Angelo Perazzetta
Primo gennaio 2018. Oggi ricorre la data del centenario dalla nascita di J.D. Salinger, autore che ha lasciato una traccia ben visibile del suo passaggio nella storia della letteratura americana. La sua firma infatti è posta su uno dei più importanti e famosi romanzi di formazione della tradizione nordamericana: The Catcher in the Rye (1951).
The Catcher in the Rye (il titolo originale del libro, basato su una serie di rimandi culturali talmente complessa da aver fatto optare per una soluzione drastica in traduzione) è l’unico romanzo scritto da Salinger, la cui produzione letteraria è altrimenti limitata al genere del racconto, e neanche troppo vasta.
Nato a Manhattan in una famiglia ebrea il primo gennaio del 1919, Salinger dimostrò un interesse precoce nella scrittura, dando vita ai suoi primi racconti già alle scuole medie. All’età di tredici anni, in seguito a un trasloco, lasciò la scuola pubblica e si iscrisse a una privata. Chiunque abbia letto delle vicende di Holden, non sarà sorpreso né di scoprire che il giovane Salinger faticò a inserirsi nella nuova scuola, né tantomeno che fosse uno studente eclettico ma i cui risultati accademici non spiccavano in modo particolare.
Una volta diplomato, seguì brevemente le orme del padre lavorando nel campo dell’importazione di carne, ma il confronto con la realtà dei mattatoi ebbe un tale impatto da non solo fargli cambiare carriera, ma da farlo diventare vegetariano. Salinger seguì una carriera universitaria piuttosto irregolare, iscrivendosi e successivamente abbandonando numerosi istituti, tra cui la Columbia University of General Studies dove frequentò un corso di scrittura tenuto da Whit Burnett, fondatore ed editor della rivista letteraria Story. Burnett divenne suo mentore e grazie a lui il suo primo racconto. Frequentò per qualche tempo Oona O’Neill, figlia dello scrittore teatrale e poi premio Nobel per la letteratura Eugene O’Neill, ma la loro relazione finì quando lei cominciò a uscire con Charlie Chaplin.
Nel 1941 Salinger cominciò a inviare i suoi racconti al New Yorker. Ricevette una lunga serie di rifiuti, finché a Dicembre la rivista accettò di dare spazio al racconto Slight Rebellion off Madison, che aveva come protagonista un adolescente disadattato di nome Holden Caufield. L’attacco a Pearl Harbor, quello stesso mese, spinse il New Yorker ad annullare la pubblicazione.
Nella primavera del ‘42 Salinger venne reclutato nell’esercito e partecipò alla Seconda Guerra Mondiale, combattendo nello sbarco in Normandia. Il conflitto bellico gli diede l’opportunità di incontrare uno scrittore che l’aveva molto influenzato e che in quel momento stava lavorando a Parigi come giornalista: Ernest Hemingway. I due corrisposero per anni, sotto il segno del rispetto e dell’ammirazione reciproca. Le operazioni di contro-spionaggio in cui fu attivo lo portarono a intervistare prigionieri di guerra francesi e tedeschi ed essere presente alla liberazione del campo di concentramento di Dachau. L’esperienza lo colpì così tanto da portarlo a essere ricoverato in ospedale per stress post-traumatico. Nel corso della sua carriera nell’esercito Salinger non smise mai di scrivere, pubblicando in alcune riviste e continuando a ricevere rifiuti dal New York Times.
Dopo la sconfitta della Germania, Salinger scelse di rimanere nel Paese per qualche mese per partecipare al processo di denazificazione. Sposò Sylvia Welter, e di lì a breve fece con lei ritorno negli Stati Uniti, dove il loro matrimonio cadde a pezzi dell’arco di qualche mese. Verso la fine degli anni ‘40 Salinger diventò un devoto praticante di buddhismo zen; questa sarà l’origine di un interesse per la spiritualità orientale che lo accompagnerà a lungo, per quanto non seguirà mai con costanza una singola corrente, o neanche una singola religione.
Nel 1947 l’editor letterario del New Yorker si vide proporre il racconto The Bananafish, e vedendoci del potenziale, incoraggiò Salinger a continuare a lavorarci. L’anno dopo, finalmente, la rivista pubblicò A Perfect Day for Bananafish. Non si trattava solo del debutto di Salinger sul New York Times, ma anche del suo primo racconto avente come protagonista la famiglia Glass (che esplorerà nella sua produzione successiva) e anche di un successo tale da valergli un contratto con il magazine.
Il primo e unico romanzo di Salinger, The Catcher in the Rye, fu pubblicato nel 1951 da Little, Brown and Company dopo essere stato rifiutato dal New York Times per il suo stile troppo “esibizionistico” e i suoi personaggi troppo precoci per essere realistici. La ricezione da parte del pubblico non fu immediatamente entusiasta, anche se molti critici trovarono subito apprezzabile il personaggio di Holden e, soprattutto, lo stile di narrazione incentrato su un narratore il cui fascino risiede nell’essere inaffidabile. Non ci volle molto perché il romanzo acquistasse popolarità anche tra il grande pubblico, ma il crescente successo coincise con l’inizio della carriera da moderno eremita di Salinger. A Hollywood molti vollero adattare The Catcher in the Rye per il grande schermo, ma lo scrittore si rifiutò di cedere i diritti per farlo. La crescente popolarità di The Catcher in the Rye spinse Salinger a trasferirsi a Cornish, un piccolo, remoto paesino nel New Hampshire. Seppure condusse dapprima una vita sociale piuttosto vivace, mantenendo soprattutto contatti con alcuni studenti della scuola superiore locale, con l’andare del tempo lo scrittore si isolò sempre di più.
Nel 1955 Salinger sposò la diciottenne Claire Radcliff e la convinse a trasferirsi da lui abbandonando la scuola giusto qualche mese prima del diploma. Nei primi anni ‘60 Salinger pubblicò due raccolte di racconti, Franny e Zooey e Raise High the Roof Beam, Carpenters and Seymour: an Introduction. per poi affrontare il divorzio da Claire, da cui aveva avuto due figli. A questa relazione seguì quella con Joyce Maynard, diciottenne scrittrice per Seventeen diventata nota grazie alla pubblicazione di un articolo commissionatole dal New Yorker. Salinger le mostrò le insidie del successo. Persuasa da lui, la giovane lasciò gli studi per trasferirsi da lui in solitudine nel 1972. Chiuso per ore nel suo studio ogni mattina, Salinger continuò a scrivere con costanza senza pubblicare alcunché.
Sua figlia successivamente descrisse il complesso sistema di archiviazione che il padre applicava ai suoi scritti: a seconda del colore dei segni apportati sui manoscritti, si capiva se Salinger voleva che dopo la sua morte venissero pubblicati “così come stavano”, in seguito con editing, o se non fossero proprio intesi per la stampa. La spasmodica ricerca di solitudine e il rifiuto di qualunque forma di notorietà esibiti da Salinger gli valsero il risultato opposto. Nel corso del tempo, dunque, furono in molti a cercare di avvicinarsi a Salinger e ci furono svariati tentativi di pubblicare sue lettere private, o di mettere insieme sue biografie non autorizzate. Questo portò lo scrittore a intentare (e vincere) numerose cause legali per tutelare la sua privacy.
Salinger morì per cause naturali nella sua casa di Cornish nel 2010, all’età di 91 anni, lasciando gran parte dei suoi scritti degli ultimi decenni ancora senza pubblicazione.
Già negli anni ‘40 Salinger diceva di essere impegnato con la scrittura di un romanzo avente come protagonista Holden Caufield del racconto Slight Rebellion Off Madison, ma è solo nel 1951 che The Catcher in the Rye vede la pubblicazione. I recensori ebbero da subito opinioni disparate sul libro: quello che secondo il New York Times era un romanzo di debutto straordinariamente brillante, per altri era da biasimare per la perversione morale del suo protagonista, per il suo linguaggio blasfemo e monotono, e in generale per il suo essere un pessimo role model. Eppure non è tanto quello che Holden fa a essere il problema, sebbene alcune delle sue scelte sono quantomeno discutibili, bensì chi è come persona e come esprime le sue opinioni sul mondo, la società e tutto il resto. La trama del romanzo di per sé è estremamente semplice: il lettore segue le esperienze del sedicenne Holden Caufield, da quando viene espulso dall’esclusiva prep school Pencey a quando ha una sorta di esaurimento nervoso, dopo aver passato due giorni vagando per New York senza, di fatto, alcun elemento particolarmente rilevante a livello di intreccio narrativo. Per come è presentato il racconto è implicito che Holden sia ora in una struttura psichiatrica e che stia ripercorrendo indietro gli eventi che un anno prima lo hanno condotto lì.
La caratteristica principale di questo romanzo è la voce del narratore, il modo di parlare vivace e immediato di Holden, che in virtù di narratore omodiegetico inattendibile non perde occasione di esprimersi sullo stato della società, su quello che pensa di chiunque incontri, e in generale di partire per tangenti non essenziali alla trama. Il romanzo acquista così una qualità di oralità che colpisce per la sua verosimiglianza, per quanto sia naturalmente evidente che si tratti di una sensazione fittizia, evocata da un autore che è perfettamente consapevole dell’operazione letteraria che sta compiendo. Il risultato è un Holden difficilmente distinguibile da un ragazzo in carne ed ossa con cui il lettore è intimamente familiare, e non un personaggio di finzione.
Uno dei motivi per cui il personaggio di Holden suscita emozioni polarmente opposte nei lettori è che rappresenta la quintessenza del teenager. Holden è convinto di essere l’unico al mondo a ragionare in modo sensato, è un idealista e un nichilista allo stesso tempo, pensa frequentemente al sesso ma ne è anche spaventato, non sopporta quello che percepisce come falso e odia l’autorità. In quanto romanzo di formazione, che ci si avvicini a The Catcher in the Rye da piccoli o in età più matura, il lettore si potrebbe identificare nel protagonista e nelle sue contraddizioni senza molti problemi. Volendo tracciare quanto effettivamente di un giovane Holden è presente in ciascuno di noi, potremmo far menzione dello Youth Inventory, una lista di 298 domande e affermazioni sul tema “che cosa affligge i teenager” che è stata somministrata dalla Purdue University a migliaia di adolescenti intorno alla metà degli anni ‘50. Ogni soggetto doveva segnalare ogni quesito che avesse rilevanza nella sua vita, ma l’aspetto sorprendente è la varietà delle preoccupazioni elencate. Ad esempio, la numero 259 (“non sento molto bene”) è seguita dalla 261 (“non ho appetito”) che a sua volta è seguita a breve distanza da 265 e 266 (“mi chiedo quale sia il senso della vita” e “le mie credenze religiose sono fonte di confusione per me”). “Mi chiedo cosa sia l’eternità” trova spazio tra preoccupazioni come “mi sento osservato dalle persone” e “penso di avere un brutto naso”. Impostando un ipotetico Holden Inventory sullo stesso meccanismo, il soggetto potrebbe segnalare se questioni come “non sopporto la falsità”, “la morte degli innocenti mi fa impazzire”, “penso che i bambini siano migliori delle persone della mia età” e “mi chiedo spesso dove vadano le anatre in inverno” abbiano o meno rilevanza nella sua esistenza. Ed effettivamente un questionario sul tema è possibile trovarlo a questo link.
Non è un caso che The Catcher in the Rye figuri nelle liste di letture della maggior parte delle high school americane, detenendo allo stesso tempo il curioso primato di testo più censurato nelle biblioteche scolastiche statunitensi. L’ironia di questa situazione non può passare inosservata. Il contesto è ancor più interessante se si considera che nel 1946, l’anno in cui Slight Rebellion Off Madison sarebbe comparso sul New York Times l’idea del teenager era un concetto ancora più alieno di quanto non fosse nella coscienza collettiva anche nel 1951, quando il romanzo è stato pubblicato.
Basti pensare che la prima pubblicazione a usare il termine teen-ager (con il trattino, a indicare un neologismo) fu nell’aprile del 1941 la rivista Popular Science Monthly in un articolo riguardante le lezioni di cinematografia offerte da un liceo di Denver. Naturalmente questo non significa che l’idea stessa di adolescente fosse una novità, ma è solo a partire dagli anni ‘40 che gli adolescenti diventano un gruppo sociale in sè per sè. I fattori che hanno portato alla definizione della cluster demografico “teenager” sono principalmente di natura economica, ma le loro ricadute sociali sono state quelle percepite in modo più vivido dalla popolazione.
Un esempio su tutti, l’ingresso nel mercato dell’automobile come bene di consumo a disposizione anche degli adolescenti negli anni Venti dava loro un’autonomia di movimento prima di allora sconosciuta. Questo rese possibile per gli adolescenti un allontanamento dal controllo genitoriale prima impensabile: gli appuntamenti non si tenevano più necessariamente sotto il tetto domestico, sottoposti allo sguardo vigile dei genitori, e incentivò una sempre maggiore voglia di autonomia.
Da qui si consolidò la tendenza -allora recente- degli studenti di dedicarsi a lavoretti part-time per arrotondare. Ecco che il mercato si trovò a salutare una nuova fetta di consumatori. Posto che la più basilare legge dell’economia è l’incontro della domanda e dell’offerta, le imprese accettarono prontamente la sfida di offrire beni e servizi pensati per attrarre questa fascia di mercato: Hollywood ha visto un incremento nella produzione film di dubbio pregio con un pubblico adolescenziale in mente (Freddie Steps Out, Attack of the Crab Monsters, I Was a Teenage Werewolf, per esempio); nacquero riviste come Seventeen e Mad e luoghi di ritrovo come cinema e bar dove seguire gli sport hanno trovato grande diffusione nelle città.
Una figura in particolare ha contribuito e beneficiato dell’interesse delle imprese per la fascia demografica adolescenziale. Si tratta Eugene Gilbert, un diciottenne di Chicago che nel 1945 ha fondato la Gil-Bert Teen Age Services. L’idea alla base della sua impresa, semplice quanto efficace, era che un adolescente potesse capire -e intervistare- i suoi coetanei in modo più efficace di qualsiasi adulto. Il potersi basare su indagini di mercato precise e affidabili aveva un valore inestimabile per le aziende. Fu così che Eugene Gilbert mantenne a lungo un ruolo di prestigio nel settore.
Non sarebbe corretto sovrapporre l’adolescente-tipo degli anni ‘50 a quello del decennio precedente. A partire dal 1950 la cultura teen comincia davvero ad assumere negli Stati Uniti dei caratteri specifici. Secondo lo psicologo Robert M. Linder, l’adolescente in questo periodo abbandona la solitudine che precedentemente caratterizzava la vita di un giovane in favore di una mentalità di branco, di un’omologazione estrema che va a distruggere ogni individualità. La gang di adolescenti diventa non solo uno spauracchio, ma anche un autentico pericolo per l’americano adulto. Gli operatori sociali notano un incremento di crimini legati al consumo di alcolici o alla sfera sessuale compiuti da adolescenti, e non sono solo quelli originari di zone depresse o povere ad assumere questi comportamenti: anche nei sobborghi più benestanti i teenager davano sfogo ai loro istinti senza tenere troppo in considerazione la legge.
Negli anni ‘40, invece, il processo che avrebbe portato a questi risultati era appena iniziato. Gli adolescenti non si percepivano necessariamente come appartenenti a un gruppo in virtù della loro età, ma tendevano invece a voler diventare adulti il più in fretta possibile. Vestirsi come i propri genitori era considerato comune, mancava quell’impulso -preponderante dal decennio successivo in poi- a distinguersi dalla generazione precedente anche tramite le scelte di abbigliamento. Si trovavano a occupare un ruolo liminale tra l’infanzia e l’età adulta, costretti in una temporanea situazione ibrida in cui avevano sorpassato l’obbligo scolastico ed erano effettivamente parte della forza-lavoro, pur continuando a vivere con i propri genitori.
Negli anni ‘50 questa situazione si accentua come scomoda trasformandosi in uno dei motori principali della ribellione degli adolescenti di quel periodo. Il sociologo Talcott Parsons, nel 1950 identificò le tre componenti principali della teenage culture come: A) ricerca compulsiva dell’indipendenza e atteggiamento antagonistico alle aspettative degli adulti e alla loro autorità. Rifiuto degli standard di responsabilità degli adulti; B) conformismo compulsivo all’interno del gruppo dei coetanei. La differenza è vista come intollerabile; C) romanticismo: idealizzazione irrealistica degli oggetti aventi valore sentimentale. Due di questi punti possono essere ricondotti facilmente al personaggio di Holden Caufield, il cui atteggiamento di rifiuto e disprezzo per il mondo degli adulti traspare in ogni pagina, da ogni uso della parola ‘phony’ a tutte le osservazioni sui suoi genitori e insegnanti. Nelle pagine di The Catcher in the Rye è anche possibile identificare un certo attaccamento di Holden a determinati oggetti, che si caricano di un significato simbolico nel sistema di immagini del romanzo. Ne sono esempi il guantone da baseball del fratello Allie, il cappello da caccia rosso di Holden, e -volendo- il museo di storia naturale. È nell’assoluto rifiuto che Holden ha del conformismo che si incrina l’identificazione di questo personaggio come l’adolescente per antonomasia: non solo, infatti, Holden non appare mai in scene di gruppo, ma dimostra apertamente disprezzo e disinteresse per l’ossessione che i suoi coetanei mostrano per il fare branco.
Ed Banky was the baseball coach at Pencey. Old Stradlater was one of his pets, because he was the center of the team, and Ed Banky always let him borrow his car when he wanted it. It wasn’t allowed for students to borrow faculty guys’ car, but all the athletic bastards stuck together. In every school I’ve gone to, all the athletic bastards stick together. (Salinger, 1951:41) [...] and everybody sticks together in these dirty little goddamn cliques. The guys that are on the basketball team stick together, the Catholics stick together, the goddamn intellectuals stick together, the guys that play bridge stick together. Even the guys that belong to the goddamn Book-of-the-Month Club stick together. If you try to have a little intelligent-. (Salinger, 1951:119)
Un altro tratto tipicamente adolescenziale dimostrato da Holden è la sua insofferenza verso il sistema scolastico, cambiando continuamente scuola per scarso rendimento, nonostante un’intelligenza brillante. Kingsley Davis, in Adolescence and the Social Structure, descrive come la frustrazione di un’istruzione troppo astratta viene solitamente sublimata tramite la partecipazione alla cultura giovanile di gruppo, all’interno della quale l’adolescente sente di avere un posto e una funzione. Holden, come si è visto, disprezzando la compagnia dei suoi coetanei e volendo esplicitamente evitare di essere coinvolto in dinamiche di gruppo, si preclude anche questa valvola di sfogo. Al contrario, manifesta il suo desiderio di indipendenza immaginando vite alternative, pianificando di andarsene lontano. Il lettore è perfettamente cosciente del fatto che, per quanto Holden parli di andarsene a vivere dei boschi e di evitare la compagnia della maggior parte delle persone, si tratta di sempre di piani irreali. Non è casuale, però, che nei passaggi in cui esprime questi desideri si presentino due elementi: il lavoro (sempre umile, non aspirazionale, ma sufficiente a mantenersi) e il matrimonio (con una ragazza del tutto ipotetica, in un caso). Sempre Davis descrisse come l’adolescente americano degli anni ‘40 vedeva il matrimonio e il lavoro come i fattori determinanti della sua indipendenza. Anche in questo caso Holden si allinea allo stereotipo del sedicenne statunitense:
"I have about a hundred and eighty bucks in the bank. I can take it out when it opens in the morning, and then I could go down and get this guy’s car. No kidding. We’ll stay in these cabin camps and stuff like that till the dough runs out. Then, when the dough runs out, I could get a job somewhere and we could live somewhere with a brook and all and, later on, we could get married or something. I could chop all our own wood in the wintertime and all. Honest to God, we could have a terrific time! [...]" "You can’t just do something like that," old Sally said. She sounded sore as hell. "Why not? Why the hell not?" [...] "Because you can’t, that’s all. In the first place, we’re both practically children.” (Salinger, 1951:120) I figured I could get a job at a filling station somewhere [...] Everybody'd think I was just a poor deaf-mute bastard and they'd leave me alone . . . I'd cook all my own food, and later on, if I wanted to get married or something, I'd meet this beautiful girl that was also a deaf-mute and we'd get married. She'd come and live in my cabin with me, and if she wanted to say anything to me, she'd have to write it on a piece of paper, like everybody else. (Salinger, 1951:179)
A 100 anni dalla nascita dello scrittore, ricordarne oggi il romanzo più celebre significa cogliere l’occasione per ricordarne l’apporto dato al romanzo di formazione, declinato soprattutto al suo contesto storico. Dall’altra parte, questo permette di innescare una riflessione sull’adolescenza come concetto e periodo esistenziale a sé stante, stimolando un confronto e un’analisi perenne che tenga in considerazione lo scorrere del tempo e l’evoluzione socio-culturale dei contesti di riferimento.
Cosgrove, Ben, The Invention of Teenagers: LIFE and the Triumph of Youth Culture. Time (Sep.28, 2013)
Davis, Kingsley, Adolescence and the Social Structure in "The Annals of the American Academy of Political and Social Science". Vol. 236, Adolescents in Wartime (Nov., 1944), pp. 8-16
Macdonald, Dwight, A Caste, a Culture, a Market-II in "The New Yorker", (Nov. 29, 1958 issue)
Maynard, Joyce, At Home in the World, Picador, New York, 1988
Parsons, Talcott, Psychoanalysis and the Social Structure in "Psychoanalytic Quarterly". Vol. 19, pp. 371-374, 1950
Salinger, Jerome David, The Catcher in the Rye. Little, Brown & Company, Boston, Massachusetts, 1951
Salinger, Jerome David. Trad. Adriana Motti, Il giovane Holden. Einaudi, Torino, 1961
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