Rebecca Milanesi, Andrea Vallone
Il 26 settembre del 1888 nasceva a St. Louis, Missouri, T.S. Eliot, uno dei massimi poeti di lingua inglese e imponente rappresentante della multiforme letteratura modernista. Arrivato a Londra nel 1914, Eliot si impone presto sulla scena letteraria e critica dell’Inghilterra dell’epoca, attraversata, come tutt’Europa, da venti d’avanguardie e di sperimentalismo. La sua opera più celebre, The Waste Land (1922), si erge come vero e proprio manifesto del Modernismo ed esprime al meglio i sentimenti del primo dopoguerra: le ansie, lo smarrimento e la disillusione che travolgono l’uomo moderno.
Una delle componenti più importanti della poetica di Eliot è senza dubbio la presenza di riferimenti alla cultura e alla letteratura indiana. Il poeta nativo di St. Louis, infatti, studia sanscrito e filosofia indiana con i professori Charles Lanman e James Woods durante gli anni di formazione a Harvard (1912-1913), per soddisfare la sua crescente sete di spiritualità e metafisica. Durante il biennio acquisisce familiarità con vari testi della tradizione orientale, appartenenti sia alla filosofia induista, che a quella buddhista, per poi assimilarli parzialmente nella sua personale dimensione filosofica e religiosa: i Veda, le Upanishad e il celebre testo Bhagavad Gita della prima, e i testi del canone Pali e della tradizione Mahayana della seconda.
Eliot sviluppa quindi una duratura fascinazione per il pensiero orientale, il cui influsso permea diversi suoi componimenti, tra cui la stessa The Waste Land e i Four Quartets (1943). Molti studi condotti su The Waste Land affermano che una chiave di lettura induista unita ai precetti delle Upanishad sarebbe il migliore approccio per poter comprendere il suo pensiero e la sua poetica.
In realtà, però, proprio come non è possibile incanalare in un solo genere letterario un autore così poliedrico, non è possibile nemmeno etichettare il suo pensiero filosofico o religioso in una sola categoria. I concetti e i principi acquisiti e inseriti nelle sue opere, inoltre, sono comuni a più religioni e affondano le radici in un sistema filosofico e ideologico molto più vario e meno semplicistico di così.
I Four Quartets sono l’esempio più lampante di tutto questo. I paesaggi presentati e l’ambiente che circonda la vicenda vengono presentati come inglesi e americani: i posti che hanno ispirato i quartetti sono ancora visibili e visitabili nel centro e nella periferia di Londra. Il tutto però stride con la “vera” Londra, presentata qui in chiave post-apocalittica che ricorda molto la città grigia e senza speranza di The Waste Land. Sia i temi trattati che lo stile della narrazione si avvicinano molto ai Bhagavad Gita, opera indiana che presenta concetti e principi dell’Induismo. La lingua utilizzata nella scrittura è l’inglese, ma nello stile ricorda il sanscrito antico dei Veda. Il ritmo è rapido ma al contempo solenne e rallenta quando vengono presentate frasi enigmatiche o vicine alla dimensione spirituale dell’autore.
Così impregnare la vita e le opere di spiritualità ispirata a più religioni è il risultato di un tentativo disperato di trovare ordine nella mente e nel mondo distrutto da due grandi guerre. La frammentazione stilistica riflette perfettamente la frammentazione dell’animo umano e, nel caso di Eliot, del suo spirito diviso e convinto di appartenere a più culture affini, vicine o lontane che siano.
Per poter comprendere meglio il legame che unisce Eliot alla filosofia indiana, sarebbe utile introdurre brevemente l’aspetto religioso di quest’ultima.
La filosofia e, di conseguenza, la religione induista pone le sue basi sui Veda, antichi testi sacri in sanscrito tramandati vocalmente di generazione in generazione fin dalla fase vedica della religione induista (che parte da tempo immemore e arriva al VI secolo A.C.). I quattro Veda si sono sviluppati durante tutte le fasi dell’Induismo e sono una raccolta di inni, preghiere, mantra, ma anche di miti e scritti sulla cosmologia.
Quando si parla di fasi della religione induista, si intende dividerla in periodi storici, ognuno riguardante riforme più o meno radicali, alcune delle quali aventi come risultato la nascita di nuovi movimenti religiosi. La fase più antica è, appunto, la fase vedica, rimasta immutata fino al VI secolo BCE (prima dell’era Comune, equivalente all’ “Avanti Cristo” europeo, ndr), seguita dalla fase bramanica, che continua nella storia contemporanea.
La fase bramanica è vista come la nuova era dell’Induismo perché presenta riforme più o meno radicali, alcune delle quali aventi come risultato la nascita di nuovi movimenti religiosi o sistemi sociali. È durante la fase bramanica che viene istituito il sistema di caste che tuttora caratterizza l’intera India ed è anche durante tale fase che nasce, come riforma dell’Induismo, la religione buddhista.
Il Buddhismo, come per una reazione a catena, porterà alla nascita del monachesimo induista, movimento religioso ascetico i cui praticanti erano visti come esseri soprannaturali per la loro capacità di vivere di nulla se non di carità, vagando per le città e sopravvivendo nelle foreste.
È proprio grazie all’appartenenza dei monaci sia ai principi pre- e post-vedici che i concetti di karma e dharma prendono forma e si diffondono per il Paese.
I concetti di karma e dharma, infatti, pur essendo superficialmente molto conosciuti, sono molto diversi dalla comune concezione occidentale di questi. Essi non si legano ad alcuna religione o ad alcuna fase delle religioni indiane, ma sono il risultato di un’evoluzione filosofica di entrambe e ugualmente importanti.
Il dharma è il dovere supremo e universale, dovere quindi nei confronti dell’universo (non esistono tuttavia delle vere e proprie traduzioni di tale parola). Secondo la filosofia indiana il dharma rappresenta il destino, la vocazione, di ogni persona e va seguito per poter realizzare il disegno divino e far sì che il karma permetterà nella prossima vita di nascere in condizioni migliori rispetto alla vita precedente o, addirittura, di raggiungere il Samsara e liberarsi dal continuo ciclo di reincarnazioni.
Il concetto di dharma domina il testo sacro denominato Bhagavad Gita (VIII sec. CE). Tale testo racconta la storia di Arjuna, uno kṣatriya (guerriero, trad.) che si ritrova a dover combattere contro la propria famiglia, consapevole che l’esito della battaglia sarà in qualsiasi caso tragico. Se vincerà lui tutta la sua famiglia verrà sterminata se, al contrario, vincerà la sua famiglia, lui perderà la vita.
Così Viṣṇu, divinità suprema, lo incita a combattere comunque, assicurandogli che la tragedia sarà accompagnata dalla gloria.
“Se morirai (combattendo i tuoi nemici), guadagnerai il cielo; se vincerai, godrai la gloria terrena. Perciò, Figlio di Kunti, alzati, deciso a combattere! Rimanendo equanime nella felicità e nel dolore, nel guadagno e nella perdita, nella vittoria e nella sconfitta, affronta la battaglia della vita. Così non commetterai peccato.”
Seguendo il proprio destino e realizzando il proprio Dharma, Arjuna sarà protetto da Viṣṇu e potrà dirsi senza peccato, morire o vivere in pace, libero dalla paura e con la speranza di un futuro migliore e di gloria.
The Waste Land è noto per il suo stile frammentato, per certi versi quasi da Cubismo letterario, e, più in generale, per la sua oscurità. Eliot utilizza il verso libero, che ha assimilato dall’esempio di Laforgue e dei simbolisti francesi.
Già la prima sezione, con la celebre apertura sul mese di aprile, fa scaturire diverse domande nel lettore. Non è chiaro, per esempio, se sia l’io lirico a esprimersi o se sia un personaggio non ben identificato. In più, con questo inizio Eliot fa diretto riferimento al rinomato passaggio dei Canterbury Tales (1392) di Chaucer sull’arrivo della primavera e ne offre una riscrittura. Emerge quindi un’altra modalità molto cara a Eliot: quella cioè dell’intertestualità, dei continui riferimenti a tanti altri testi della tradizione occidentale, ma anche orientale.
Il ripetuto ricorso a citazioni tratte da diverse opere, sommato alle diverse varietà linguistiche presenti nel poemetto (italiano, tedesco, francese, sanscrito), rendono l’opera a tratti quasi inaccessibile. Eppure, è proprio questo alone di enigmaticità e mistero che suscita meraviglia nel lettore, che si lascia trasportare dai versi come preda di un incantesimo poco chiaro, ma anche per questo affascinante. La pluralità delle voci e la tecnica della ripetizione, adoperata per esempio in chiusura della seconda sezione, esprimono al meglio l’alienazione, l’ignavia e la perdita di senso dell’età moderna.
Questi sentimenti vengono però risolti nell’ultima sezione, What the Thunder Said, la più enigmatica delle parti del poema e quella che presenta più chiari riferimenti alla filosofia orientale.
In What the Thunder Said il narratore racconta di un paesaggio desertico, senza acqua e rovente, che rappresenta la distruzione dopo la guerra, la desolazione delle città rase al suolo, in cui i civili vagano a piedi scalzi e incapaci di rinascere, rialzarsi, o addirittura sudare o sputare.
A una prima e non attenta lettura sembrerebbe la riconferma della devastazione interiore ed esteriore dovuta alle bombe, al trauma, alla paura, che hanno caratterizzato le Grandi Guerre. Decodificando però la simbologia utilizzata da Eliot e cogliendo i continui riferimenti ai Veda, il significato si ribalta e l’autore richiama a un forte senso di speranza per il futuro dell’umanità.
I vagabondi marciano apparentemente verso la morte, ma al di là delle montagne rocciose c’è l’acqua, la pioggia, la primavera; il titolo stesso è una personificazione del tuono, primo segnale dell’arrivo del temporale e della pioggia. In questo modo ritorna la ciclicità del tempo: il poema si chiude con gli stessi riferimenti alla primavera fatti all’inizio della prima sezione.
I riferimenti alla filosofia orientale si trovano alla fine della sezione, in particolare con l’accenno al fiume Gange. Il Gange è pieno, le nuvole si spostano verso l’Himalaya, la giungla tace, e proprio in quel momento ecco la comparsa dei termini Datta, Dayadhvam, Damyata. Questi tre termini derivano dalla mitologia induista, in particolare vengono pronunciati dagli dei per chiedere ai Deva e agli Asura di avere autocontrollo ed essere caritatevoli ed empatici. Datta significa infatti “dare”, Dayadhvam “empatia” e Damyata “controllo”. I tre termini uniti rappresentano quindi una proposta di Eliot all’umanità di seguire queste istruzioni per uscire dal labirinto del caos causato dalla guerra e della sterilità della vita post-bellica.
Il poema si ferma improvvisamente imitando la chiusura tradizionale delle Upanishad, con la triplice ripetizione della parola sanscrita shanti. Il termine indica uno stato di pace assoluta, di serena imperturbabilità, di assenza delle frenetiche onde-pensiero che creano nella mente e nell’animo angoscia, ansia e disperazione. Shanti è comune a tutti gli scritti sanscriti e rappresenta la capacità di vivere serenamente il presente, concentrarsi sul qui ed ora, accettare il passato e lasciar correre il fiume del tempo con i detriti del dolore, delle case distrutte, del trauma.
I Four Quartets costituiscono l’opera più matura di T.S. Eliot, sia perché è l’ultima grande lirica scritta dall’autore, sia perché il poeta vi racchiude al meglio la sua abilità stilistica. Si tratta di un poema in quattro parti (ognuna rappresentante uno dei quattro elementi), inizialmente concepite individualmente, poi accorpate da Eliot in un unico lavoro. Il testo mantiene alcune delle caratteristiche tipiche della poetica del modernista, come l’enigmaticità, l’interesse per la spiritualità e l’uso del verso libero. Sia stilisticamente che tematicamente, i Quartets sono un testo fatto di meditazioni e di salti da sezioni dal ritmo molto scandito ad altre molto più prosaiche e filosofiche. La forte impronta autobiografica, inoltre, sembra avvicinare il lavoro a una certa poetica romantica, come quella di Coleridge o che Wordsworth concepisce nella Preface delle Lyrical Ballads.
Per certi versi, infatti, il testo di Eliot è un viaggio nell’immaginario del poeta, dalle sue origini americane (cioè dalle rive del Mississippi e da quelle dell’Atlantico) sino ai suoi giorni a Londra, durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Anche in questa serie meditativa fatta di grandi stacchi, ritroviamo la presenza della filosofia greca (soprattutto presocratica) e del pensiero orientale. Il suo influsso è ora meno esplicito, non basato su dirette citazioni, ma è possibile rintracciarlo nella natura di alcune riflessioni.
L’ossessione per il tempo che passa è un tema molto comune a tutti gli scrittori modernisti sia di prosa che di poesia e il buio regna sovrano in molti dei loro scritti. La combinazione di questi elementi crea un alone di confusione e spossatezza nei confronti della vita e dell’esistenza umana.
La sua crisi interiore e psicologica del 1921 non è che la conseguenza di una vita volta alla missione di tentare di mettere in ordine pensieri e idee. Non a caso la sua vita coincide con un periodo storico estremamente delicato, in cui il mondo inizia a cambiare proprio da quelle città post apocalittiche distrutte dalla guerra.
I Quartets sono lo specchio del pensiero spirituale e filosofico di Eliot, che molto si avvicinava alla dottrina buddhista Madhyamaka di Nagarjuna, focalizzata sulla “Via di Mezzo”. Nagarjuna aggiunge alla teoria della vacuità di Siddharta Gautama quella dell’interdipendenza dei fenomeni, secondo la quale ogni cosa dipende nella sua essenza da tutte le altre, dai fenomeni circostanti e intrinsechi.
Il secondo Quartetto presenta continue interconnessioni che rappresentano la ciclicità della vita, quasi fosse un indistruttibile cerchio di reincarnazioni. L’autore lo fa riprendendo un immaginario urbano, non parla esplicitamente di karma e dharma, ma i due concetti sono presenti negli edifici che bruciano, piscine che si svuotano lasciando il nulla ma trasformandosi in altro:
“In my beginning is my end. In succession
Houses rise and fall, crumble, are extended,
Are removed, are destroyed, restored, or their place
Is an open field, or a factory, or a by-pass.
Old stone to new building, old timber to new fires,
Old fires to ashes, and ashes to the earth
Which is already flesh, fur and faeces,
Bone of man and beast, constalk and leaf.”
(T.S. Eliot, 1943:23)
E così i quartetti riflettono nello stile quella confusione, quella fatica a decifrare, tradurre, la realtà. Mantra e aforismi riguardo il tempo si susseguono, in particolare riguardo la sua ciclicità sopracitata e di cui i quartetti sono un chiaro manifesto ideologico. Nel secondo Quartet questo particolare si nota soprattutto nelle varie declinazioni dell’inglese usate nella prima sezione. Dal Modern English si passa in continuazione e improvvisamente al Middle English, quasi a dimostrare anche linguisticamente la continuità del ciclo dell’esistenza, tra tempo passato e tempo presente (“Time present and time past are both perhaps present in time future”):
“On a summer midnight, you can hear the music
Of the weak pipe and the little drum
And see them dancing around the bonfire
The association of man and woman
In daunsinge, signifying matrimonie -
A dignified and commodiois sacrament.
Two and two, necessarye coniunction,
Holding eche other by the hand or the arm
Whiche betokeneth concorde.”
(T.S. Eliot, 1943:24)
Sia nei Four Quartets, sia in The Waste Land, lo stile riprende le Upanishad e la narrazione sincopata dei testi vedici e i temi trattati portano chiari riferimenti alla teoria della reincarnazione e al concetto di dharma del Bhagavad Gita.
Tutto nel mondo ha una sua prerogativa, un destino, un dharma, persino la battaglia di Arjun e le due Grandi Guerre che hanno annullato numerosi Paesi, che ora devono imparare a risollevarsi, a rendere “vecchie pietre nuove costruzioni”.
“Time present and time past
Are both perhaps present in time future,
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable”
(T.S. Eliot, 1943:13)
Eliot, T.S., The Waste Land, Faber and Faber, London, 2019.
Eliot, T.S., Four Quartets, Mariner Books Harcourt, New York, 1971.
Esnoul, Anne-Marie a cura di, Bhagavadgita, Adelphi, Milano, 1991.
Upton, Edward, Language in the Middle Way: T. S. Eliot’s Engagement with Madhyamaka Buddhism in Four Quartets, Journal of the American Academy of Religion, 2018.
Sri, P.S., T.S. Eliot, Vedanta and Buddhism, University of British Columbia Pr, 1985.