Antonio Gerardi
Successo, fiducia in se stessi, possibilità di affermarsi al meglio a livello personale grazie alle proprie capacità: sono queste alcune delle parole d’ordine che già a un secolo o poco più dalla Dichiarazione d’Indipendenza costituiscono la base sulla quale è edificato il Sogno Americano, che nonostante peripezie di ogni genere è vivo ancora oggi, nel 2013. Ma quante volte questo grande edificio ha rischiato di crollare? Già dalla fine della Guerra Civile, nonostante l’espansionismo che è la grande chiave di lettura del periodo 1865-1910, sono tanti gli intellettuali che per la prima volta mettono in dubbio sistematicamente le fondamenta del Sogno; Mark Twain arriva ad affermare che trovare l’America “è stata una cosa meravigliosa, ma mancarla sarebbe stato anche più bello” .
Tra gli uomini che compiono questa operazione di messa a nudo e di smascheramento delle contraddizioni alle base dell’identità nazionale si distingue Jack London (1876-1916). Lo scrittore di San Francisco aveva infatti, come tanti dei suoi predecessori e ispiratori (Melville e Twain per citare i più ovvi e immediati) una conoscenza analitica della situazione sociale, economica e culturale statunitense, dovuta all’esperienza diretta dei fatti.
“Ho vissuto la mia infanzia nei ranch della California, l’adolescenza vendendo giornali per le strade di una fiorente città dell’Ovest, e la giovinezza nelle salubri acque della baia di San Francisco e dell’Oceano Pacifico. Amavo vivere e lavorare all’aperto, facendo i lavori più pesanti. Non imparando mai un mestiere, ma passando da un lavoro all’altro, ho visto il mondo e mi è piaciuto in ogni sua minima parte”.
Questa è l’America dal punto di vista del giovane London; il quale però, all’indomani della crisi degli anni ’90 del XIX secolo, ha fatto esperienza dell’America dei vagabondi e delle vite “iniziate sotto buoni auspici come la mia, con una prestanza fisica uguale se non migliore della mia, finiti lì, sotto i miei occhi, al fondo della fossa sociale” . Si tratta dell’America dello sviluppo industriale e delle grandi masse di lavoratori, delle fabbriche, del lavoro minorile; l’America degli agricoltori e dell’uguaglianza è di fatto sparita, l’innocenza è perduta. Quasi tutto è stato sacrificato in nome dello sviluppo economico ma, nonostante questo, tanti dei miti, delle tradizioni e delle idee che avevano contribuito alla fondazione dell’America sono ancora formalmente vivi, se non nell’esistenza quotidiana, nell’immaginazione e nei sogni della popolazione statunitense di inizio XX secolo.
Tra l’estate del 1907 e l’inverno del 1908 London è a bordo dello Snark, e solca i mari tropicali impegnato in uno dei numerosi viaggi che occuperanno la sua breve vita. Qui attende alla composizione di uno dei suoi romanzi più importanti, quel Martin Eden che è grande esempio di dignità e creatività artistica. Difatti, all’interno del romanzo è possibile rintracciare spunti di ogni tipo, da complicate riflessioni epistemologiche a spaccati sociali vivaci e realistici, che fanno da sfondo alla vicenda del protagonista, giovane marinaio impegnato in una scalata sociale entusiasmante, suo unico mezzo per conquistare Ruth, giovane donna dell’alta borghesia di San Francisco.
Ciò che si vuole sottolineare in questo scritto è la continua critica che London opera nei confronti delle basi dell’identità americana, il suo continuo sospetto riguardo alle illusioni coltivate dagli americani del suo tempo, che pongono ancora tutta la loro fiducia in miti, simboli, idee ormai morte e sepolte, che di fatto nella società statunitense non trovano spazio: una vera e propria decostruzione di un’identità, che prende tanto spazio in un’opera densissima. Una sfida alla civiltà americana, una denuncia aspra e piena di disillusione che, come vedremo, non lascia l’autore privo di speranza.
Al termine dei cinque anni del “Rinascimento americano” (1850-1855), il principio cardine della “religione civile” americana era l’individualismo. Questa era infatti la parola ricorrente negli scritti dei grandi esponenti della scuola trascendentalista, da Emerson a Whitman – per i quali la parte è importante quanto il tutto – fino a Thoreau, la cui speculazione filosofica era nettamente sbilanciata a favore dell’individuo, e che portò l’ideale di majority of one e di rispetto estremo dell’individuo nella pratica, in seguito all’imprigionamento che lo portò alla composizione di On the duty of civil disobedience. E non furono solo i trascendentalisti ad affermare l’importanza della self-reliance nel sistema di valori statunitense: il concetto era già presente da tempo nell’etica puritana – era uno degli insegnamenti fondamentali del calvinismo – e, più che un valore a livello civile ed etico, lo si puo’ considerare una vera e propria fede, a cui credere ciecamente e fiduciosamente.
Qual è la prospettiva di London? È una prospettiva completamente diversa da quella ottimistica delle precedenti scuole di pensiero che avevano fortemente contribuito alla creazione dell’identità americana ed è la prospettiva, come si è detto prima nella breve citazione biografica, di un uomo che era stato un individualista nella giovinezza, e che aveva vissuto sulla propria pelle le conseguenze dell’attuazione pratica, nella vita quotidiana, di questa filosofia di vita; e questo tratto biografico è reso alla perfezione in Martin Eden. Anche Martin è un feroce individualista, una “bestia bionda” nietzscheana, un animale da competizione, sia inconsciamente, nell’ignoranza (quando è un giovane violento e competitivo, incapace di arrendersi durante le risse più feroci) sia quando acquisisce le basi filosofiche ed etiche necessarie per fare dell’individualismo il suo unico valore, la sua guida e il suo mezzo per raggiungere degli obiettivi ben precisi. E Martin è davvero un grande individuo: sin dal principio della narrazione ci viene rappresentato dotato di capacità sia fisiche sia immaginative fuori dalla norma, capace di formulare analogie e opposizioni in modo istintivo:
Sotto quel corpo muscoloso, si nascondeva in realtà una sensibilità fremente. Era sufficiente il più leggero impatto del mondo sulla sua coscienza perché pensieri, simpatie ed emozioni iniziassero a saltare e a giocare come lingue di una fiamma. Straordinariamente ricettivo e reattivo, possedeva una immaginazione sempre tesa, che lavorava ininterrottamente per stabilire relazioni di somiglianza e differenza.
Sono queste qualità, abbinate all’inscalfibile fiducia che è tipica dell’individualista, ad accompagnare Martin nella sua lotta per arrivare al successo che lo condurrà all’amore.
Ma cosa rimane a Martin alla fine della corsa? Le sue convinzioni lo condurranno (casualmente, come si affermerà in seguito) al successo; ma la meta non vale il viaggio. La competizione lo ha completamente sfibrato, ma arriva a possedere ciò che ha cercato nell’arco del romanzo: è ricco, affermato e puo’ sposare Ruth, che dopo averlo abbandonato nella difficoltà, lo cerca non appena la sorte gli arride. Per usare le parole di London, Martin ha visto “la colossale mediocrità senza amore della borghesia” , ha scoperto di avere amato un’idealizzazione e non una vera donna e ha esaurito le motivazioni per cui continuare a combattere. E nella sua coerenza, sceglie la morte e non la vita, che “era diventata una malattia, qualcosa di insopportabile”.
È proprio il processo che porta Martin dalla pienezza fisica al rifiuto della vita a mostrarci il sospetto e il disprezzo con cui London guarda alla filosofia dell’individualismo: Martin perde la vita poco a poco, e i momenti in cui si rende conto di odiare la vita sono tra i più forti della narrazione; per Martin “non c’era alcun piacere nell’essere sveglio”, è disgustato da ciò che una volta lo entusiasmava, l’amore e la scrittura (“Le pagine stampate lo annoiavano. Non capiva come si potessero trovare così tante cose sulle quali scrivere”).
In conclusione per l’autore l’individualismo, se non supportato da motivazioni – che non possono però durare eternamente in quasi tutti i casi – è una filosofia pericolosa, che porta al male di vivere e all’odio per la vita; essendo individualisti, non si riesce ad andare oltre se stessi. Come vedremo in seguito, egli oppone all’individualismo qualcosa di perpetuo, la fede nell’uomo, che è il vero valore che consente di vivere pienamente, e che sarà la linea guida del London scrittore adulto, assieme al socialismo. Non è un caso che l’alter ego del London maturo, Brissenden, dica queste parole a Martin:
“Sai, mi piacerebbe vederti diventare un socialista prima di andarmene. Darà una finalità alla tua esistenza. Ed è l’unica cosa che ti salverà nei tempi di disillusione che ti aspettano. Sei pieno di salute e di anni da vivere. Devi essere ammanettato alla vita in qualche modo”.
Un fine per l’esistenza: ciò che manca all’individualista; disillusione: ciò a cui l’individualista, inevitabilmente, va incontro. Insomma, i tempi della competizione feroce e senza limiti, della lotta senza quartiere per la sopravvivenza e l’affermazione personale devono, per London, terminare ad ogni costo.
Nella parte iniziale del romanzo il narratore ci presenta Martin come giovane marinaio rozzo, volgare e semi-analfabeta: la sua prima visita a casa Morse si verifica poiché egli ha salvato uno dei componenti della famiglia, Arthur, durante una rissa. Martin all’inizio della narrazione è quindi al fondo della piramide sociale: è povero, poco acculturato, e percepisce la sua inferiorità in ogni momento, specialmente quando si trova di fronte Ruth. E proprio Ruth sarà il motivo che spingerà Martin a tentare la scalata: per sposare la donna amata, egli ha bisogno di elevarsi dalla sua condizione, di diventare un borghese, un uomo in grado di assicurare a sua moglie tranquillità e benessere economico.
Sin dalla fondazione, gli Stati Uniti si erano affermati come terra dell’opportunità, una società mobile e in continuo cambiamento: già nelle opere di Crèvecoeur e nella propaganda post-rivoluzionaria si rappresentava l’America come terra libera dal giogo della nobiltà e dei grandi proprietari terrieri: è grazie al lavoro e al merito che si riesce ad affermarsi – e ad elevarsi – all’interno della giovane società statunitense.
“Here the rewards of his industry follow with equal steps the progress of his labour; his labour is founded on the basis of nature, self-interest; can it want a stronger allurement?” (John Hector St. John De Crèvecoeur)
Attraverso la storia di Martin, London mette in evidenza come questo principio, che costituisce la vera base del successo degli Stati Uniti a livello mondiale – ad esso è difatti dovuta l’immigrazione di massa che caratterizzava l’America, e specialmente San Francisco, porto accogliente per migliaia di asiatici e messicani speranzosi anche ad inizio ‘900, – sia stato completamente disatteso o, nel migliore dei casi, frainteso. È un falso mito perché la classe dominante del tempo, la grande borghesia che l’ingenuo Martin di inizio romanzo vede come classe perfetta, è in realtà gelosa dei privilegi acquisti, e diffidente nei confronti delle classi più disagiate e bisognose.
Si legga a questo proposito l’opinione della madre di Ruth, la signora Morse, personaggio secondario come tutti i componenti della sua famiglia (eccetto Ruth), che London utilizza per sottolineare vizi e contraddizioni delle classi più elevate:
“Come ho detto, e so che sei d’accordo, il signor Eden è un irresponsabile. E perché non dovrebbe esserlo? I marinai sono così. Lui non ha mai imparato a risparmiare, a vivere in modo ordinato. Ha vissuto sperperando per anni e questo lo ha segnato. Non è colpa sua, naturalmente, ma ciò non cambia la sua natura”.
Questa è la situazione registrata da un fedele realista quale London: quel “ciò non cambia la sua natura” è la reale espressione dell’opinione di una parte della società americana di fronte a quello che dovrebbe essere uno dei valori fondanti della vita sociale del Paese.
Martin, che è in realtà un grandissimo lavoratore, che nella sua attività di scrittore mette impegno e passione, è bloccato da un’immagine stereotipata. E anche la sua amata Ruth intende il concetto di elevazione sociale diversamente rispetto all’idea che è alla base del Sogno Americano: Ruth non desidera che Martin si affermi socialmente grazie alle sue capacità di scrittore, ai suoi meriti e ai suoi talenti; preferisce fantasticare su un’ideale immagine di uomo di successo, al quale Martin dovrà corrispondere: esattamente il contrario della affermazione libera che è alla base della “religione civile” americana, poiché Martin non può affermarsi facendo ciò che desidera, ma è costretto ad essere plasmato. Si tratta di “un’antica tragedia, quella dell’insularità che vuole dettare legge all’universo”.
Certamente, Martin alla fine della storia è un uomo affermato, ricco e di successo, ammesso nei salotti buoni, conteso dai più alti esponenti della borghesia di San Francisco, ed è egli stesso, almeno formalmente, un uomo di condizione borghese. Ma quell’affermazione personale è forse arrivata attraverso gradualmente, attraverso gli equal steps di cui parla Crèvecoeur nella sua lettera propagandistica? La risposta è negativa; nel contesto sociale in cui Martin si muove, soffre e lotta per la sopravvivenza, avere successo o meno è una questione affidata al caso. Le prime soddisfazioni arrivano quando Martin aveva deciso di abbandonare la battaglia, a quel punto la sorte cambia ma il narratore ci informa subito che “era troppo tardi”. E scrivendo della pubblicazione del saggio che catapulta Martin nella celebrità e nella ricchezza, e alla definitiva affermazione sociale ed economica, si legge esplicitamente la parola “miracolo” : il successo e l’affermazione non sono quindi conseguenza di un sistema basato sul merito, ma meri accidenti del caso.
Quando London scrive Martin Eden, gli Stati Uniti non sono più un paese composto da una maggioranza di contadini poco scolarizzati come agli albori della colonizzazione: è ormai presente una affermata classe borghese, un solido mercato editoriale sempre più in crescita, una vita culturale distaccata dall’ingombrante influenza europea, numerose riviste fondate in questo periodo. E fu proprio la classe borghese il motore dell’espansionismo che caratterizza gli anni tra il 1865 e il 1910: le grandi famiglie borghesi controllavano fabbriche e risorse importanti, e i figli della borghesia venivano spediti nei numerosi college aperti in quel periodo, che arrivarono al massimo della popolarità nel ventesimo secolo (basti pensare a Stanford).
Ma come erano istruiti gli esponenti delle classi agiate statunitensi del periodo? Utilizzavano concretamente la cultura che avevano acquisito nelle scuole americane? E i veri artisti, i poeti, gli intellettuali, avevano un impatto sulla società? La letteratura riusciva a mantenere una funzione concreta nella società del tempo? Non si dimentichi che il concetto di letteratura utile è alla base, ancora una volta, del pensiero di Emerson, secondo il quale il poeta è un uomo di pensiero e di azione, che influisce direttamente sul contesto in cui agisce, che è il campione dell’osservazione pragmatica; ed è importante anche sottolineare che nella storiografia classica americana, nell’insieme di tradizioni (vere o false che siano) che formavano le memorie comuni dell’intera popolazione abbondavano gli intellettuali e gli uomini politici ricoperti da un’aura mitica – basti pensare a Franklin, che era quasi venerato anche in Francia, o a opere quali Life and Memorable Actions of George Washington in cui “è narrato il famoso, e apocrifo, apologo in cui Washington bambino, dopo aver abbattuto un albero di ciliegio, lo confessa al padre con le celebri parole <<Padre, io non posso mentire>>” .
La situazione presentata da London è completamente diversa sotto tutti i punti di vista.
La critica all’istruzione delle classi agiate è impietosa, ed è l’appunto più urticante e spietato che l’autore fa ai borghesi: se la superficialità di personaggi come il signor Butler, o il signor Morse, o il banchiere Charly Hapgood, è evidente e subito sottolineata dal narratore, è più interessante seguire i processi mentali di Ruth: divisa tra l’amore (sincero, apparentemente) per Martin e i codici di comportamento della sua classe, Ruth deciderà di essere fedele a questi ultimi; e il suo schierarsi contro l’amore sarà il colpo di grazia finale per Martin, la sua condanna all’apatia. Questa rappresentazione della limitatezza mentale borghese è accompagnata a una severa critica al non-utilizzo che essi fanno della cultura accumulata mnemonicamente e acriticamente negli edifici della supposta istruzione libera: in una breve ma fondamentale conversazione con un personaggio secondario, Will Olney, troviamo l’opinione di London riguardo alla cultura borghese:
“Che senso ha la nostra istruzione, la tua e la mia e quella di Arthur e quella di Norman? Siamo imbevuti di cultura generale, ma se oggi i nostri cari papà fallissero, noi non saremmo capaci nemmeno di superare gli esami per diventare insegnante”.
Ciò che non ci hanno detto è che tutte le persone di un certo rango devono studiare il latino, ma non è necessario che quelle stesse persone conoscano il latino. La cultura non è una necessità, uno strumento, non è conoscenza; è superficialità, è il preservare una tradizione, un obbligo da assolvere per essere degni della propria posizione sociale, o nel migliore dei casi, è fine a se stessa.
All’istruzione borghese viene contrapposta però una situazione alternativa:
“Il responsabile della grande scoperta fu il gruppo di verbosi socialisti e lavoratori filosofi che teneva banco nel City Hall Park quando i pomeriggi erano tiepidi. […] Martin scendeva dalla bicicletta per ascoltarli e ogni volta se ne allontanava a malincuore […] C’era qualcosa di vitale nei pensieri di quegli uomini: quella logomachia stimolava il suo intelletto assai più del dogmatismo quieto e riservato del signor Morse. […] Gli uomini del City Hall Park che scannavano la lingua inglese, gesticolavano come pazzi e combattevano le idee altrui con rabbia primitiva gli sembravano in qualche modo più vivi del signor Morse e del suo intimo amico, il signor Butler”.
Esiste, negli Stati Uniti, una cultura viva, vera e utile; ma essa è fuori dai salotti borghesi, è in strada, in bocca a lavoratori e giovani intellettuali poveri (la “vera feccia” che Martin conoscerà grazie a Brissenden, prototipo dell’intellettuale incompreso e perseguitato dalla miopia e dalla superficialità della borghesia) che amano, comprendono e attuano gli insegnamenti imparati dai libri, e che sono molto spesso degli autodidatti. Non è un caso che Martin senta per la prima volta il nome di Herbert Spencer, la sua guida filosofica, dagli uomini del City Hall Park; non è un caso che il momento più intellettualmente vivo sia la discussione filosofica cui Martin assiste nel capitolo 36, pagine traboccanti di amore per la cultura, per la conoscenza e per l’uomo.
Ma come è possibile che figure così importanti siano povere, e siano ignorate in maniera così unanime? Qui si arriva alla risposta riguardo alla questione del ruolo dell’artista, della possibilità che la letteratura abbia, un giorno, una vera funzione all’interno della società americana. E la risposta è ancora una volta critica nei confronti degli Stati Uniti.
Difatti in Martin Eden il trattamento riservato agli editori, all’industria culturale in genere, è severissimo: gli attacchi sono “all’inumana macchina editoriale, che scorreva senza intralci come al solito” . È a causa di questi personaggi che la vera cultura (sia essa letteratura, filosofia, teoria economica, etica) non riesce a penetrare nella società, ad influenzarla e a renderla migliore. A diversi attacchi asprissimi e pieni di risentimento, London affianca una rappresentazione concreta degli editori – che per tanto tempo rimangono senza volto, senza opinione, pieni di ignavia – all’interno del capitolo 33, l’unica porzione del racconto piena di ironia, con al centro dei piccoli uomini impauriti e insignificanti, così diversi dai giudici implacabili che in realtà decidono le sorti di migliaia di giovani artisti in procinto di cambiare il mondo.
È indiscutibile che Martin Eden sia un libro pieno di risentimento, di disillusione e di pessimismo; ma è altrettanto inequivocabile che tra il personaggio Martin e l’uomo Jack London ci sono tante differenze: come scrive ironicamente lo stesso London, “Martin Eden si è ucciso, io sono ancora vivo” .
E come detto, Jack London è vivo perché ha fede nell’uomo, perché è riuscito ad andare oltre se stesso, ha trovato nell’umanità e nella scrittura la sua ragione di vita.
La sua critica è rivolta a un sistema in particolare, attuato in una nazione in particolare, in un dato momento storico. Per quel che riguarda l’umanità, e l’amore del californiano per essa:
“Questo è il mio orizzonte: attendo con ansia il tempo in cui l’uomo compirà un progresso verso qualcosa che valga e che sia più importante dello stomaco, il tempo in cui a spingere l’uomo ad agire ci sia un incentivo migliore di quello odierno, che è appunto lo stomaco. Continuo a credere nella nobiltà e nell’eccellenza dell’umano. Credo che la dolcezza spirituale e la generosità conquisteranno la volgare ingordigia odierna”. (Jack London, Cos’è la vita per me)
Hector St. Jean de Crèvecœur, Letters from an American Farmer, 1904
London, Jack, Martin Eden, Macmillian, 1909
London, Jack, Martin Eden, BUR, 2000
London, Jack, Cos’è la vita per me, Cargo, 2005
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