Visioni soniche: viaggio afrofuturista negli abissi dell’Atlantico

Federica Fontanesi

Fra le tante avanguardie del Novecento si individua un nesso comune che guarda alla tecnologia con interesse e fascinazione. Ma se la maggior parte di queste si pone in rottura con il passato, cancellando la memoria della tradizione, l’afrofuturismo si muove in direzione contraria. Pur utilizzando gli stessi strumenti, l’avanguardia afroamericana si proietta nel futuro recuperando dal passato quell’identità troppo a lungo negata.

 

1. Di cosa si parla quando si parla di afrofuturismo

2. Un’alternativa al presente

3. Techno City

4. Il mito di Drexciya

5. Bibliografia e sitografia

 

1. Di cosa si parla quando si parla di afrofuturismo

ll termine “afrofuturismo” viene usato per la prima volta dal critico letterario Mark Dery nel suo saggio del 1993 “Black to the Future: Interviews with Samuel R. Delany, Greg Tate, and Tricia Rose” per descrivere tutte quelle opere che esplorano tematiche di interesse per la comunità afroamericana in the context of twentieth-century technoculture (Dery, 1994:180). Più in generale, Dery si riferisce a tutte quelle forme d’arte di forte impronta afroamericana che si proiettano in un futuro aumentato (a prosthetically enhanced future) attraverso la tecnologia e il suo immaginario: 

 

African-American voices have other stories to tell about culture, technology, and things to come. If there is an Afrofuturism, it must be sought in unlikely places, constellated from far-flung points. (Dery, 1994:182)

 

Come suggerisce l’autore, la fantascienza è il medium letterario ideale per trattare il tema dell’incontro con l’Altro, the stranger in a strange land. La letteratura di fantascienza, infatti, spesso racconta condizioni di subalternità e di alienazione che, come fa notare Dery, sotto diversi punti di vista ricordano la traumatica esperienza di migrazione forzata dei prigionieri africani verso le Americhe. Inoltre, molti esperti concordano nell’interpretare la figura dell’alieno come metafora per indicare l’incombente presenza dell’alterità, di una minaccia, un’idea che al tempo stesso viene perpetuata dal concetto di ‘razza’, come sottolineato anche in studi recenti da Attimonelli:

 

Afrofuturismo: termine di recente adozione che fa riferimento alle culture nere metropolitane che si muovono tra cinema, letteratura fantascientifica, musica (hip hop e techno), grafica e produzione di videoclip. Nato nell’alveo della diaspora afroamericana, l’afrofuturismo parte da alcuni assunti fondamentali: l’omologia tra schiavo, alieno e robot; l’esclusione dei neri dall’ordine del discorso sul futuro e sullo sviluppo tecnologico, al punto che il termine stesso a primo impatto suona come un ossimoro. (Attimonelli, 2018:147)

 

L’afrofuturismo solleva perciò un inquietante paradosso. È ancora possibile per una comunità come quella africana, che è stata privata del proprio passato, immaginarsi nel futuro? Dal momento che tutte le sue forze sono state consumate nel tentativo di ricostruire una storia originaria, emerge la necessità di ideare realtà possibili in modo da superare il trauma della deterritorializzazione.

In fondo, come altro descrivere la diaspora africana se non come un sequestro di persona? Un’esperienza che appare agli occhi di Dery non tanto dissimile da un rapimento alieno, riflessione che lo spinge a constatare che gli afroamericani siano in realtà the descendants of alien abductees. Lo stesso Sun Ra, compositore jazz e pioniere dell’afrofuturismo in campo musicale, racconterà di essere stato soggetto a rapimento da parte degli alieni e di essere successivamente atterrato su Saturno:

 

I did go out to space through what I thought was a giant spotlight shining on me. [...] It gave that appearance, it could see through myself, and I went up at terrific speed to another dimension, another planet. (Sinker, 1992)



2. Un’alternativa al presente

Nel corso del secondo Novecento, un numero sempre maggiore di artisti afroamericani sceglie il contesto della fantascienza per evocare, attraverso la musica, l'immagine di un futuro tecnologico in cui la blackness non è un tratto da celare, ma piuttosto da esaltare. L’identità nera si rivela una risorsa inesauribile di ritmi e di significati in grado di inventare nuove sonorità. 

L’afrofuturismo non è soltanto una forma d’arte che guarda al futuro attraverso una prospettiva nera, ma è un insieme di strumenti creativi che consente alle persone afrodiscendenti di superare il trauma del passato attraverso l’immaginazione. 

In questo senso, l’afrofuturismo è una vera e propria metodologia di liberazione che permette di riscrivere la storia e trasformare il presente, creando luoghi immaginari all’intersezione tra cultura nera, tecnologia e misticismo: 

 

Nell’afrofuturismo dialogano fantascienza e tecnologia con l’infinito immaginario della cultura afro-black, contaminata dall’iconografia del post-umano. (Attimonelli, 2018:166)


Per una comunità espropriata della propria cultura e costretta a imparare la “lingua aliena” dei rapitori, appropriarsi del futuro attraverso l’immaginario fantascientifico significa provare a inventare una realtà dove la tecnologia, sempre più antropomorfa, coesiste e convive con la memoria di un’Africa primordiale. Assieme all’iconico Sun Ra, anche George Clinton, musicista funk e fondatore del collettivo Parliament-Funkadelic, gioca un ruolo fondamentale nella creazione di un immaginario afrofuturista.

Fondamentale sarà per l’appunto Mothership Connection, album del 1975 che traduce in musica l’idea di una fuga nello spazio. La copertina raffigura lo stesso George Clinton seduto a gambe aperte sulla soglia di una navicella spaziale nell’intento di richiamare l’attenzione di tutti gli “extraterrestrial brothers” che nutrono il desiderio di sfuggire al presente. Il proposito del musicista è reso noto sin dalla traccia introduttiva del disco, P.Funk (Wants to Get Funked Up), dove l’ascoltatore viene invitato dal cantante a unirsi nel loro viaggio interspaziale a bordo della navicella spaziale Mothership:

 

Do not attempt to adjust your radio, there is nothing wrong. We have taken control as to bring you this special show. We will return it to you as soon as you are grooving.

Welcome to station W-E-F-U-N-K, better known as We-Funk or, deeper still, the Mothership Connection, home of the extraterrestrial brothers, dealers of funky music, P.Funk, uncut funk, the bomb.

Coming to you directly from the Mothership, top of the Chocolate Milky Way, 500,000 kilowatts of P.Funk-power, so kick back, dig, while we do it to you in your eardrums. (Parliament, 1975)

La Mothership Connection è per George Clinton un simbolo che rappresenta il punto d’incontro tra un futuro alieno e la memoria collettiva di un’origine perduta, ossia l’Africa, descritta come “the lost continent”. La musica si articola così come un testo in cui è possibile ricreare una dimensione alternativa, quasi onirica, dove l’esperienza dell’ascolto e del ballo si manifestano come un atto di liberazione individuale.

Il collettivo musicale Parliament-Funkadelic ha esercitato un’enorme influenza sulle giovani generazioni di artisti afroamericani che sarebbero emerse successivamente. Grazie alla progressiva reperibilità di strumenti musicali elettronici, in particolare delle iconiche consolle della Roland, si assiste all’emergenza di un genere che riuscirà a incarnare l’idea stessa di afrofuturismo, tanto nel contenuto quanto nella forma: la techno di Detroit.

 

Dunque, la fantascienza black, intesa come metafora secolare dell’alienazione dei neri dalla società, unita alla black funkiness e a un’identità sfuggente sono le corde sulle quali si muove la ricerca funambolica di chi produce e di chi ama la techno. (Attimonelli, 2018:147)



3. Techno City

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, Detroit è in forte declino: gli alti tassi di disoccupazione e il fallimento di molte industrie di automobili del downtown finiscono per alterare irrimediabilmente il suo tessuto urbano.

Il progressivo abbandono degli edifici del centro trasformano la città simbolo della Ford Motors in una città fantasma, emblema della decadenza del modello capitalista. Viene persino coniato un termine, inner city, per indicare quelle zone urbane popolate principalmente da persone con basso reddito, caratterizzate solitamente da edifici fatiscenti e da vecchie fabbriche del centro. Ma è proprio nell'atmosfera post-industriale della inner city di Detroit che la techno trova terreno fertile su cui crescere.

Negli anni in cui la techno arriva al suo apice, la capitale statunitense dell’industria automobilistica raggiunge uno stato di degrado tale che la porta in breve tempo a diventare un territorio di continui conflitti:

 

Erano all’ordine del giorno gli incendi degli edifici abbandonati da parte dei cittadini e la demolizione di fabbriche monolitiche in disuso da parte del Comune. (Attimonelli, 2018:171)

 

La techno è quindi una conseguenza della società post-industriale. Il nome allude ai techno rebel di cui parla Alvin Toffler nel suo trattato di cibernetica filosofica intitolato The Third Wave: un gruppo di sovversivi che esprime il rifiuto più totale nei confronti dello schiavismo tecnologico, avallato dalla società dei consumi, attraverso l'appropriazione di quella stessa tecnologia. 

Come ben inquadrato da Attimonelli, i ribelli e i rinnegati della società industriale utilizzano gli strumenti tecnologici per “affrancarsi dallo status di subalterni” e così la techno si configura come una avanguardia che porterà “a un nuovo stadio di civilizzazione” (169).

Di origine ibrida, la techno si lascia influenzare dai generi musicali più disparati: erede naturale della house di Chicago, raccoglie sonorità tanto dal synth-pop e dall’elettronica quanto dal garage funk americano. The music is just like Detroit, a complete mistake affermerà Derrick May in un’intervista:It's like George Clinton and Kraftwerk stuck in an elevator (Cosgrove, 1988: 88).

Verso la fine degli anni Ottanta, il genere va consolidandosi grazie al lavoro svolto nel decennio precedente da artisti del calibro di Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson, i cui interessi musicali andavano da James Brown ai Depeche Mode, dall’Italo Disco ai Yellow Magic Orchestra. Soprannominati The Belleville Three, gli inventori della techno rappresentano però soltanto il primo tassello di un mosaico che si amplierà negli anni a venire.

 

Questo crogiolo di ritmi alieni si sviluppò indissolubilmente, come il corpo di un cyborg, dentro quel ritmo interiorizzato dalla nascita di chi cresce a Detroit: il suono delle macchine, delle fabbriche automobilistiche di una città industriale, costruita a misura di auto e non di uomo, un suono futurista la cui eco ancestrale risuona nelle immense volte dei colossali palazzi in rovina sventrati del centro urbano. (Attimonelli, 2018:170) 



4. Il mito di Drexciya

Già all’inizio degli anni Novanta emerge una seconda generazione di musicisti che coltiva il lato più politico della techno e cerca di inquadrare la musica come strumento di azione sociale. 

Tra le personalità di spicco che hanno lasciato un’impronta nella storia della musica elettronica ricordiamo soprattutto Mad Mike Banks, fondatore del collettivo di dj Underground Resistance (UR), e Jeff Mills, soprannominato The Wizard per le sue incredibili abilità tecniche nella composizione. Il progetto UR diviene fondamentale nel proporre strategie discografiche in opposizione al mercato mainstream e si distingue per la sua militanza politica.

Tra i membri del collettivo detroitiano UR si nascondono anche i protagonisti di questa storia: il duo di James Stinson e Gerald Donald, conosciuto ai più con il nome di Drexciya. Diversamente dai loro compagni, il duo non sembra tanto interessarsi alle atmosfere spaziali che avevano fino ad ora animato il genere, ma sceglie piuttosto di esplorare le profondità dell’ambiente marino con l’obiettivo di creare un vero e proprio territorio musicale dove sorgerà la mitica città di Drexciya.

 

Degli UR, i Drexciya hanno conservato la matrice fortemente politicizzata spiega la ricercatrice Claudia Attimonelli, che in loro si è espressa attraverso utopie e acquatici mondi misteriosi popolati da uomini-pesce [...], abitanti di un’altrettanto dettagliata cartografia di terre abissali (264). 

 

James Stinson, membro fondatore del gruppo, si spinge sino a immaginare una sconosciuta zona acquatica abitata da creature anfibie che discendono dagli africani rapiti annegati in mare durante la tratta degli schiavi.

Con l’obiettivo di distogliere il focus dalla decadenza del presente, Stinson e Donald creano un nuovo spazio sonoro capace di proiettare l'ascoltatore verso mondi lontani e di ricreare realtà ideali. Il duo elettronico condivide per la prima volta la propria teoria con il pubblico in The Quest, un LP che riunisce tutti i singoli pubblicati tra il 1993 e il 1997. Sulla copertina dell’album viene riportato quanto segue:

 

“During the greatest holocaust the world has ever known, pregnant America-bound African slaves were thrown overboad by the thousands during labor… is it possible that they could have given birth at sea to babies that never needed air?” (David, 2021)

 

Secondo la cosmologia drexciyana, coloro che sono scampati alla “abduzione aliena dall’Africa all’America” riescono a sopravvivere sott’acqua, nei recessi dell’Atlantico, dove scelgono di creare un’utopia acquatica. Le tribù drexciyane costituiscono di per sé una specie transumana, ossia che va oltre la razza umana, e si presentano come comunità tecnologicamente e socialmente più avanzate: 

 

Dunque, all’origine di Drexicya c’è il punto di non ritorno indicato anche dagli afrofuturisti: lo schiavismo, che s’intreccia a una cosmologia preistorica, nella quale si incontrano creature terrestri e “high-tech nomads” provenienti da quello che Stinson definisce “un buco dimensionale” sito nel centro dell’Africa e apertosi 700.000 anni fa. (Attimonelli, 2018: 266)

 

Sempre sulla copertina di The Quest, è presente una serie di quattro mappe che descrivono le diverse fasi storiche della diaspora africana. Dal periodo della tratta degli schiavi fino al momento in cui la techno si diffonde in tutto il mondo, passando per la rotta migratoria degli afroamericani del Sud verso il Mid-West, le mappe mostrano il processo di allontanamento di un popolo dalla madreterra. La quest che si propongono Stinson e Donald, in quanto discendenti dei sopravvissuti, è dunque la realizzazione ultima del ritorno all’origine

Così facendo, il duo identifica gli strumenti utili all’afrofuturismo per riscrivere la storia dolorosa e traumatica della diaspora africana. La musica si trasforma in un portale interdimensionale in grado di trasportare l’ascoltatore in una dimensione al di là di un tempo e di uno spazio definito. Nel profondo dell’Atlantico si configura una realtà parallela e immaginaria dove è possibile sfuggire alle forze annichilenti di un presente sempre più cupo. I suoni fluidi della drum machine 808 della Roland riescono a ricreare uno scenario acquatico i cui suoni ci conducono verso un futuro impossibile. Drexciya si erge così come un territorio mitico e remoto, al contempo fisico e immaginario: uno spazio ibrido che esiste all’intersezione tra realtà e fantasia.



5. Bibliografia e sitografia

Attimonelli C., 2018, Techno: ritmi afrofuturisti, Meltemi.

Cosgrove S., 1988, Seventh City Techno, «The Face» (97).

David S., 2021, Inside the stunning Black mythos of Drexciya and its Afrofuturist ’90s techno, «Ars Technica», web (data di ultima consultazione 16/11/2021).

Dery M., 1994, “Black to the Future: Interviews with Samuel R. Delany, Greg Tate, and Tricia Rose”, In Flame Wars: The Discourse of Cyberculture, Duke University Press.

Gaskins N. R., 2016, Deep Sea Dwellers: Drexciya and the Sonic Third Space, «Shima».

Sinker M., 1992, Loving The Alien, «The Wire» (92).

 

Foto 1 da New York Times (data di ultima consultazione 21/11/21)

Foto 2 da Dangerous Minds (data di ultima consultazione 21/11/21)

Foto 3 da Medium (data di ultima consultazione 21/11/21)

Foto 4 da DJ Mag (data di ultima consultazione 21/11/21)