Villano nell’erudizione

Secondo Konstantakos (2005, 4-7), la maschera comica dell’ἄγροικος (propriamente «chi vive in campagna», ma anche il «rozzo»: cfr. AB 331,6-7 [sulla differenza fra ἄγροικος e ἀγροῖκος vd. infra] e Hsch. α 816 s.) è sì caratteristica della Mese e della Nea, ma il suo prodromo sarebbe reperibile nell’Archaia, segnatamente nelle Nuvole di Aristofane. Questa commedia, infatti, è un caso particolare nel panorama della commedia aristofanea, in cui certo compaiono molti uomini di campagna – si pensi agli Acarnesi, alla Pace (Arg. A2.8 ss.) o al Pluto (vd.τὰ τοῦ δράματος πρόσωπα di Tzezes) – ma essi vi sono rappresentati generalmente in modo positivo, forse anche perché i contadini costituivano il pubblico principale delle opere di Aristofane: la relativa specificità delle Nuvole – come si vedrà fra poco – è testimoniata in modo evidente dagli scoli, se si pensa che, su una novantina di occorrenze di ἄγροικος in tale corpus, circa una cinquantina sono negli scholia a tale commedia. Del resto, anche la Suda (α 350) sembra evocare la peculiarità delle Nuvole, dato che, sottolineando l’ignoranza dell’ἄγροικος, cita il v. 655 di questa pièce (ἀγρεῖος εἶ καὶ σκαιός, «sei [scil. Strepsiade] rozzo e ottuso»).

Per quanto concerne la caratterizzazione di questi ἄγροικοι nella commedia, in particolare nella Nea, sono probabilmente testimoni indiretti Aristotele nell’Etica Eumedea (1230b.18 ss.) e i Caratteri (4) di Teofrasto. In Aristotele, in effetti, si sottolinea come queste figure (τοιοῦτοι, οἵους οἱ κωμῳδοδιδάσκαλοι παράγουσιν ἀγροίκους, «persone tali quali gli autori comici presentano in teatro come agroikoi») siano insensibili ai piaceri, mentre Teofrasto mette in evidenza l’ἀμαθία, l’«ignoranza», dell’uomo di campagna e il suo essere δύσκολος, ovvero «scontroso». Questa attitudine, sempre secondo Teofrasto, si esplicherebbe nella mancanza di fiducia nei confronti dei cari e, vice versa, nella familiarità con gli schiavi, con cui l’ἄγροικος condivide il lavoro. Tale figura, in sostanza, appare quasi un barbaro, prono com’è a bere vino pressoché schietto. Riguardo più propriamente la maschera comica, secondo Polluce (IV 147), quella del giovane ἄγροικος era caratterizzata da una carnagione scura (propria certo di chi è solito lavorare all’aperto) e contraddistinta da labbra larghe, da un naso schiacciato e da una sorta di corona di capelli. La Suda (α 350), dal canto suo, evidenzia che un tipo di ἄγροικος avrebbe avuto una grande barba.

Prima di concentrare l’attenzione sulle Nuvole, è forse opportuno vedere se qualche elemento della figura comica dell’ἄγροικος sia comunque evidenziata dalla tradizione scoliografica attinente alle altre commedie aristofanee. Di un certo interesse sono gli scoli al v. 41 dei Cavalieri, in cui due schiavi spiegano al pubblico come il loro padrone sia Demo di Pnice: costui – ἄγροικος di carattere e irascibile – sarebbe un vecchietto δύσκολος e mezzo sordo. Gli scholia vetera ad locum spiegano che ἄγροικος qui indichi un individuo che, per carattere, risulta essere ἄγριος, «selvatico», σκληρός, «duro», ἀνήμερος, «selvaggio», τραχύς, «aspro» e ἀκράτητος, «incontenibile», caratteristiche che saranno poi tipiche della maschera comica dell’ἄγροικος e che si sono già reperite in Teofrasto.

Le caratteristiche dell’uomo di campagna, però, non sono necessariamente sfruttate da Aristofane in chiave comica, anzi. Ai vv. 1444 s. delle Rane, ad esempio, Dioniso chiede a un Eschilo che parla per sofismi (vv. 1443 s. ὅταν τὰ νῦν ἄπιστα πισθ’ ἡγώμεθα, / τὰ δ’ ὄντα πίστ’ ἄπιστα, «se avessimo fiducia in ciò di cui ora non ci fidiamo, / e invece non ci fidassimo di ciò di cui ci fidiamo») di parlare più chiaro: «Come? non capisco. Parla in maniera meno dotta, ma più chiara» (πῶς; οὐ μανθάνω. / ἀμαθέστερόν πως εἰπὲ καὶ σαφέστερον). Lo scolio recentius 1445a, a questo proposito, glossa sì ἀμαθέστερον con ἀγροικικώτερον καὶ παχύτερον («in modo più grezzo e grossolano»), ma è pur vero che il vetus sembra cogliere meglio il senso del passo, spiegando ἀμαθέστερον con ἀπαιδευτότερον, ἢ κοινότερον («in modo meno dotto o più comune»), evocando a tal proposito il seguente detto: σαφέστερόν μοι κἀμαθέστερον φράσον («parlami in modo più chiaro e adatto a chi è ignorante»; cfr. anche Suda α 1470 s.v. ἀμάθητος). In sostanza, la rusticità di Dioniso sembra quasi emergere come un elemento positivo, in quanto rifugge dalle ampollosità di una dizione che rischia di confonderel’uditorio. Questi contadini, certo rozzi e poco educati, sono però i soli, secondo lo scolio vetus 111bc agli Uccelli a non essere ad Atene φιλοδικασταί, «amanti dei processi», una caratteristica che, evidentemente, Aristofane non può considerare negativa, soprattutto alla luce di quanto si evince dalle Vespe. E, infatti, un personaggio come Trigeo, definito dall’Argumentum A3 come un ἄγροικος, è tutt’altro che riprovevole: egli parla sì come una persona un po’ rozza (cfr. ad esempio schol. vet. 63b), ma rappresenta quella folta schiera di persone che, trasferitasi dalla campagna in città a causa della guerra, fu soggetta a danni maggiori rispetto a chi era giàabituato a vivere in città (schol. vet. 633a).

L’idea che la rusticità implicasse una certa rozzezza, comunque, è presente nel Pluto: al v. 705, in effetti, Carione fa un enorme e fetido peto, ma Asclepiο non si scompone, tanto che la moglie di Carione si chiede se il dio sia ἀνόητος («sciocco») e ἄγροικος, ossia, come spiega lo scolio recentius 705c, ἀπαίδευτος, ovvero «ignorante» o, forse meglio in questo caso, «volgare, maleducato». Se lo scolio recentius 705b glossa ἄγροικος con ἀναίσθητος («ottuso, insensibile», termine che ricorda la notazione aristotelica sopra riportata), ἀπαίδευτος, μωρός(«stolto»), ἰδιώτης («ignorante») e ἀνόητος, Tzetzes fa notare come Asclepio, definito da Carione σκατοφάγος («che mangia escrementi»), è abituato alle feci e alle ferite in quanto è un medico.

La contrapposizione fra città e campagna, reperibile ad esempio nella Pace (si pensi, però, anche ai contadini non φιλοδικασταί dello scolio agli Uccelli), è uno degli elementi che caratterizzano le Nuvole, come mette in luce l’Argumentum A2,8-14: un vecchio ἄγροικος, ovvero Strepsiade, è oppresso dal figlio che, tronfio di superbia cittadina, abusa della sua nobiltà di stirpe per vivere una vita dispendiosa. La famiglia materna del ragazzo, in effetti, è quella degli Alcmeonidi, noti per aver conseguito vittorie nei giochi olimpici, pitici, nemei e istmici e per il potere politico da loro esercitato sin da epoca arcaica. Tale contrapposizione fra città e campagna, sostanziata dalla stirpe e dal modus vivendi, è ben illustrata dagli scholia vet. 44aαβ, in cui si spiega come la vita di città sia più pulita di quella di campagna, che, come racconta Strepsiade ai vv. 43-45, è caratterizzata dalla muffa e dallo sporco. Gli scoli suddetti chiariscono, inoltre, che è proprio il fatto che la vita agreste non sia καθάριος («pura, pulita, elegante») che costituisce uno spunto comico per alcuni poeti comici, che rimproverano la vita cittadina per il fatto di condurre – a causa delle spese eccessive che essa esige – alla povertà, come si ritrova in Menandro (fr. 646 K.-A. τὰ γὰρ καθάρεια λιμὸς εἰσοικίζεται, «la fame, infatti, va ad abitare in ciò che è elegante»; cfr. Sudaε 3713). Se l’ἄγροικος è ὁ ἀνόητος καὶ βάρβαρος καὶ ἀπαίδευτος, come nota Tzetes (47b) e se questa sua caratteristica è foriera di innumerevoli spunti comici nel corso delle Nuvole, è pur vero che il confronto fra Strepsiade e la moglie non è sostanzialmente a detrimento del primo, come nota lo scolio vetus 47: il protagonista non vuole biasimare se stesso, descrivendo la sua vita, ma mostrare la propria ricchezza. Se egli non fosse stato ricco, continua lo scolio, la moglie, compiaciuta dalla propria stirpe e dal suo vivere in città, non avrebbe mai accettato il matrimonio: certo, Strepsiade – contrariamente alla norma – si fa dominare dalla moglie, ma ciò non è affatto straordinario, se si pensa che il marito è ἰδιοπράγμων e μέτριος τοὺς τρόπους, ossia «fa i fatti suoi» ed è «moderato di carattere» (cfr. Suda α 376).

Se la caratterizzazione di Strepsiade non è quindi del tutto negativa, dato che la sua vita agreste è senz’altro connessa all’abbondanza (cfr. v. 50), egli sembra l’unico contadino nelle commedie aristofanee conservate a essere rappresentato come incapace di intendere altro che il mondo della campagna, insomma come uno zotico: egli, dunque, è il solo contadino di Aristofane a essere costantemente schernito per la propria rusticità. Ai vv. 133 ss. il Discepolo, uscito dal pensatoio (vd. φροντιστήριον), dà immediatamente dell’ἀμαθής a Strepsiade, poiché costui, bussando, ha fatto abortire il pensiero che egli aveva concepito: Strepsiade, allora, si scusa, evocando significativamente il fatto di abitare lontano, nei campi. Questi, comunque, chiede quale pensiero abbia interrotto: il Discepolo, però, fa resistenza, in quanto ciò è cosa da iniziati. Tali μυστήρια, secondo lo scolio recentius 143b, sono tali per Strepsiade, poiché egli è un vecchio rozzo e grossolano, che è quindi incapace di comprendere le sottigliezze della cerchia socratica.

La chiave comica che muove tutta la scena in cui Strepsiade tenta – in modo fallimentare – di divenire un adepto di Socrate è rappresentata dai costanti fraintendimenti di cui il vecchio è suo malgrado protagonista. Ai vv. 184-192, ad es., Strepsiade vede una schiera di persone chine verso la terra: il Discepolo spiega che essi cercano le cose che si trovano sottoterra, ma il vecchio intende – come farebbe appunto un ἄγροικος (cfr. schol. vet. 190aβ) – che essi stiano cercando delle cipolle: consiglia loro, allora, di cercarle altrove, dato che egli sa bene – come notano gli scoli – dove si trovano le cipolle. Al v. 202, poi, il Discepolo mostra la geometria a Strepsiade, il quale a sua volta si chiede a cosa essa serva: «a misurare la terra» spiega il Discepolo, al che il vecchio chiede «quella per i cleruchi?». Lo scolio vetus 203 chiarisce che la cleruchia consisteva in una distribuzione di terra ai cittadini fuori dall’Attica e questo a seguito di una conquista d’una città nemica, da cui gli abitanti venivano scacciati. Tale procedura, ovviamente, interessava da vicino i cittadini come Strepsiade, che, proprio come un ἄγροικος, riconduce un concetto astratto come la geometria a un dato concreto come quello della cleruchia e ciò chiaramente a suo profitto.

Già dalla prima comparsa in scena di Socrate, del resto, Strepsiade diviene oggetto del suo scherno: il vecchio villano è infatti appellato come (ἐ)’φήμερος, ossia come una «creatura effimera» e questo perché, come spiega lo scolio recentius 223cα, Socrate sta prendendo in giro (τὸ δὲ σχῆμα εἰρωνικόν) la gente semplice e di campagna che non sa che l’anima è immortale, cosa che è nota solo ai filosofi. I contadini, infatti, sono ignoranti e non solo per quanto concerne le alte vette del pensiero. A Socrate, che al v. 255 s. offre una corona al suo interlocutore, Strepsiade risponde chiedendo: «non mi vorrete sacrificare come Atamante?». Secondo gli scoli vetera al v. 257, tale domanda denuncia l’ignoranza di Strepsiade, che non sa che è Frisso, non Atamante, colui che egli avrebbe dovuto qui evocare: come spiegano gli scoli vetera 257bcd, in effetti, vi sarebbe in questo passo unriferimento all’Atamante di Sofocle, in cui Atamante, coronatosi, stava per sacrificare Frisso, ma fu interrotto da Eracle. Come se non bastasse, Tzetes, al v. 380, nota come Aristofane giochi comicamente sul fatto che Strepsiade confonda δῖνος,«vortice», con ciò che a lui, in quanto ἄγροικος, è probabilmente più consueto, ossia «vaso d’argilla». Del resto, Strepsiade sa poco anche di grammatica. Al v. 1206, infatti, egli compie un encomio di se stesso, esordendo in questo modo: «te beato, Strepsiade: / come sei intelligente, etc.» (μάκαρ ὦ Στρεψίαδες /αὐτός τ’ ἔφυς, ὡς σοφός, κτλ.). Gli scoli vetera 1206bαβ notano come Strepsiade sbagli nell’uso del vocativo: avrebbe dovuto dire ὦ Στρεψιάδη, non Στρεψίαδες (che sarebbe forma analogica). Il suo errore, come sottolinea lo scolio vetus 1206cα, deriva dal suo essere un ἄγροικος.

Il protagonista della commedia è talmente ignorante che, al v. 492, Socrate gli dà del βάρβαρος, con lo scolio recentius 492b che glossa con ἄτακτος («incivile»), ἄγροικος, παχύς, ἀπαίδευτος, ossia attribuendo a Strepsiade i caratteri della maschera dell’ἄγροικος nella Nea e quelli della rappresentazione che del rustico fa Teofrasto. Socrate ribadisce le sue rimostranze nei confronti di Strepsiade al v. 628, dandogli dell’ἄγροικος, dell’ἄπορος («intrattabile»), dello σκαιός («maldestro») e dell’ἐπιλήσμων («dimentico»), con Tzetes e gli scoli vetera recentiora al passo che rimarcano le consuete caratteristiche di questo tipo umano, ossia il fatto d’essere ἀπαίδευτος, ἀνόητος, ἰδιώτης e ἀμαθής (vd. schol. vet. 646, an. rec. 646b e Tz. 646), oltre che βραδύς(«tardo»).

Taleignoranza conduce Strepsiade a due esempi patenti di fraintendimento che concernono questioni di metrica, a cui evidentemente l’ἄγροικος non è avvezzo. Dopo aver denunciato al pubblico, uscendo dal pensatoio, l’ignoranza del nuovodiscepolo, Socrate chiede a quest’ultimocosa intenda imparare per prima tra i metri, le parole (ἔπη, che significa anche «versi epici») e i ritmi (vv.636 ss.). Strepsiade si dichiara subito entusiasta per i μέτρα, intendendo il termine non come «metri», ma come «unità di misura», segnatamente per i solidi. Ancora una volta, commentano gli scholia vetera 639aαβ, il vecchio risponde a Socrate come farebbe un ἄγροικος, ossia intendendo μέτρα come un termine riferito all’ambito agricolo: egli, infatti, è ἄπειρος («inesperto») per quanto concerne i metri poetici, come commenta Tzetzes (639a). Le reazioni di Strepsiade ai metri fanno allora perdere la pazienza a Socrate, che lo manda «a quel paese» (v. 646 propriamente «ai corvi», εἰς κόρακας),additandolocome ἄγροικος e δυσμαθής, un’accusa che si ripeterà quasi identica al v. 655 (il verso è citato da Suda α 350). Strepsiade, infatti, non capisce l’utilità di simili nozioni, che non portano pane a casa, ma – come sottolinea Socrate – consentono di essere κομψοί (v. 649 «arguti») in società e di saper distinguere un enoplio da un dattilo: il termine δάκτυλος, però, è uno spunto irresistibile per Strepsiade, tanto che lo induce a fare un gestaccio in scena. Egli, infatti, dichiara di conoscere bene il δάκτυλος, intendendo la parola come «dito»: «e che altro è se non questo dito qui? / Un tempo, quando ero ancora ragazzo, era questo qui!» (v. 653 τίς ἄλλος ἀντὶ τουτοθὶ τοῦ δακτύλου; πρὸ τοῦ μέν, ἔτ’ ἐμοῦ παιδὸς ὄντος, οὑτοσί.). Tzetes (641) nota a tal proposito che Strepsiade, da rustico qual è, siesprimeinmodobarbaro e che suscita ilarità: lo scolio vetus 653a chiarisce che egli è impudente, mostrando il ditomedio ( † δείξειν † τὸν μέσον δάκτυλον ἀσελγαινόμενος, cfr. vet. 653b), notazione, questa, che oltretutto ci attesta una certa continuità ‘culturale’ nella gestualità insultante fra la Grecia antica e l’Europa moderna.

Ironia della sorte, sarà proprio Strepsiade a tacciare di essere ἀμαθής e παχύς il figlio, prima che costui divenga allievo di Socrate, termini che evocano negli scholia recentiora 842bc l’idea che Fidippide sia ἀπαίδευτος, ἀνόητος, ἄγροικος e βάρβαρος. Se Strepsiade accuserà anche un creditore di essere un ἄγροικος al v. 1249 (cfr. schol. an. rec. 1249c), sarà proprio lui tacciarsi di rusticità al v. 1457, accusando le Nuvole di averlo ingannato (cfr. schol. an. rec. 1457aα).

Strepsiade, in sostanza, denuncia in nuce tutte le caratteristiche che faranno nella Mese e nella Nea della maschera del rustico un oggetto di scherno privilegiato: ignorante, volgare e rozzo, questo tipo di ἄγροικος è ben diverso dai vari Diceopoli o Trigeo. Eppure, la sua caratterizzazione non risulta così negativa, come mostrano i vv. 39 ss. e i relativi scoli: alla stregua di Trigeo, Strepsiade è un uomo semplice, ma che riesce a godere dell’abbondanza – certo rustica – che il suo lavoro gli ha concesso, un’abbondanza che – nonostante il disprezzo tributato al villano – attrae anche chi è abituato alla purezza della vita cittadina, come la stirpe degli Alcmeonidi con cui il protagonista delle Nuvole si è imparentato. È probabilmente tale ambiguità della figura del rustico, scontroso e rozzo ma gran lavoratore, che verrà pienamente recuperata nel teatro menandreo, che, come si è visto, connette la purezza della vita cittadina con la fame e la povertà.

Un’ultima notazione concerne un aspetto grammaticale insito nel termine ἄγροικος, che trova puntuale riscontro in un ampio numero di scoli: quello dell’accento. Tzetzes (Nu. 47b), in effetti, spiega che ἄγροικος significa propriamente ἀνόητος, βάρβαρος e ἀπαίδευτος, mentre ἀγροῖκος sembra indicare «chi vive nei campi» (cfr. Ptol.Ascal. α 13 e Ph.Bybl. α 7). Se tale differenza è molto dubbia per LSJ9 15 (s.v. ἄγροικος), Tzetzes (schol. Pl. 705) nota come gli Attici tendano a dire ἀγροῖκος per ἄγροικος, mentre lo scolio Th.-Tr. 43 alle Nuvole dice pressoché il contrario, ossia che gli Attici siano soliti adoperare ἄγροικος anche per chi vive in campagna: è quest’ultima tendenza che, forse, si ritrova proprio nelle Nuvole, in cui il termine è costantemente ambiguo, donde nasce appunto il gioco comico (per uno status quaestionis del problema, cfr. l’apparato di Holwerda al Commentarium in Nubes di Tzetzes, segnatamente allo scolio 47b).

Stefano Caciagli © 2016