Le terapie di conversione: le pratiche di cui non abbiamo bisogno

Claudio Ciccotti

 Le chiamano terapie di conversione ma non hanno qualcosa di concreto da guarire perché non si riferiscono a disturbi o malattie. Note anche come “riparative” (pur non avendo alcun guasto da risolvere), le terapie di conversione sono un insieme di pratiche invasive a livello fisico e psicologico che, senza alcun fondamento scientifico, si rivolgono a omosessuali, bisessuali, lesbiche, trans e persone di qualsiasi altro orientamento di genere e sessuale

Lo scopo presunto è portare tutte e tutti verso ciò che, socialmente e culturalmente, è considerato la normalità: il binarismo uomo-donna tanto caro all’etero-patriarcato. Le terapie di conversione attaccano uomini e donne di età e nazionalità diverse, e sono diffuse in tutto il mondo, nonostante molti Stati e organizzazioni le abbiano messe al bando, marchiandole come forme di tortura vere e proprie.

 

1. Cosa sono le terapie di conversione o riparative

2. Parentesi storica

3. Cosa succede oggi

4. Conclusione

5. Fonti

 

1. Cosa sono le terapie di conversione o riparative

Si potrebbe pensare che le terapie di conversione siano pratiche diffuse solo in ambienti estremamente religiosi, avendo come bersaglio la comunità LGBT+. Non è così, però. 

Le terapie riparative sono state sostenute ampiamente anche dalla comunità scientifica che, nel corso di decenni, ha portato avanti una battaglia decisa: il nuovo spettro che si aggira nella società veste lustrini e paillette, e mina i valori tradizionali, quel porto sicuro in ogni momento di minaccia apparente.

La connessione proposta da questa prospettiva, che associa il concetto di “malattia/devianza” a quello di “orientamento sessuale/identità di genere”, però, è stata smentita proprio a livello scientifico da tempo: ad esempio, non c’è alcun fondamento a supporto del fatto che omosessualità e transessualità siano malattie. Quindi le terapie non hanno nulla da guarire e nulla da aggiustare. Eppure, l’iter che ha portato a questa smentita non è stato digerito fino in fondo. 

Lo dimostrano chiaramente ogni giorno gli slogan politici delle frange conservatrici di qualsiasi dibattito e nazione. Con argomentazioni che provano a scomodare leggi della natura, valori tradizionali e difesa dei minori, si inasprisce solo una profonda frattura nelle società democratiche: al netto dei singoli contesti nazionali, da un lato ci sono cittadini con diritti e doveri; dall’altro, invece, cittadini con soli doveri e nessuna possibilità di autodeterminazione. E, dato che la loro cosiddetta “devianza”, secondo questi schieramenti, è considerata al pari di una malattia, allora va curata, bloccata e prevenuta.

I metodi utilizzati dai promotori e divulgatori delle terapie di conversione possono spaziare da tecniche psicologiche di diverso tipo, fino a pratiche comportamentali e fisiche estreme, che includono esorcismi, isolamento, elettroshock, somministrazione di psicofarmaci, violenza fisica, digiuni e stupri (definiti, in maniera aberrante, come “correttivi”).

Spesso i soggetti che arrivano a subire queste pratiche sono per lo più adolescenti o, in generale, persone esasperate dai propri ambienti culturali e familiari, schiacciate da famiglie e comunità in cui sono giudicate per la loro natura.

 

2. Parentesi storica

Il primo tentativo di patologizzare l’omosessualità risale alla fine dell’Ottocento quando il sessuologo Richard von Krafft-Ebing la incluse nella sua Psychopathia Sexualis, tra le 200 pratiche sessuali “deviate”. 

Il testo non fu accolto con plauso unanime dalla comunità scientifica del tempo. 

A opporsi fermamente, per citarne uno su tutti, fu il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, che nel 1920 mise in guardia i colleghi sul fatto che tentare di trasformare un omosessuale in un eterosessuale si sarebbe rivelato fallimentare, tanto quanto il tentativo opposto. 

Certo, parliamo di Freud: voce rivoluzionaria per i suoi tempi e sostenitrice, inoltre, di una bisessualità innata. Il suo monito non bastò a fermare chi voleva stigmatizzare patologizzare l’omosessualità

Alla sua morte, nel 1939, psichiatri come Ovesey, Socarides, Kardiner e Radó rifiutarono in toto la sua posizione e promossero l’idea che l’omosessualità fosse una psicopatologia derivante dai rapporti con i propri genitori.

A seguire, nel 1966, forte dei suoi esperimenti, E.P. Seligman sostenne che un’alta percentuale di soggetti maschi sottoposti alle sue tecniche correttive aveva risposto positivamente all’abbandono di pratiche omosessuali abbracciando in toto la norma eterosessuale. L’entusiasmo si riversò ben presto fuori dalla comunità scientifica, scaldando l’animo di molti altri, pronti a portare le terapie riparative alla ribalta.

Solo successivamente, E.P. Seligman (1994) dichiarò che le sue evidenze erano sfalsate: chi, dopo le terapie, sembrava incline a una totale eterosessualità erano solo soggetti maschi che si erano dichiarati bisessuali sin dal principio, mentre sui soggetti gay le terapie ebbero effetto nullo. Queste informazioni sarebbero state pubblicate molto tempo dopo: nel frattempo, la prima edizione del 1952 del Manuale dei Disordini Mentali dell’American Psychiatric Association incluse l’omosessualità tra le patologie dell'uomo. Su questo scenario particolarmente fertile, le terapie riparative cominciarono a spopolare e attecchire.

Solo i moti di Stonewall del 1969 riuscirono ad arginare in parte la barbarie, portando l’attenzione di tutti nuovamente sui diritti spettanti alla comunità LGBT+ anche grazie a nuove evidenze scientifiche. Tra questi emergono gli studi di Alfred Kinsey ed Evelyn Hooker. 

Kinsey (biologo e sessuologo statunitense) sottolineò che l’errore fondamentale che si era fatto era stato quello di considerare l’omosessualità e l'eterosessualità come due aspetti distinti e che in realtà la sessualità è fluida, perché solo la mente cerca di creare modelli e categorie forzando ogni manifestazione umana ad aderirvi. La natura, invece, si manifesta raramente in categorie discrete. 

Hooker, invece, promosse uno studio psicologico atto a dimostrare il pregiudizio clinico verso l’omosessaulità: la psicologa, infatti, presentò a una serie di colleghi 60 casi (30 persone omosessuali e 30 eterosessuali) senza rivelare l’orientamento sessuale dei soggetti esaminati; nessuno dei colleghi fu in grado di distinguere gli omosessuali dagli eterosessuali, dimostrando quindi che, se l'omosessualità fosse stata davvero una grave psicopatologia, i suoi colleghi avrebbero dovuto riconoscerla. Invece, non fu così. Un passo in avanti decisivo in quel periodo fu spostare il focus della ricerca dall’omosessualità e la sua patologizzazione, all’omofobia e alle sue conseguenze.

Complice questo scenario di fermento analitico, nel 1973 l’American Psychiatric Association cancellò l’omosessualità dal Manuale suddetto, dopo una votazione in cui il 58% dei presenti fu favorevole. (K.H., 2007)

Eppure, l’intervento della comunità scientifica non fu sufficiente a placare gli animi, ormai più che surriscaldati: nel 1976, venne fondata Exodus International, l’organizzazione cristiana statunitense tra le più note di tutte le cosiddette “ex-gay”. Il suo scopo era dare supporto alle persone decise (per usare il suo lessico) a rimettersi sulla retta via, ad abbandonare le proprie abitudini sessuali e cancellare ogni traccia di devianza e peccato. Tornare ad abbracciare fede, rigore e norma sarebbe stato finalmente possibile. 

Exodus International chiuse battenti definitivamente nel 2013, con il mea culpa del presidente Alan Chambers che dichiarò che la terapia di conversione, dannosa e senza risultati, aveva promosso volontariamente una cultura omofoba per decenni. Fugò così ogni dubbio sulle reali intenzioni di aiuto e soccorso millantate agli esordi del gruppo. Certamente, non restituì dignità e serenità alle vittime del suo fanatismo. In alcuni casi, nemmeno la vita.

 

3. Cosa succede oggi

L’omosessualità è stata depennata definitivamente dall’elenco delle malattie mentali anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità il 17 maggio 1990, e la transessualità non è più considerata un disturbo mentale dal 2018. Con il ICD 11 da parte dell’OMS, entrato in vigore nel 2022, il concetto di incongruenza di genere è stato escluso dalle patologie mentali, insieme al concetto di orientamento sessuale egodistonico/disforia di genere. Nonostante ciò, le terapie di conversione continuano a essere praticate con convinzione in molti Paesi del mondo. 

Le terapie sono state condannate dalle principali associazioni che tutelano la salute mentale in Stati Uniti, Canada, Australia ed Europa. L’Onu le considera «immorali, non scientifiche, inefficaci e, in alcuni casi, equivalenti a tortura». Eppure, pochi Stati le hanno vietate davvero.

In quasi metà degli stati a stelle e strisce, le pratiche sono bandite sui minori ma la situazione è allo sbaraglio a livello legale e di tutela per chiunque, perché applicata in modo molto diverso di nazione in nazione. Recentemente, poi, il dibattito sullo stop alle terapie riparative, con una Corte Suprema più conservativa, è tornato pericolosamente a tuonare in aula. 

Nel mondo pochi Paesi hanno bandito le tecniche in questione, per legge, ufficialmente.

In Europa, oltre a una recente legge francese, nel 2016 Malta è stato il primo Paese ad agire contro le terapie riparative, mentre la Germania le ha vietate nel 2020 dopo una petizione indetta nel 2019. In Spagna solo 6 comunità autonome (Andalucía, Madrid, Cantabria, Aragona, la Comunità Valenciana e le Canarie) le contemplano nella loro legislazione (per quanto in maniera differente), mentre in Svizzera solo alcuni Cantoni si sono esposti fermamente contro le pratiche, ma solo per quanto riguarda i minori, lasciando parecchie zone d’ombra. Nel Regno Unito è esploso non troppo tempo fa il ‘caso’ Boris Johnson, che ha proposto il divieto delle pratiche, tranne che per le persone trans. Re Carlo III, invece, nel suo primo discorso da regnante, ha elencato i 21 progetti di legge e le iniziative previste dal controverso governo di Rishi Sunak per il 2024, tenendo fuori però il divieto alle pratiche promesso.

In Italia è un fenomeno più diffuso di quanto si creda, con associazioni che propongono cure, percorsi spirituali o terapie pseudo-psicologiche che promettono di guarire dall’omosessualità, vista appunto come malattia. L’unico tentativo effettivo di bandirle in Italia è stato fatto nel 2016, quando l’ex senatore Pd ed ex presidente di Arcigay Sergio Lo Giudice presentò un disegno di legge che prevedeva la reclusione fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro per chi le praticasse. Il ddl è caduto nel vuoto. Anche durante il dibattito scatenato dal ddl Zan contro l’omolesbobitransfobia è stato dato poco spazio alle terapie riparative. 

Per contraltare, spesso, figure ex-gay salgono alla ribalta mediatica: è il caso di Luca Di Tolve, citato dal cantautore Giuseppe Povia nella sanremese “Luca era gay”, che oggi propone corsi per diventare ex-gay proprio come lui. Oppure il caso del giovane Alessandro, che ha elevato la sua esperienza personale a un invito collettivo, a suon di “Pazzo sì, pazzo per Gesù”, accolto con tanto di meme, sfottò e remix musicali.

Nelle terapie di conversione, però, non c’è niente di comico: secondo un sondaggio del Trevor Project, circa 6 giovani su 10 appartenenti della comunità LGBT+ hanno raccontato che qualcuno ha cercato di convincerli a cambiare il proprio orientamento sessuale o identità di genere. Il 28% degli adolescenti che si sono sottoposti alle terapie di conversione ha tentato il suicidio, dopo essere scampati a somministrazione di farmaci, elettroshock, esorcismo, condizionamenti comportamentali, isolamento, privazione del cibo, abusi verbali e umiliazioni, ipnosi, percosse e altre violenze cosiddette “correttive”, stupro incluso (soprattutto sulle adolescenti e donne lesbiche).

Oltre ai report di OutRight Action International Irct, nel 2020 sono stati pubblicati anche un report degli Esperti indipendenti dell’Onu contro la violenza e la discriminazione basata su orientamento sessuale e identità di genere e uno di Ilga World, sempre con l’intento di testimoniare quanto siano effettivamente radicate nella società e vadano urgentemente eliminate.

Trans Media Watch Italia, l’osservatorio dei media a tema transgender, non-binary e gender creative, ha sottolineato come le terapie di conversione diventano dei buchi neri della propria esistenza: una volta attraversato quel tunnel di privazioni, costellato da traumi, nulla torna più come prima. Resta l’infelicità di non sentirsi a proprio agio con la propria sessualità e il senso di colpa diventa il motore delle loro vite. Le persone reduci da questa esperienza, tentano di suicidarsi 8 volte più di altre persone e sono 5,9 volte più inclini alla depressione rispetto a chi non le ha subite.

 

4. Conclusione

Si potrebbe fronteggiare la schiera di estremisti omofobi dicendo loro che l’orientamento sessuale non è un costrutto sociale ma espressione naturale.

Si potrebbe sfoderare il classico esempio per cui, tirando in mezzo specie animali differenti, si indichi ai più scettici che l’omosessualità è attestata anche nel regno non umano. 

Eppure, i fatti ci smentiscono: questo riassunto trova orecchie sorde ad ascoltarlo e questi esempi non sortiscono alcun effetto. Di anno in anno, aumentano le vittime delle pratiche di conversione che denunciano le torture subite.

C’è quindi bisogno di parlare delle terapie di conversione, capire come sono nate, perché si diffondono, smantellare la loro base epistemologica alla radice, eliminare il preconcetto culturale che permette loro di attecchire e diffondersi. 

Il dibattito politico attorno a questa tortura deve portare un solo effetto: la definitiva messa al bando delle terapie di conversione; una solida legislazione a supporto di chi potrebbe esserne ancora vittima; un serio provvedimento su chi resta impassibile a tutto o le perpetua direttamente.

Le minacce più pericolose sono proprio quelle che restano invisibili e agiscono silenziose, e ci sono silenzi a cui si può rispondere solo col rumore di gesti concreti.

 

5. Fonti

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