Andare e tornare: un'esperienza di necessità e consapevolezza
Il pendolare scinde il tempo, lo conosce minuto a minuto, sa calcolare l’ingombro delle azioni a ritroso, scandisce gli itinerari con il battito del cuore, si sottrae all’orizzonte, si presenta all’ appuntamento con la vita. Studia il meteo, si adatta con scelte vestimentarie. Viaggia leggero, pesante, a strati, ha un suo stile specifico di calzature comode, non rinuncia a un glamour contenuto ma nemmeno alle rotelle, a capienti zaini e tracolle, all’impermeabile come categoria dell’essere. Indossa un’espressione del volto, normalmente, mista, a seconda delle fasce orarie: fra rara e fresca baldanza mattutina e sopportazione muta che segue all’ora che nel fuso degli stanziali è dedicata al desinare, spesso il pendolare indossa l’aria dolce e disillusa di chi ne ha visti, di treni, e non si attacca agli imprevisti e ai ritardi ma stoicamente con pazienza li contiene, regola l’emozione col suo animo fattosi saggio con l’esperienza di coincidenze, binari, soste in campagna, ritardi, temperature sorprendenti. Il pendolare si affida. Vive un senso costante di destino fatale, riconosce questo anche negli altri pendolari, con una sola occhiata fugace. Un destino comune. Un senso ossimorico di elezione e condanna. Dopo tutto essere pendolari significa essere desiderati e attesi altrove. Portarsi a soddisfare le richieste che derivano dal proprio manifestarsi in persona. Un concetto quasi demodè, pendolare.
Il pendolare è molto diverso dal viaggiatore occasionale, quest’ultimo è pervaso da un’emozione eccezionale, spaesato, nervoso, eccitato dalle possibilità ludiche di sperimentare altri gesti, contare carrozze,
orgogliosamente rivendicare il proprio posto, brandire biglietti o apparecchi elettronici che dichiarano quel diritto, risulta persino un pelino naive, al confronto con chi esplora nel profondo le crepe di quella sospensione, da tempo e nel tempo. Un entusiasmo vintage anche quello del viaggiatore occasionale, di fatto, rispetto al modernismo intrinseco del pendolare, proiettato in avanti (e indietro) in un eterno abitare, lavorare, palesarsi, salire, scendere scale, camminare.
Gli occhi del pendolare sono rassegnati, accolgono e incatenano quelli dei viaggiatori smarriti, confortano con un’esitazione, un’attenzione, un sorriso appena accennato, una rassicurazione che no, non è il mio posto, sono un’abbonata, mi sposto subito. Nulla possiede e il mondo abita, il pendolare, come un saggio ascetico.
Il pendolare diviene, in una naturale quando metamorfica trasformazione, parte del paesaggio interno del treno, scompare: lo abita tutto, eppure non possiede alcun posto, se abbonato e non prenotato, essendo le due condizioni ontologicamente contraddittorie. Una metafora, anche questa, di una cittadinanza cosmica che richiede sguardo ampio e senso di appartenenza, e non prevede proprietà ma responsabilità. Il pendolare infatti vive con l’abbonamento del treno una epifania sociale, che lo iscrive in una categoria protetta sebbene fragile, sempre a rischio di spostamento, esclusa da possibilità riparatorie di treni successivi, questuante sull’acquisto di integrazioni, profondamente dipendente dall’accoglienza del personale del treno, con cui condivide l’itineranza. Basta, misteriosamente, una lettera del codice segreto, a guadagnarsi un sorriso rapido e in parte intenerito da parte dei controllori, bigliettai, personale vestite in stile adatto al ruolo, a volte con ammirevole copricapo, che passano oltre, quasi scuotendo il capo, davanti ai pendolari: non siamo noi il problema, noi siamo la tappezzeria del treno, come loro, in fondo, siamo parte della dotazione. Il pendolare è la ragione d’essere del treno. La riconoscenza massima per il senso di perennità della strada ferrata. Abbiamo tolto l’erba, perché volevamo passare più di una volta, siamo animali nomadi, non so quanto per natura, il cuore pendola anche fra desiderio di casa e anelito di infinito.
Ho pendolato molto per lavoro, destini accademici, in un certo periodo risiedevo a Bologna e lavoravo a Urbino, in cima, nell’ex convento di Santa Chiara, con finestre affacciate sulle colline di Raffaello e aule silenziose abitate da giovani artisti dalle fisionomie specifiche, e pure anche a Bressanone, Brixen se vogliamo, in uno squadrato immenso edificio modernissimo dove il mio nome compariva sugli schermi corredato di cifre relative a orario, aula didattica, piano, e altri segreti cifrati e aritmetici che collocavano la mia didattica in un labirinto di vetri automatici e corridoi affacciati sul cielo e sulle montagne.
I mezzi per raggiungere questi luoghi così diversi dell’accademica espiazione erano anch’essi opposti: i treni eterni della linea adriatica, una genealogia ferroviaria per la mia vita di bambina cresciuta in Puglia, nelle Marche e a Bologna, si fermavano a Pesaro e mi affidavano ad un medioevo di pullman o passaggi di colleghi, su per ritorte curve da nausea in mezzo ai paesaggi dei dipinti rinascimentali, fino all’incanto del castello, fra le rondini, dove il tempo si adagiava come una nuvola in un suo fuso specifico fino alla mia partenza, e i miei sceltissimi studenti dell’ISIA conducevano una vita improntata alla convivenza in nome dell’arte-grafica, comunicazione, editoria e illustrazione, riunendosi a parlare dei progetti nel chiostro, amichevoli anche con noi professori. A Bressanone venivo invece consegnata da un treno tedesco, raro ma sicuro, con finestre immense, quadrato, arioso, spazioso, determinato a iscrivere l’esperienza in una chiarezza di intenti e conseguenze prevedibili. Giusto un poco esotico, per me, che non lo davo a vedere e guardavo fuori in quella tratta piana solo fino alle vigne e poi finalmente collinosa.
In treno un tempo guardavo fuori. Scrivevo. Ho perso anche molti treni nella mia vita. Mi è capitato di scendere a fermate successive, in età giovanile perché mi ero addormentata, di recente perché in treno continuavo a scrivere la mia monografia. Quando mi sono accorta che la fermata non era quella, ho risposto pudicamente il mio laptop, e sono scesa a Pesaro, invece che a Rimini, dove si trova ora il mio unico Campus a perfetta distanza da casa. Ho guardato il cartellone, mi sono portata al binario a fianco, e ho chiesto un passaggio, lo confesso, ad una controllora con un make-up curatissimo. Non dichiarerò qui il suo nome (non lo conosco peraltro) ma testimonio per la gloria della categoria che mi ha fatto un gesto umanissmo e informale, come dire: non voglio nemmeno sapere, salga a bordo che la riportiamo indietro di una fermata.
Il pendolarismo mi ha aggiustato in qualche modo, ha accordato il mio ritmo cardiaco a questa dimensione fatale, ma anche rassicurante nella sua ripetizione e prevedibilità che il pendolarismo stesso, scuola di vita e tirocinio esistenziale, rappresenta a ben vedere. Funzionò, come un viaggio di formazione in un milione di tappe, dagli interrail alle maratone forzate del precariato universitario, con fatiche e soddisfazioni non equamente ripartite, fino ad un certo punto. Finchè un giorno, di ritorno dalla Svizzera, dove ero andata a impartire una formazione di un numero di ore esagerato a generose bibliotecarie desiderose di conoscere molti libri illustrati senza parole, stavo appoggiata su un tavolino, in uno scompartimento quasi vuoto di un treno forse svizzero comunque per me totalmente estraneo, in attraversavo credo la Lombardia, e con lo sguardo cercavo appiglio in un fuori che fuggiva crudelmente in un abbandono ribadito, la mela della merenda in mano sbranata a grossi morsi in cerca di riparo e radicamento da quella fuga degli elementi, ho desiderato improvvisamente di scendere dal treno, mentre andava. Ho improvvisamente cercato con lo sguardo le uscite, ricapitolato i gesti necessari per fermare il treno e scendere, e mi sono sentita in trappola. A casa non mi aspettava nessuno. Questo per un pendolare fa la differenza, almeno per me. Per un certo tempo non ho più viaggiato. Ho disdetto alcuni impegni e in seguito attuato scelte a lungo termine, contando che il viaggio fosse per me in quel momento non salubre, perché desideravo essere culla, non ferrovia.
I treni mi hanno insegnato così la fuga, il viaggio, l’abbandono, la separazione, il progetto, ma anche la casa, la cura e l’autodeterminazione.
È la dea Anankè che sovrintende a tutta a vita del pendolare, così definita da James Hillman:
Chi e che cosa è Ananke? In primo luogo, è tra le più potenti potenze del co-smo: Platone cita soltanto due grandi forze cosmiche: Ragione (nous, la mente) e Necessità (ananke). Ragione risponde per ciò che possiamo comprendere, ciò che segue le leggi e gli schemi dell’intelletto. Necessità opera come una causa “mutevole” o, come si traduce a volte, come causa “errante” o “erratica”. Quando una cosa non combacia, sembra fuori posto o strana, rompe lo schema consueto, allora più probabilmente lì c’è la mano di Necessità» (Hillman, 1997, p. 261).
Grande maestra, madre delle Parche, tiene in mano il fuso con il filo della vita, quello che le tre filano e tagliano a loro piacimento.
Il pendolarismo, nella sua dimensione di adeguamento alla Necessità mi ha indotta ad apprendere, insieme all’eterno andare, anche il sostare, il fermarsi e radicarsi per poi poter dilagare, senza perdere il proprio filo ma potendo dilatare l’elastico della casa interiore fino ad ogni destinazione possibile.
Bjorn Larsson, scrittore, filologo, traduttore, velista e accademico svedese, ha scritto un libretto sorprendente e spassoso - come i suoi romanzi – intitolato Filosofia minima del pendolare (2025) in cui il pendolare vive una possibile condizione di testimonianza della condizione umana, in grado di svelarne paradossi ma anche ispiranti segreti.
Larsson a un certo punto cita Beckett e Vargas Llosa che dichiarano l’insensatezza della vita e il paradosso della sua velocissima parabola terreno, e poi chiosa:
Ci sarebbe ben poco da stare allegri, se questi signori avessero ragione. Si son però dimenticati di mettere in conto che ogni tanto ci sono anche momenti in cui si può tirare il fiato, in cui la vita resta come sospesa nell’aria, in cui non si vuole essere né un cosa né l’altra, non si è costretti a correre a sgravarsi sopra a una fossa né a cerca riparo sotto un ombrello perché dal cielo piovono escrementi.
Il viaggio del pendolare è uno di questi momenti. (p.12-13)
Ora viaggio di nuovo con piacere. Per fortuna, perché vi sono costretta. Anzi, viaggio con quel senso di elezione che mi fa affermare: domani sono a Rimini. Giorno barrato sul calendario familiare, lusso della programmazione prioritaria. Significa che quasi nulla mi può trattenere. Che il mio giro in giostra me lo sono meritato in tanto stare seduta e allora faccio due passi, vado in bici verso la stazione e a poi cammino verso le aule dove insegno, saluto gli alberi, imparo le strade, respiro aria nuova. A Rimini trovo il mare, il canale, il ponte di Tiberio e il cormorano, sempre lui, i colleghi convenuti come me, molti pendolari come me. Siamo in fondo tutti un poco in gita. Nella piazza d’acqua si specchiano gli archi, sotto la superficie un giorno abbiamo visto una razza. Il mio treno, prima della stazione, ritaglia l’immagine di questo luogo amato da lontano, l’acqua dilata il cielo.
Alla partenza da casa ho sempre la pesa strategica della borsa, e la scelta sulla presenza, accanto al computer, di un libro di carta, accanto alla borraccia e alle mandorle per lo spuntino. Un tempo sui treni leggevo e scrivevo, sempre, sulla carta intendo. Le immagini fuori dal finestrino si depositavano da sole in quei segni sintetici che sono le parole. Tracce magnetiche di passaggi celesti, infiniti fiumi e argini, cronache di viaggio o lettere. Appunti. Idee che beneficiano del cambio d’aria e di paesaggio, per germinare. Come fosse, il viaggio nello spazio, anche una traiettoria obliqua e irripetibile in un tempo, la direzione visibile per il disegno di un desiderio.
Adesso spesso lavoro al computer, gli occhi incatenati, mentre le orecchie, inevitabilmente, registrano i suoni e le parole che riempiono lo spazio attorno. Sui treni oramai parlano solo, nel senso di conversare, i bambini e gli anziani. I primi vengono sistematicamente zittiti, come fossero le loro voci adorabili più fastidiose degli odiosi jingle dei giochi sui telefonini o il bisbiglio da zanzare pazze che emerge dagli auricolari di chi decide di abbandonare l’audio dei viventi per la propria prescelta selezione musicale. Gli anziani a volte, sui treni che vanno a Bari, nel respiro lungo del viaggio conversano anche, mangiano cibo accuratamente liberato da cartocci casalinghi, sono i più composti e gli unici attenti, di solito.
I più rovesciano parole nei telefoni, poi tacciono imbronciati fino al prossimo scontro. Ma ancora e sempre qualcuno nei treni c’è, che legge un libro. Comodo, leggero, bello e rassicurante da vedere, il libro costella i treni di inspiegati altri viaggi del tutto personali, non necessita di ricariche e sta apparentemente in silenzio. È la coperta di Linus che mantiene una libertà e un ordine nella necessità dell’andare, un segno di riconoscimento di una specie resistente che non è in via di estinzione. Una solitudine piena nella massa anonima. Esistono ancora i lettori, a volte si addormentano con le dita nelle pagine. Se giovani leggono libri romantici, consapevoli della propria bellezza. Altre volte posano il libro e guardano fuori, sono gli ultimi sognatori?
C’è un bellissimo racconto di Saki, intitolato Il narratore che si svolge proprio in un treno. Mi torna in mente spesso. Un giovane che si dedica a raccontare una storia bella, quindi orribile e avvincente, a tre estranei bambini in viaggio. Si racconta per riempire di senso il tempo del viaggio, si racconta ai bambini per rendere ragione della complessità del mondo. Il treno è una porzione di mondo ma anche una prospettiva sul mondo, un’angolazione possibile per interrogarci ancora sulle parole e i gesti che lo evocano, costruiscono, comprendono.
Nella vita del pendolare si leggono le vite degli altri anche, oltre ai cartelloni, alle fisionomie diverse delle stazioni, paesaggi spaesati eppure familiari che svelano parentele più profonde delle superficie delle cose, non solo architettoniche diciamo, ma più precisamente poetiche. Le stazioni sono ancora luoghi dove qualcuno si bacia al binario, anche se esiste il detestato kiss and ride, quello di Bologna è racchiuso in un girone a sé, inaccessibile all’andata e al ritorno, un luogo crudele che dimostra come possiamo facilmente diventare invisibili, costretti nel corpo e nel cuore, dove si rischia di rimanere per sempre in penombra, sottoterra, dimenticati in attesa di taxi, isolati e puniti per un reato, il viaggio, che poco prima sembrava l’esercizio di un privilegio sociale.
Il pendolare sperimenta la variazione sul tema, si allena alla minuzia, al dettaglio, al servizio, ritrova in quell’andare, in parte fatale in parte sempre avventuroso, una scuola del cuore, un esercizio dello sguardo, un motivo per stupirsi, guardare, e, ancora lasciarsi trasportare. Forse rimane l’unico vero tipo di viaggio possibile, o l’emblema di un viaggio interiore e ritmico, un viaggio in versi, se fosse una forma narrativa. Un viaggio senz’altro metaforico. Di ritorni e variazioni, un viaggio musicale. Un viaggio consapevole dell’eterno ritorno, della fugacità del momento eppure dell’assoluta necessità di vivere ogni momento perché nulla è dato, le coincidenze di capisce anche dalla parola che sono un fatto potenzialmente felice ma anche del tutto terribile e aleatorio.
Il pendolare si culla nella dimensione uterina del treno. Entra in ambienti scaldati dai corpi, respira l’aria degli altri, viene portato, com’è nell’umana infanzia, infinita come ogni viaggiare. Ben protetto, a volte forzato, con i suoi beni in mano, lavora anche in treno, e solo a volte si concede il tempo autenticamente sospeso che porta a guardare. Appeso a sorrisi, a piccoli atti di gentilezza, il giorno del pendolare si pennella di minuti dettagli che lo costruiscono come un’avventura non in sé conchiusa, ma coerente come un piccolo universo: il giorno, il viaggio, la trasferta, il ritorno, la casa. Gli altri anche in famiglia rimarranno per sempre ignari dei mondi sconosciuti e immensi che il pendolare, muto come un neonato, porta con sè in una memoria recente di altrove, dopo solo un giorno di un viaggio che contiene moltitudini ad ogni passo, intreccia destini, fa carambolare i dadi del destino in un milione di combinazioni, in cui il pendolare avanza come un funambolo. E ogni giorno, da pendolari dell’esistenza quali tutti siamo, è un giorno in cui si è sopravvissuti.
I finestrini svelano paesaggi rurali, campi, imprevisti spazi senza umani, sono luoghi che sembrano scomparire, che appaiono solo durante i viaggi ripetuti: i treni sono in effetti anche macchine del tempo, attraversano mappe sconosciute, più che unire dimostrano che esistono mondi fra qua e à, a ben guardare. Nell’infinito andare tolgono la polvere ai gesti già dati, agli itinerari senza sorprese, svelano e rinnovano la nostra attitudine alle ripetizioni e alle abitudini perché ci rimescolano, come palline della tombola, e ci risputano sempre uguali solo a un primo sguardo. In realtà scandiscono il tempo della nostra immutabile e inarrestabile metamorfosi, in tragitti dicibili, raccontabili, misurabili. Per questo forse dilatano il tempo, e restituiscono il ritmo delle cose alla possibilità, ad ogni viaggio, di un nuovo racconto.
Riferimenti:
James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, 1996
Saki, Il narratore, Orecchio Acerbo, 2012
Björn Larsson, Filosofia minima del pendolare, Iperborea, 2025
Marcella Terrusi, Professoressa di Pedagogia presso il Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita - Università di Bologna
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