio, ma una vera e propria strategia volta a silenziare le donne e le persone non conformi alle norme di genere tradizionali, soprattutto se attive in ambiti pubblici come il giornalismo, la politica e l'attivismo. Questo fenomeno viene amplificato dalle dinamiche di anonimato e viralità delle piattaforme digitali: Citron (2014) lo inserisce, infatti, all’interno di una più ampia categoria di crimini d’odio in rete, evidenziando come le minacce online abbiano un impatto tangibile sulla vita delle vittime, portandole a modificare il proprio comportamento, a limitare la loro presenza nello spazio pubblico e, in molti casi, ad abbandonare determinate carriere o attività per paura di ulteriori attacchi.
Il gender trolling si manifesta attraverso una serie di specifiche caratteristiche, che spesso si sovrappongono e si rafforzano a vicenda:
1) Insulti sessisti e minacce di violenza: le vittime vengono prese di mira con insulti che sottolineano il loro genere e la loro sessualità, con espressioni che mirano a delegittimarle o a sminuirne le competenze. Frequenti sono anche le minacce di stupro o di morte, usate come strumenti di intimidazione.
2) Coordinazione e persistenza: a differenza del trolling generico, il gender trolling è spesso organizzato e coinvolge gruppi di persone che si coordinano per attaccare una vittima in maniera sistematica. Questo tipo di molestie può protrarsi per lunghi periodi di tempo, con ripercussioni devastanti sulla salute psicologica delle vittime.
3) Doxxing e diffusione non consensuale di materiale intimo: una delle tattiche più gravi è la pubblicazione di informazioni private con l’obiettivo di esporre la vittima a pericoli tangibili nel quotidiano. Può includere anche la diffusione non consensuale di materiale intimo, aggravando il danno psicologico, sociale e di immagine.
4) Effetti di censura sociale: il gender trolling non ha solo un impatto individuale, ma contribuisce a rafforzare la disuguaglianza di genere, escludendo le vittime dal dibattito pubblico e limitando la loro libertà di espressione. Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle campagne d’odio rivolte a personaggi pubblici.
Bibliografia
Citron, D. K. (2014). Hate Crimes in Cyberspace. Harvard University Press.
Jane, E. A. (2017). Misogyny Online: A Short (and Brutish) History. SAGE.
Mantilla, K. (2013). Gendertrolling: Misogyny Adapts to New Media, Feminist Studies , 2013, Vol. 39, No. 2, A SPECIAL ISSUE: CATEGORIZING SEXUALITIES, pp. 563-570
Il termine "deepfake" si riferisce a una tecnologia basata su intelligenza artificiale e machine learning che permette di creare video, immagini o audio emulando con grande precisione le caratteristiche fisiche e comportamentali di una persona (Chesney & Citron, 2019; Maras & Alexandrou, 2018). La tecnica si avvale di algoritmi di deep learning che sono in grado di apprendere dalle caratteristiche visive e sonore di una persona per produrre contenuti estremamente realistici, lasciando scarse tracce di manipolazione (Chawla, 2019). I contenuti così prodotti risultano visivamente e sonoramente convincenti, rendendo difficoltosa la distinzione tra materiale autentico e falsificato.
Il fenomeno del deepfake ha sollevato preoccupazioni a livello globale, in particolare per l'uso improprio nel contesto della disinformazione, delle frodi digitali, e, in modo allarmante, nella violenza di genere (Parlamento Europeo, 2021). Secondo quanto dichiarato dal parlamento europeo, la tecnologia impiegata per la generazione di deepfake a contenuto sessuale è prevalentemente sviluppata per la manipolazione di immagini di corpi femminili, fenomeno esacerbato dalla maggiore accuratezza da parte dei sistemi di rilevamento nell’identificazione di volti maschili rispetto a quelli femminili, limitando l’efficacia degli strumenti di contrasto. La diffusione di contenuti sessualmente espliciti falsi e non consensuali ritraenti donne e ragazze costituisce uno strumento di violenza online, che agisce ai confini di diffamazione, estorsione e intimidazione, danneggiando la reputazione, la dignità e la privacy delle vittime adulte e minori. La società di ricerca Sensity AI1 stima che tra il 90% e il 95% di tutti i deepfake riguardino la pornografia non consensuale. La diffusione di tali contenuti falsificati può agire in maniera consistente sulla salute psicofisica dei soggetti ritratti, anche a causa della pervasività, transmedialità e della difficoltà di eliminazione degli stessi dalla rete (per approfondimenti, si veda la scheda “Diffusione non consensuale di materiale intimo”).
A rendere questo tipo di violenza trasversale, diffusa e pervasiva è l’accessibilità, in modalità open source, ai software per la creazione di deepfake realistici e di alta qualità, consentendo anche a utenti con limitate competenze tecniche e senza alcuna esperienza artistica di modificare materiale audio-video con estrema precisione, sostituire volti, alterare espressioni e sintetizzare voci (Westerlund, 2019).
Dal punto di vista giuridico, la rapida diffusione dei deepfake ha sollevato importanti sfide legali, specialmente per quanto riguarda la protezione della privacy e la tutela dei diritti delle donne. A livello europeo, il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR)2 stabilisce delle linee guida per la protezione dei dati personali, ma l'emergere dei deepfake ha messo in luce l'urgenza di una normativa più mirata per contrastare la diffusione non consensuale di contenuti manipolati. In Italia, nel 2019 con l’introduzione del Codice Rosso (Legge n. 69 del 19 luglio 2019)3 è stato introdotto all’interno del Codice Penale l'articolo 612-ter, che penalizza la diffusione non autorizzata di immagini o video sessualmente espliciti, ma non affronta ancora in maniera specifica i rischi legati ai deepfake.
Note
1: Georgio Patrini, Mapping the Deepfake Landscape, Sensity (blog), October 7, 2019.
2: Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR)
3: Articolo 612 ter. Codice penale
Bibliografia
Chawla, R. 2019. Deepfakes: How a pervert shook the world. International Journal of Advance Research and Development, 4(6): 4–8.
Chesney, R., Citron, D. K. (2019). Deep Fakes: A Looming Challenge for Privacy, Democracy, and National Security. 77 Maryland Law Review, 1-40
European Parliament (2021). Tackling deepfakes in European policy.
Maras, M. H., Alexandrou, A. (2019). Determining authenticity of video evidence in the age of artificial intelligence and in the wake of Deepfake videos. International Journal of Evidence & Proof, 23(3): 255–262
Westerlund, M. (2019). The emergence of deepfake technology: A review. Technology innovation management review, 9(11).
Con il termine "upskirting" ci si riferisce a una forma di violenza di genere facilitata dalla tecnologia che consiste nell’acquisizione non consensuale di immagini o video delle parti intime di una persona, generalmente di sesso femminile e in contesti in cui la vittima non si aspetterebbe di essere esposta (McGlynn & Rackley, 2017; Henry et al., 2020). Tale pratica è perpetrata attraverso dispositivi, quali smartphone o microcamere nascoste, ed è finalizzata alla diffusione online o alla condivisione tra gruppi privati, contribuendo alla mercificazione e all'oggettivazione del corpo femminile.
Studi recenti evidenziano che l’upskirting ha gravi conseguenze psicologiche, tra cui ansia e depressione; inoltre, la difficoltà perdita di fiducia nelle istituzioni e riduzione della partecipazione alla vita pubblica e digitale (Powell & Henry, 2017; Powell, Henry & Flynn, 2019; Henry & Flynn, 2020). Inoltre, il fenomeno è spesso minimizzato dai media e dalla società, perpetuando una cultura della tolleranza nei confronti delle molestie sessuali (McGlynn et al., 2019).
In ambito europeo, la Direttiva 2011/93/UE sulla lotta contro l'abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori menziona la necessità di criminalizzare le condotte di registrazione illecita, ma non affronta esplicitamente il fenomeno dell'upskirting. In Italia, non esiste una norma specifica che disciplini l’upskirting, ma il fenomeno può essere perseguito attraverso l’art. 612-ter del Codice Penale introdotto dalla Legge n. 69/2019 (Codice Rosso)1, che punisce la diffusione illecita di immagini intime. Tuttavia, l’assenza di una previsione esplicita lascia margini di interpretazione e ostacola l'efficacia della protezione giuridica per le vittime (Commissione Femminicidio, 2020).
Note
1: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/07/25/19G00076/sg
Bibliografia
Commissione Femminicidio, (2020). Misure per rispondere alle problematiche delle donne vittime di violenza, dei centri antiviolenza, delle case rifugio e degli sportelli antiviolenza e antitratta nella situazione di emergenza epidemiologica da COVID-19.
Flynn, A., Powell, A., & Henry, N. (2021). Image-Based Sexual Abuse: An International Overview. Journal of Criminology, 54(2), 134–152
Henry, N., Flynn, A. (2020). Image-Based Sexual Abuse: A Feminist Criminological Approach. Routledge.
Henry, N., Flynn, A., & Powell, A. (2020). Technology-Facilitated Sexual Violence: A Framework for Understanding Perpetration and Victimization. New Media & Society, 22(7), 1344–1365.
McGlynn, C., & Rackley, E. (2017). Image-Based Sexual Abuse. Oxford Journal of Legal Studies, 37(3), 534–561.
McGlynn, C., Rackley, E., & Houghton, R. (2019). Beyond ‘Revenge Porn’: The Continuum of Image-Based Sexual Abuse. Feminist Legal Studies, 27(1), 25–46.
Powell, A., Henry, N. (2017). Sexual Violence in a Digital Age. Palgrave Macmillan.
Powell, A., Henry, N., Flynn, A. (2019). The Role of Digital Platforms in Facilitating Image-Based Sexual Abuse. Journal of Criminology, 52(3), 276–292.
Il catcalling è riconosciuto come una forma di violenza di genere e molestia sessuale che colpisce donne e ragazze negli spazi pubblici (Fileborn & O’Neill, 2021), ed è pertanto spesso definito “molestia di strada”. Sebbene non esista ancora una definizione univoca del fenomeno (Logan, 2015), esso può essere descritto come un insieme di comportamenti verbali e non verbali, tra cui commenti valutativi e oggettivanti, fischi, rumori, sguardi insistenti, gesti sessualizzanti e, in alcuni casi, persino il pedinamento della vittima. Queste condotte, generalmente messe in atto da sconosciuti, mirano a enfatizzare la dimensione sessualizzata del corpo femminile (Walton & Pedersen, 2021; Chaudoir & Quinn, 2010).
Nonostante il numero limitato di studi sul tema, la letteratura esistente evidenzia come le molestie di strada costituiscano un fenomeno diffuso e sistemico, con implicazioni su scala globale e trasversali rispetto a età e contesto socio-culturale. Le vittime possono sperimentare una gamma di reazioni emotive, tra cui paura, disagio e vergogna. La difficoltà di definire il fenomeno deriva anche dalla sua natura soggettiva e situata: la percezione della molestia dipende fortemente dal contesto e dall’esperienza individuale della vittima. Inoltre, la normalizzazione culturale, la tendenza a banalizzare il fenomeno e il minor controllo sulle interazioni negli spazi pubblici rispetto a quelli privati contribuiscono alla sua persistenza (Gray, 2016).
La limitata attenzione accademica al catcalling favorisce la marginalizzazione delle esperienze delle donne, che spesso si trovano costrette a sviluppare autonomamente strategie per evitare o mitigare il disagio generato da tali episodi (Farmer & Smock Jordan, 2017).
Bibliografia
Chaudoir, S. R., Quinn, D. M. (2010). Bystander Sexism in the Intergroup Context: The Impact of Cat-calls on Women’s Reactions Towards Men. Sex Roles, Vol. 62, 623 634
Farmer, O., Smock Jordan, S. (2017). Experiences of Women Coping With Catcalling Experiences. Journal of feminist therapy, Vol. 29, No. 4, 205-225
Fileborn, B., O'Neill, T. (2021). From “Ghettoization” to a Field of Its Own: A Comprehensive Review of Street Harassment Research. Trauma, Violence, & Abuse, Vol. 22, 1-14
Gray, V. F. (2016). Men's stranger intrusions: rethinking street harassment. Women's studies international forum, Vol. 58, 1-20.
Logan, L.S. (2015). Street Harassment: Current and Promising Avenues for Researchers and Activists. Sociology Compass, 9, 196-211
Walton, K. A., & Pedersen, C. L. (2021). Motivations Behind Catcalling: Exploring Men’s Engagement in Street Harassment Behaviour. Psychology & Sexuality, 1–15.