Fenomenologia della Cancel culture: tra Woke Capitalism e diritti delle minoranze

Emanuele Monaco

“Gli eccessi della cancel culture”. Basta cercare queste parole su qualsiasi motore di ricerca per scoprire un universo di pagine, articoli, opinioni, post, interviste, tutti con la stessa conclusione: la folla di giustizieri social è fuori controllo e a caccia di prede; la libertà di parola non esiste più; bisogna cambiare le impostazioni della privacy ai vecchi post sui social; mantenere un profilo basso e stare attentissimi alle parole usate. Potrebbe sembrare un’esagerazione però, soprattutto in ambiente statunitense, la stragrande maggioranza delle persone ritiene che lo spazio di libertà di espressione si sia drasticamente ridotto e per molti commentatori la colpa è di una cultura della cancellazione (appunto, cancel culture) figlia di nuovo puritanesimo progressista

Questi usano le parole cancel culture per indicare un ampio spettro di casi: dal licenziamento di una persona per aver espresso liberamente idee controverse al ritiro di un libro, fino a includere petizioni per ritirare la tenure a professori o, recentemente, iniziative volte a punire culturalmente la Russia. Che siano casi di giustizieri di Twitter o cosiddette shitstorms, fino a intimidazioni e minacce, il numero dei casi che la stampa e parte dell’opinione pubblica attribuiscono alla cancel culture è in continuo aumento. 

 

1. Tra cancel culture e cultura della responsabilità

2. Il dibattito pubblico e le scuole

3. Il capro espiatorio moderno

4. Woke Capitalism

5. Sitografia

 

1. Tra cancel culture e cultura della responsabilità

Naturalmente c’è una diversa fazione che descrive molti di questi casi come parte di una accountability culture, ossia una cultura della responsabilità, che si riferisce all’idea per cui alcune parole o atti, anche se non puniti dalla legge, possano portare a conseguenze sociali e professionali se offendono o urtano la sensibilità comune. Il termine accountability però è problematico se uno pensa al suo uso solito, per indicare la fedeltà di dipendenti privati o cariche pubbliche a precise gerarchie, obblighi costituzionali e impegni di produzione. Usare il termine per giudicare i liberi comportamenti sociali delle persone porta la mente a scenari poco confortanti.

Queste due visioni non riescono a entrare in un dibattito coerente perché gli attori sono troppo impegnati a parlarsi l’uno sull’altro come in un pollaio televisivo italiano. Il problema ulteriore è che i termini vengono usati senza permetterne il significato e qualcuno dovrebbe decidersi a dare le definizioni delle parole che usa. Chi si lamenta della cancel culture dovrebbe chiarire che cosa sta denunciando. Davvero vuole che tutti dovrebbero poter fare o dire quello che vogliono senza poter essere criticati, denunciati, licenziati per questo? Chi è rassicurato dalla mancanza di problema perché si tratta solo di accountability, potrebbe definire meglio i confini delle conseguenze “accettabili” di azioni e parole controverse e offensive? La risposta molto probabilmente sarebbe “è più complicato di così”, il che sarebbe un ottimo inizio

Nonostante cancel culture possa apparire un termine senza molto senso e, al contempo, interpretabile in troppi modi, c’è un problema (se proprio vogliamo chiamarlo così): si registra una crescente tendenza alla condanna frettolosa di personaggi pubblici o meno, anche solo a causa di idee espresse male o non in linea con il sentire di una precisa comunità. Specialmente nel mondo anglosassone, lo spazio di libero dibattito nei campus universitari si è molto limitato. Esattamente come ha scritto il New York Times, molte persone decidono di non partecipare al dibattito pubblico proprio per paura di dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato e quindi di diventare vittime di shitstorm. Allo stesso tempo questa è una tendenza che non ha colore politico, anche se la stampa decide di usare cancel culture solo quando viene da ambienti cosiddetti progressisti

Quello del capro espiatorio da cancellare è un fenomeno antropologico sempre esistito. Oggi però è incanalato ed estremamente amplificato dai social, nelle sue manifestazioni nel mondo dell’impresa, dove serve a precise logiche capitalistiche e di marketing. Il continuo attribuire alla cancel culture anche le forme più moderate di dissenso sta creando una narrazione vittimistica da parte di élite interessate a tenere a bada precise istanze sociali e civili. Anche per questo, uscire dalla tentazione della cancel culture serve prima di tutto a chi fa attivismo e politica, proprio perché inutile e figlio delle stesse logiche sistemiche che si dice di volere abbattere. 

 

2. Il dibattito pubblico e le scuole

Ormai, nel dibattito pubblico, dire cancel culture significa aver espresso una precisa opinione riguardo il fenomeno, anche senza esplicitarlo. 

Questo concetto amorfo non indica un movimento o una cultura (di qui il poco senso dell’espressione). Non c’è un’ideologia dietro, non un manifesto o regole di impiego, anche se certa stampa o narrazione politica vorrebbe che lo credessimo. 

Di fatto è l’evoluzione di quello che prima veniva chiamato call-out, cioè lo smascherare e indicare per nome la persona che ha commesso un abuso o un’offesa, usata soprattutto dai movimenti #MeToo e Black Lives Matter per denunciare pubblicamente molestatori, stupratori e poliziotti omicidi.

Essendo questi movimenti parte di quello che generalmente viene chiamato mondo progressista, questa tendenza al call-out (poi progressivamente chiamata cancel culture) è stata sempre più associata a presunti estremi di una politica cosiddetta woke. Quest’altra parola, proveniente dal vernacolare afro-americano, è finita con l’essere usata in modo dispregiativo proprio per indicare chi sembrerebbe avere come missione di vita quella di vigilare sulla condotta del prossimo con una lente progressista. Questo, però, naturalmente, può benissimo descrivere casi di call-out avvenuti con protagonisti attivisti di destra o persino del famigerato “centro moderato”. Per non parlare dell’ondata censoria ben più allarmante e pericolosa messa in campo dalle istituzioni in molti stati americani a guida repubblicana. Anzi, ci sarebbero molte buone ragioni per dire che le cose stanno molto diversamente da come ce le descrive la stampa: le nuove guerre culturali americane non sono fatte di aziende che cancellano e zittiscono dipendenti, o contenuti di tendenza woke.

Il campo di battaglia sono in realtà le scuole, cosa possono insegnare e proporre a chi le frequenta. Autori di libri a tema razziale o sessuale (un esempio su tutti Maia Kobabe con il suo Gender Queer a Memoir) sono diventati le vittime sacrificali di una call-out culture tutta di destra e strumentale a una crociata sui diritti educativi. 

Anche per questo ha sorpreso molti il modo in cui fu espresso il timore per questa presunta “atmosfera tossica” nella famosa lettera pubblicata su Harper’s Magazine nel 2020. Come si fa a focalizzarsi sul denunciare questa tendenza nelle università e nelle aziende culturali, quando ci sono istituzioni statali che, usando la legge, intervengono pesantemente sui curriculum scolastici per passare purity tests con una base sempre più radicalizzata? Parte della nostra classe intellettuale sta per caso perdendo completamente la bussola? 

Dopotutto, a prima vista, non si capisce precisamente cosa quella lettera, come altri interventi pubblici successivi, denunciasse: sono sempre stati posti dei confini a ciò che era accettabile dire o fare; le istituzioni hanno sempre tentato di punire azioni o dichiarazioni che le mettevano in cattive luce o ne minacciavano la reputazione; picchetti, petizioni, proteste, call-out a cui seguivano azioni censorie hanno sempre fatto parte del vivere democratico e accademico, in negativo o in positivo. In questo senso quindi la cancel culture è sempre stata tra noi. Quindi cosa è successo da far allarmare così tanto accademici, opinionisti e redazioni? 

Forse sarebbe il caso di cominciare ad analizzare le cose separando la tendenza al call-out così come si manifesta sui social e le vere motivazioni che spingono istituzioni e aziende a rispondere “cancellando”. 

 

3. Il capro espiatorio moderno

Se anche qualcuno potrebbe pensare che le nuove forme di call-out siano legittimi metodi per denunciare abusi e discriminazioni, soprattutto quando lo stato fallisce nel suo compito di proteggere i diritti e la vita dei suoi cittadini più deboli e marginalizzati, i canali social hanno facilitato e amplificato la trasformazione del call-out in una forma di bullismo di massa. Anche se è vero che questo fenomeno impallidisce di fronte al pericolo dell’azione censoria dello stato (checché ne dica chi cade nella trappola centrista di mettere le due cose sullo stesso piano), è innegabile che stia inquinando il nostro vivere democratico

Ciò che è sempre più evidente è la manifesta necessità di molti utenti di riunisci in un rituale non più di semplice call-out ma di pubblica condanna, come se la modernità dei social network avesse contribuito a rievocare in nuova forma antichi riti di capri espiatori e sacrifici umani. 

Il moderno capro espiatorio va a ricoprire varie funzioni. Denunciarlo incrementa il proprio status sociale, indica pubblicamente il nemico di un preciso gruppo, rafforza i legami tra persone che non si conoscono ma si trovano casualmente in quel momento dalla stessa parte. L’azione forza membri interni del gruppo a dichiararsi, rendendo manifeste istanze di dissenso interno, ma soprattutto produce soddisfazione, un senso di compiacimento e gratificazione istantanea e a poco costo. Si è talmente concentrati a stare dalla parte giusta della shitstorm che si dimentica l’antico ruolo del capro, cioè essere eletto unico responsabile di un peccato che era però collettivo e di sistema.

Ligaya Mishan sul New York Times ha intelligentemente richiamato l’analisi novecentesca di Ruth Benedict sulle differenze culturali tra Occidente e Giappone riguardo il ruolo di colpa e vergogna per evidenziare il cambio di paradigma nei moderni rapporti sociali. La colpa, di derivazione giudaico-cristiana è la sofferenza dovuta al non aver potuto vivere secondo degli standard morali comunemente codificati dalla religione, dall’ideologia o dalla legge, anche in assenza di sanzioni sociali: “Ma la crescente atomizzazione della società americana nel 21esimo secolo ha portato ad una confusione del comune sentire”.

Gli standard morali si sono diversificati e si sono disancorati, così come le istituzioni comunemente riconosciute che codificano il bene e il male, e come il premio e la colpa hanno perso valore e autorità. Allora forse, a meno di una rivoluzione, non rimane altro che ricorrere alla vergogna e al pubblico ludibrio, come nelle società pre-illuministe. Come Benedict ricorda, la vergogna “ha bisogno di un’audience”, della paura del ridicolo e critica dall’esterno. In questo aiuta comunità riunite intorno a propri codici morali a separare da sé bene e male, loro e noi. La parola “cancellare” dopotutto è imparentata con “cancello”, nel senso di barriera, ma anche “carcere”. È inoltre anche una parola che in inglese deriva dal lessico del consumo. Puoi cancellare una sottoscrizione, un assegno, una transazione, un programma, un appuntamento. Evidentemente nella nuova era dei rapporti sociali si è cominciato a pensare di applicare il significato anche alle persone, costrette a scomparire per via del pubblico ludibrio. 

Non è una sorpresa che molti critici della cancel culture la paragonino al puritanesimo, al giacobinismo nel XVIII secolo o alla rivoluzione culturale cinese degli anni ’60-’70, perdendo però di nuovo il focus, lasciandosi tentare da paralleli offensivi e argomenti fantoccio (i cosiddetti strawman). 

La shitstorm infatti non ha alcuna delle caratteristiche di regimi dittatoriali o società teocratiche. Non c’è una gerarchia, logiche di apparato o un’organizzazione. È un fenomeno spontaneo ed egualitario, con obiettivi che cambiano di giorno in giorno, dipendendo dal momento, dalla comunità di riferimento, dalla propria scala di valori, dal peccato commesso dalla persona di turno. In questo senso il prossimo potrebbe essere chiunque e per qualunque motivo. Ed è qui sia il suo valore sia il suo profondo limite

La realtà è che la cancellazione offre a chi la fa un’alternativa abbozzata e confusa di un processo giudiziario, con i suoi rituali anche se piuttosto caotici. Dà l’illusione alla gente di poter processare chiunque, persino chi occupa posizioni di potere e privilegio, giudicarli e ricoprirli di scherno, come se per un istante le strutture, le egemonie, i rapporti di forza fossero sospesi e si potesse far prevalere la propria versione di giustizia. 

Così forse si spiega anche l’attrazione che questo esercita su alcuni membri di comunità discriminate come quella LGBT+. La società naturalmente rimane la stessa, fatta di oppressione e mancanza di diritti, violenza e discriminazione, però, come succedeva durante il carnevale nel medioevo, è data una valvola di sfogo, l’illusione di poter fare call-out di mali che in realtà sono codificati strutturalmente nelle nostre società identificando ogni tal volta un capro espiatorio diverso. 

 

4. Woke Capitalism

È in questo contesto che navigano oggi le aziende, incluse quelle culturali come le università. Queste istituzioni, motivate e spinte puramente dall’istinto di preservazione e dal massimizzare profitto, si trovano a dover agire in un ambiente in cui molti consumatori supportano cause politiche apertamente e vocalmente, progressiste o conservatrici a seconda del posto dove vivono, della loro formazione, network sociale e storia familiare. I valori di questa o quell’altra comunità quindi diventano dei potenti mezzi di marketing. La pubblicità vuole avere qualcosa di poco costoso, poco impegnativo ma di forte effetto di immagine. Quindi l’istinto di fronte al carnevale delle shitstorm è di fare ciò che è conveniente dal punto di vista del marketing: liberarsi di persone e iniziative scomode, immolando il capro sperando che basti a ingraziarsi i consumatori. 

I social hanno reso impossibile per le aziende ignorare i problemi di immagine. Una volta le reazioni avvenivano in casa, per telefono, al bar. Oggi tutto avviene nella pubblica piazza. Si convocano quindi riunioni di urgenza, dirigenti vengono tirati giù dal letto, dipendenti vanno sotto review, e infine qualcuno viene licenziato o un prodotto cancellato. Impaurite dai danni reputazionali che una singola shitstorm può causare, le aziende si stanno dimostrando ciniche, avventate e frettolose nel trattamento dei propri dipendenti, soprattutto in paesi dove le leggi sul lavoro permettono licenziamenti senza giusta causa. 

Questo perché, anche se a volte le cancellazioni sono volute e richieste (e in alcuni casi meritate), in molte altre occasioni le persone che partecipano a una discussione social non vogliono cancellare nessuno: si sono semplicemente inserite nella discussione di tendenza del momento; criticano qualcosa che considerano offensivo o addirittura pericoloso; prendono in giro; vanno a caccia di retweet e reazioni; condividono meme. Magari singolarmente non stanno chiedendo un licenziamento. Collettivamente però è quello che ottengono.

Naturalmente in questo contesto non c’è alcun incentivo a farsi portavoce o supporter di vere istanze di cambiamento, sia delle culture aziendali sia delle strutture sociali. In questo Woke Capitalism importa la reputazione del momento, il poter essere dalla parte giusta della cancellazione, il poter vestire il logo dei simboli del giorno. 

Quanto costa licenziare qualcuno di irrilevante da dare in pasto alla folla o fare diversity training? Perché cambiare davvero le cose quando puoi semplicemente organizzare un seminario? Il problema ulteriore è che per essere efficace mediaticamente una cancellazione deve essere pubblica e non privata, come di solito avviene con un semplice licenziamento. In questa era però un evento del genere può andare a definire la tua futura identità online. La persona licenziata o cancellata probabilmente non troverà più lavoro, dovrà cambiare casa, scomparire.

Quando si parla di eccessi della cancel culture in realtà in tanti casi si tratta semplicemente di uffici marketing e HR che reagiscono anche in maniera esagerata ad animate discussioni social. Perché l’incentivo economico è di seguire l’onda di marea, di arrendersi alla pressione dell’attivista di Twitter, quel tanto che basta per toglierselo di torno, fino a che l’attenzione non si sposta altrove. 

È quindi evidente il motivo per cui soprattutto i movimenti progressisti debbano riconoscere la cancel culture come esistente e come parte integrante del moderno discorso capitalista, così da poterla togliere dall’arsenale dell’attivismo per concentrarsi sul cambiamento vero di cui le comunità discriminate hanno seriamente bisogno per autodeterminarsi. 

Riporre la questione della responsabilità sociale nel posto che merita, cioè nel campo delle legittime decisioni di un’istituzione di censurare comportamenti che si ritengono incompatibili con la propria mission di mercato, serve soprattutto a svincolarsi da questa surreale mistificazione, cioè che il moderno radicalismo si debba accontentare della sua variante social, con i suoi risultati cosmetici e convenienti. Il woke capitalism è quello che ad esempio è ben contento di finanziare marce del Pride, ma solo se declinate in festa sponsorizzata, mai nella rivolta che è in realtà. 

Aver creato una cultura in cui anche l’omolesbobitransfobia e la violenza sulle donne sono fattori di intervento da parte delle aziende sui propri dipendenti è da una parte il simbolo di un cambiamento di sensibilità riuscito nella società moderna, ma dall’altra ne rivelano la superficialità. Il queerbaiting delle aziende, il pinkwashing di tantissime iniziative di mercato sono una trappola da cui l’attivismo si deve ben guardare. Boicottare e fare petizioni rimangono tra i nostri diritti democratici. Il pubblico ludibrio ha i suoi usi nel dibattito pubblico, soprattutto quando i rapporti di forza sono completamente sbilanciati dall’altra parte, però non è tutto: può mettere a posto la coscienza degli alleati, ma chi fa vero attivismo sa troppo bene come le istanze di cambiamento siano ben altre

 

5. Sitografia

Cancel Culture and the problem of Woke Capitalism, TheAtlantic.com (data ultima consultazione: 09/05/2022

America has a free speech problem, NYTimes.com, (data ultima consultazione (09/05/2022)

The long and tortured history of cancel culture, NYTimes.com (data ultima consultazione (09/05/2022)

Il libro che non dovrebbe esistere: la guerra contro Gender Queer, LettereTJ.it (data ultima consultazione (09/05/2022)

 

Foto 1 da michelle-antoinette.com (data ultima consultazione (16/05/2022)

Foto 2 da tucmag.net (data ultima consultazione (16/05/2022)

Foto 3 da rukita.co (data ultima consultazione (16/05/2022)

Foto 4 da thevigilantmindblog.wordpress.com (data ultima consultazione (16/05/2022)