Taxi Driver: l’enigmatico ritratto della solitudine

Andrea Vallone

Giunto nelle sale statunitensi nel febbraio del ’76, Taxi Driver è riconosciuto come uno dei grandi capolavori cinematografici di Martin Scorsese. Frutto del fortunato sodalizio tra il regista e Robert De Niro, la pellicola sceneggiata da Paul Schrader viene premiata con la prestigiosa Palma d’oro al festival di Cannes nello stesso 1976.  

Nonostante siano trascorsi diversi anni dalla sua uscita, Taxi Driver è un film tuttora molto amato, un ibrido tra cinema noir con delle componenti western che si presta a molteplici chiavi di lettura. Vi si può leggere il crollo psichico di un uomo tormentato, legato allo shock della guerra, oppure una critica a una società che non presta attenzione a chi è isolato e in difficoltà, o ancora l’azione folle ma eroica di un personaggio che vuole ripulire una New York corrotta. Il film non esclude nessuna di queste interpretazioni ed è proprio questa vaghezza a rendere iconico Taxi Driver, oramai un grande classico del cinema.   

Taxi Driver offre innanzitutto uno dei più efficaci ritratti di disturbo post traumatico. Il protagonista Travis Bickle, magnificamente interpretato da De Niro, è un veterano della Guerra del Vietnam di ritorno a New York che non riesce a reintegrarsi in una società profondamente cambiata e che gli risulta ormai aliena. La sequenza dei titoli in apertura suggerisce immediatamente la vaghezza del film, con un taxi che emerge dal fumo e con il passaggio a un primo piano di Travis, su cui si riflettono le luci distorte della città notturna. Quindi, a fine sequenza, Travis fuoriesce dalla nebbia per recarsi in un centro taxi in cerca di impiego. 

Questa prima scena, con il colloquio di lavoro per guidare un taxi nelle ore notturne, svela le uniche informazioni sul protagonista e il suo passato a cui noi spettatori abbiamo accesso. Apprendiamo quindi che Travis ha prestato servizio nel corpo dei Marines, che non ha una solida educazione alle spalle e che soffre da tempo di insonnia. È proprio quest’ultima difficoltà che lo spinge a cercare questo tipo di impiego e che lo rende disposto a lavorare “anytime, anywhere, nei peggiori quartieri di New York, anche durante le feste. L’intera scena è fondamentale, poiché il colloquio ci viene mostrato quasi interamente tramite il punto di vista di Travis: egli si tiene a una buona distanza dal datore di lavoro e lo scruta con sguardo perso e alienato. L’interlocutore, come tutti i personaggi che avranno a che fare con Travis, nota che qualcosa non va in quel marine congedato. Non mostra empatia con il protagonista e liquida il suo maldestro tentativo di socializzare. Tra i due personaggi si crea una distanza incolmabile e Travis si ripiega immediatamente su se stesso, in silenzio, incapace di proseguire efficacemente la conversazione. Nemmeno la realizzazione di condividere lo stesso background militare, dato che anche l’interlocutore di Travis è un marine in congedo, riesce a riavvicinare i due: il protagonista si trova tagliato fuori dal rapporto con il prossimo a causa di un muro di incomunicabilità e inadeguatezza che egli non è in grado di superare e che comincia a formarsi già a partire da questi primi istanti del film.

Ciononostante, Travis appare qualificato per il lavoro e infatti ottiene l’impiego. La scena delinea il disagio psicologico del protagonista e imposta la modalità narrativa dell’intero film, dato che le vicende del personaggio saranno spesso vissute dal suo punto di vista e raccontate dallo stesso Travis. Egli, però, si pone come un narratore dalla dubbia attendibilità: la sua voce narrante si sovrappone alle immagini della città e influenza la nostra stessa percezione emotiva. Le sue giornate sono presentate attraverso il filtro distorto della paranoia con cui annota i vari accadimenti – come l’incontro con Betsy – su un diario. Proprio dalla lettura di queste pagine personali è possibile avere accesso alla mente del personaggio e rendersi conto dei disturbi di Travis, della sua profonda solitudine e della sua necessità di avere uno scopo nella vita. 

 

Data l’inattendibilità del protagonista come narratore, nonché la sua condizione psicologica precaria, si potrebbe essere tentati di interpretare il film semplicemente come il ritratto di una personalità fortemente instabile. Travis sarebbe, da questo punto di vista, un folle, un caso clinico incapace di interagire con gli altri e che perde il controllo, arrivando alla violenza. Il film non esclude neppure questa lettura, poiché in effetti non fornisce una visione oggettiva di Travis, né delle sue origini, lasciando il personaggio nel mistero. Tuttavia, una simile interpretazione può rischiare di semplificare Taxi Driver, senza tener conto della sua complessità. 

 

Dalle scene notturne in cui Travis guida il taxi nei quartieri più malfamati di New York emerge il ritratto di una città in cui dominano crimine e prostituzione. Il protagonista assiste in prima persona a scene di violenze o sfruttamento e i passeggeri che si alternano sul taxi lasciano spesso i sedili sporchi di sangue e sperma. Lavorare in questa sorta di terra desolata non fa che accrescere il disagio mentale di Travis, il quale descrive la città notturna in un celebre monologo in cui invoca un altro diluvio universale che pulirà le strade una volta per sempre”. La visione di una New York degradata e desolante non è solo il prodotto della mente paranoica di Travis, ma una realtà percepita anche da altri personaggi, sebbene con minore intensità, come i colleghi del protagonista e, in seguito, dal candidato alle presidenziali Palantine. Tuttavia, è indubbio che la vista della città notturna porti Travis a uno stato di paranoia sempre maggiore. Uno stato che conduce il protagonista a sviluppare un odio profondo verso quel mondo di sfruttamento e criminalità, che si accumula fino a esplodere nella seconda metà del film. 


Il tono apocalittico notturno è interrotto, almeno per la prima metà della pellicola, da un’atmosfera diurna apparentemente ordinaria. Le giornate di Travis si susseguono senza sorprese, in una routine che risulta sempre più stagnante, finché il protagonista non nota Betsy, una ragazza che lavora alla campagna elettorale del candidato alle presidenziali Palantine. Travis, nel suo diario, descrive Betsy come una creatura angelica al di sopra della feccia della città e comincia a osservarla per giorni, sino a trovare il coraggio di parlarle e chiederle un’uscita insieme. Il primo incontro tra i due, nonostante qualche stranezza di Travis, è positivo, tanto che Betsy acconsente a un altro appuntamento, questa volta al cinema.

In questa occasione, tuttavia, si fa evidente l’inadeguatezza di Travis e la sua mancanza di comprensione delle norme di socializzazione. Il protagonista, infatti, non conoscendo un film che possa piacere a una ragazza, porta Betsy a uno spettacolo in cui è trasmessa una pellicola pornografica. Sconcertata, la ragazza lascia la sala infuriata, respinge le improbabili spiegazioni di Travis e rompe ogni tipo di rapporto con lui. È un punto di svolta, poiché da questo momento il protagonista si sentirà tagliato fuori da qualunque possibilità di relazionarsi con il prossimo. Il muro tra la sua personalità e il mondo esterno – un mondo ostile, vuoto, incomprensibile – è ormai troppo alto per essere scavalcato. Travis si ritrova così chiuso nella gabbia della sua mente paranoica. La brusca fine della relazione con Betsy segna, inoltre, il suo fallimento nel rapporto con l’universo femminile. 

A far precipitare ulteriormente la situazione è la storia di un passeggero – interpretato dallo stesso Scorsese – che rivela a Travis di voler uccidere la moglie con una pistola magnum 44, poiché ella lo tradisce. Quindi, il personaggio loda l’arma per come riduce la faccia di una donna e “come la riduce tra le gambe”. Il passeggero suggerisce a Travis, seppur indirettamente, un modo per provare la sua mascolinità: usare delle armi da fuoco. L’acquisto di quattro pistole – tra cui proprio una magnum 44 – da parte di Travis è leggibile anche come tentativo di provare la propria virilità.  

Dopo l’acquisto, De Niro mostra tutto il suo talento dando vita a una delle più celebri scene del cinema: la sequenza in cui Travis parla da solo allo specchio, simulando il confronto con un criminale. Il protagonista sembra voler prendere i panni di un angelo vendicatore (come lo definisce lo stesso Scorsese) ed è mosso da un’allarmante volontà di “fare pulizia”. Comincia a prepararsi, a fare esercizio, ad allenare ogni muscolo per un’impresa non definita, ma che appare inquietante, anche alla luce dell'interesse improvviso di Travis nei confronti di Palantine.  

In un ultimo tentativo di dialogo, di richiesta d’aiuto, Travis si rivolge al suo collega tassista chiamato da tutti Mago, confessando di avere delle cattive idee in testa e di voler fare “qualcosa”. Anche questo tentativo di apertura, tuttavia, si risolve in un fallimento, poiché il protagonista non riesce, di fatto, a esprimere il suo disagio e il collega non realizza quanto Travis abbia bisogno di aiuto. Ancora una volta, Travis si ritrova prigioniero di quella solitudine che lo ha accompagnato tutta la vita e che non fa che alimentare i suoi disturbi.  

Ciò che rende ancora più affascinante il personaggio di Travis è la parte della sua personalità che vuole fare del bene. L’occasione di poter essere d’aiuto si presenta quando il protagonista si imbatte in Iris, interpretata da Jodie Foster: una dodicenne sfruttata come prostituta da Sport, a sua volta interpretato da Harvey Keitel. Travis incontra la ragazza una sera, quando questa sale improvvisamente sul taxi solo per essere prontamente recuperata da Sport, che lascia venti dollari al tassista, per il disturbo. Da questo momento, salvare Iris diviene l’unico scopo di Travis, ormai perso nell’immagine di sé come una sorta di angelo vendicatore. Allo stesso tempo, proteggere la ragazza è il solo modo che resta a Travis di provare agli altri e a se stesso di essere vivo. Il suo fine è nobile e genuino, ma Iris non vuole essere salvata o, quantomeno, mostra di non voler lasciare Sport, lo sfruttatore su cui Travis riversa tutto il suo odio.  

Deluso per la mancanza di collaborazione della ragazza, il protagonista perde definitivamente il controllo in una sequenza al termine della quale si rade i capelli e ne lascia solo una cresta, una “mohawk”, come avevano fatto i membri delle forze speciali nella guerra del Vietnam per entrare in modalità “killer”. Quindi, Travis si reca a un incontro elettorale di Palantine – che il protagonista vuole eliminare perché incarna la figura del politico ipocrita e incurante dei problemi sociali – ma prima che possa avvicinarsi al candidato è intercettato dai servizi segreti e costretto alla fuga. A questo punto, non gli resta che rivolgere le sue energie verso Iris 

Assistiamo dunque alla sequenza in cui Travis veste i panni del giustiziere e, in un certo senso, dell’eroe. L’unico modo per salvare Iris passa apparentemente attraverso la violenza e il salvataggio si risolve in un bagno di sangue. Travis elimina Sport e tutti gli sfruttatori che tentano di fermarlo e alla fine della sequenza si trova in fin di vita, ma vittorioso. La notizia delle gesta di Travis finisce sui giornali, che trasformano il protagonista in una sorta di eroe.  

Eppure, nell’ultima scena, l’incontro con Betsy sul taxi, Travis non appare molto cambiato. Non è interessato a raccontare la sua storia e non riesce a comunicare con la donna, se non tramite sguardi che i due si scambiano tramite lo specchietto retrovisore. In fondo, Travis non appare più felice, dopo aver compiuto la sua missione. Resta in uno stato di solitudine, separato dagli altri da un muro di incomunicabilità e sembra essere tornato al punto di partenza, alla sua vita alienante e senza scopo. L’azione violenta tramite cui sperava di dare una svolta alla sua esistenza si è realizzata, ma non ha cambiato nulla, è stata un’illusione. L’ultimo sguardo inquieto di Travis nello specchietto lascia aperta la possibilità di un nuovo crollo mentale del personaggio e di un ritorno alla violenza. Il film si chiude proprio con questa nota allarmante, riassorbita nella vaghezza della New York notturna.   

Taxi Driver è una pellicola che non si lascia etichettare: è l’enigmatico ritratto di un personaggio tremendamente solo, nonché una rappresentazione degli effetti devastanti della solitudine sullo sfondo di una metropoli alienante, corrotta e indifferente alle sofferenze altrui. È però anche un film che mostra la sterilità dell’azione violenta, che non conduce alla rigenerazione di Travis e lo lascia piuttosto prigioniero di un tormentato isolamento. In fondo, sono proprio le possibili e molteplici chiavi di lettura a fare di Taxi Driver un grande classico del cinema. 

 

Filmografia 

Taxi Driver, Scorsese M., Columbia Pictures, 1976

 

Foto 1, 2, 3 da filmtv.it (ultima consultazione 25/08/2021)