Sicofante nella ricezione

Il ruolo politico del sicofante, centrale ad Atene tra V e IV secolo, ha da subito un’eco vivace nella produzione in prosa su influsso della commedia [cfr. Pellegrino (2010, 33-74)]. Mentre la critica riguardo all’accettazione del sicofante nella polis mostra disaccordo, nella misura in cui alla tesi relativa alla sua completa negatività [cfr. Harvey (1990)] si oppone quella contemporanea e più sfumata [cfr. Osborne (1990)] che sottolinea come fosse una professionalità accettata dai cittadini, se non a essi utile, le testimonianze letterarie sul sicofante sembrano esplicitare soprattutto la bieca condotta morale di questo personaggio. In altri termini, viene facile capire che, a poco a poco, a partire dalla produzione del IV secolo, accusare di sykophantia un antagonista o riferirsi alla sykophantia, al di fuori di un concreto agone politico-giudiziario, tende a indicare un carattere incline alla falsità, alla calunnia, in ultima analisi un’indole malvagia, il più delle volte connotata da capziosità retorica. Anche per tutto ciò, il meccanismo che alcuni testi prevedono nel riferirsi all’immagine del sicofante non esula da un contatto, se non perfino da una diretta dipendenza dalla commedia, nella quale la deformazione e l’accanimento contro tale figura sono un topos consolidato. In questi termini è giusto affermare che il termine sykophantes, unitamente a quelli della stessa famiglia, una volta usato al di fuori dell’oratoria giudiziaria, richiamava l’interesse dei cittadini ateniesi, suscitandone immediata preoccupazione e indignazione [cfr. Labarbe (1996, 156)]. Il sicofante diventa presto una concreta immagine metaforica, vitale in letteratura, la cui indole di impostore cerca di prevalere sul vicino: una figura negativa sul piano etico e abile in cavillose disputazioni. Del resto, un testo collocabile approssimativamente tra I a. C. e I d. C., il De virtutibibus et vitiis pseudoaristotelico, rappresenta la sykophantia come una pericolosa deviazione etica, contigua all’ingiustizia, la adikia, associandola a vizi che per lo più specificano i caratteri delle personae dramatis in commedia: la vanteria eccessiva, il finto affetto per il prossimo, la malvagità d’animo e l’attitudine all’imbroglio (1251b2-3). Non desta meraviglia che la ripresa del sicofante condizionata dai meccanismi tipici del plot comico abbia le sue prime vitali attestazioni in Platone e in Isocrate, nonché nella polemica che vede quali antagonisti in un serrato agone Demostene ed Eschine. In questi casi, al di là della funzione politico-giudiziaria del sicofante, è possibile rintracciare alcuni degli elementi portanti che caratterizzano le cosiddette «scene episodiche» della commedia nelle quali appare il personaggio.Sono queste scene intese dalla critica [cfr. Grava (1999); Torchio (2007)] come momenti di catalisi del racconto, dalle quali, come abbiamo visto, si ricavano «peculiari tratti spettacolari», peraltro legati nello specifico al trattamento del sicofante (si veda la Sezione 1): (a) presenza in scena di un terzo attore; (b) brusca entrata in scena del Sicofante; (c) venalità del Sicofante; (d) piglio accusatorio; (e) sua pericolosità sociale; (f) rocambolesca uscita di scena. Procederemo, dunque, con ordine nell’analisi delle testimonianze più significative a riguardo, mettendo in evidenza, quando sia possibile, questi tratti, nello sviluppo del Sicofante come maschera etica.

Un punto decisivo dello sviluppo o della nuova tecnicizzazione del termine sykophantes è forse possibile scorgerlo in Platone, per il quale nel sykophantes convivono l’ambito della diffamazione e quello della retorica sofistica. Non poco peso, per esempio, acquisisce il rapporto tra Socrate e la figura professionale del sicofante ad Atene nel Critone. Qui, dopo la rivelazione di Socrate a Critone del sogno energes, «evidente» (44a-b), che annuncia la sua morte imminente, Socrate fa esplicito riferimento ai sicofanti: ἆρά γε μὴ ἐμοῦ προμηθῇ καὶ τῶν ἄλλων ἐπιτηδείων μή, ἐὰν σὺ ἐνθένδε ἐξέλθῃς, οἱ συκοφάνται ἡμῖν πράγματα παρέχωσιν ὡς σὲἐνθένδε ἐκκλέψασιν, καὶ ἀναγκασθῶμεν ἢ καὶ πᾶσαν τὴν οὐσίαν ἀποβαλεῖν ἢ συχνὰ χρήματα, ἢ καὶ ἄλλο τι πρὸς τούτοις παθεῖν; («Forse ti preoccupi per me e per gli amici, che se te ne vai i sicofanti ci diano delle noie accusandoci di averti rapito, e ci troviamo obbligati a sborsare tutto il nostro denaro, o buona parte di esso, se non a subire altri danni?»; 44e2-6). In questo caso i sicofanti sono i delatori di professione, pronti a creare problemi e a far del male a Critone e ai suoi amici se Socrate fuggisse dal carcere: secondo Critone, la soluzione più opportuna per frenare la spietata ressa di questi personaggi è pagare una somma di denaro, che, peraltro, non sembra essere eccessiva (45a). Siamo lontani da un contatto con la scena comica in senso stretto, mentre risuona vivo in questa pagina del dialogo il ricordo del clima ostile a Socrate nel 399. Certo, però, Critone sembra temere che Socrate nutra una paura immotivata dei sicofanti, al di là dell’effettiva motivazione per cui Socrate non vuole fuggire: Socrate penserebbe che i sicofanti siano capaci di far del male a Critone e agli altri suoi amici. Da questo punto di vista emerge la crudele animosità dei sicofanti ateniesi, che comunque Critone, quasi a tranquillizzare Socrate, definisce uomini di poco conto, senza particolare presa, euteleis. Non sfugge che questa schiera imprecisata e numerosa di delatori, pronti a recare danno, sembra coincidere con lo stuolo anonimo dei sicofanti che si trovano in ogni dove ad Atene, inclini all’accusa e a compiere atti di sopraffazione, secondo un’immagine ben codificata dalla commedia [per l’incontro tra Critone e Socrate in carcere, cfr. De Sanctis (2016, 62-64)]. Di diverso tenore rispetto al Critone appare, invece, il raffinato gioco che Platone crea nella Repubblica attraverso la ripresa e lo sviluppo del termine sykophantes nel dialogo tra Socrate e Trasimaco, quando Trasimaco spiega la nozione di giusto nel senso di fare l’utile del più forte. Platone sembra stravolgere ora, con ricercata tecnica allusiva, il riferimento che lega Socrate al sicofante nel Critone. Non traspare più il rapporto vessatorio subito da Socrate, l’accusato, da parte dei delatori, ma si verifica una trasformazione dello stesso Socrate in calunniatore argomentativo, per l’appunto in un sykophantes … en tois logois (340d), secondo la prospettiva del suo referente- antagonista. Non appena Socrate cerca di mettere alla strette Trasimaco, portandolo a convenire con lui che i governanti non sono infallibili ma possono sbagliare in qualcosa, Trasimaco accusa Socrate di essere un sicofante nelle discussioni, visto che tende a calunniare o per meglio dire a diffamare e distorcere l’argomentazione dell’interlocutore con tendenziosi e sofisticati stravolgimenti retorici. Al termine della replica di Trasimaco, Socrate non demorde e vuole sapere se Trasimaco crede che lui possa aver davvero rivolto le sue domande per danneggiarlo con giri di parole (εἶεν, ἦν δ’ ἐγώ, ὦ Θρασύμαχε· δοκῶ σοι συκοφαντεῖν; … οἴει γάρ με ἐξ ἐπιβουλῆς ἐν τοῖς λόγοις κακουργοῦντά σε ἐρέσθαι ὡς ἠρόμην; «ebbene, Trasimaco, dissi io, ti sembra che io mi comporti da sicofante? […] Credi forse che ti abbia interrogato in quel modo per metterti in trappola, usando argomenti capziosi?»; 341a6-7). Vale la pena notare che a questo punto Platone impiega un’associazione estremamente significativa: la συκοφαντία di Socrate è infatti connessa in maniera diretta alla kakourgia in un ambito retorico, una capacità malvagia di travisare le parole altrui. In altri termini emerge dalla Repubblica nello scambio tra Socrate e Trasimaco un evidente riferimento al sykophantes non tanto come uomo eticamente malvagio, ma come capace di stravolgere a suo favore la discussione, diffamando e screditando la sua vittima, sul chiaro modello dell’erista.

Non stupisce che questa pagina della Repubblica possa essere considerata l’ipotesto di un passo dei Topici (139b26-36) nel quale Aristotele lega la possibilità di συκοφαντεῖν, non già fare il delatore ma parlare in modo sofisticato, a un’occasione in cui il discorso non si adatta a ciò a cui è stata assegnata la definizione. Un discorso dunque evidentemente capzioso, abile ma non conforme alla definizione assegnata, che subito offre un riferimento non velato ai sofisti e agli eristi ai quali Trasimaco in fondo, sofista dichiarato, a sua volta sembra peraltro associare Socrate nella Repubblica. In questa prospettiva merita attenzione un passo di Demostene nel quale traspare chiaramente un’accezione metaforico- retorica del verbo sykophantein impiegato come sinonimo di un argomentare condotto in modo cavilloso (23, 61), sul modello del passo dei Topici ora esaminato. In questo modo risulta del tutto comprensibile il motivo per cui nella Retorica (1402a) Aristotele definisce sykophantia l’inganno retorico, arma delle dispute eristiche nelle quali per confondere non sono evocati la circostanza, il rapporto, il modo, mentre nelle Confutazioni sofistiche (174b) con sykophantema indica il cavillo retorico. Del resto, non è immotivato ricordare che una figura come l’Evatlo accusato nell’antepirrema della parabasi degli Acarnesi (vv. 702-718) sia considerato il prototipo comico del retore-sicofante in uno scolio alle Vespe e diventi figura centrale nelle Navi mercantili di Aristofane (fr. 424 K.-A.), una commedia incentrata sui delatori di professione e sulla loro faziosità retorica [cfr. Totaro (2000, 185)]. E certo il personaggio di Evatlo, legato all’occasione del processo intentato a Protagora come suo allievo di retorica, ha un chiaro rapporto con la sfera comica nella quale l’aneddoto del pagamento del salario è plausibile pensare sia nato [cfr. Corradi (2012, 31-43)].

Mentre nella Repubblica si intrecciano le due valenze del termine, la calunnia e la capziosità retorica, in Isocrate sembra prevalere la prima. Nell’esordio del Panatenaico (7-9), dopo un’affascinante descrizione della sua vita e della sua attuale vecchiaia, Isocrate ricorda di aver condotto un’esistenza felice e non comune, ricca e agiata, durante la quale le uniche lamentele sono state dovute alle sventurate calunnie che a volte hanno riguardato il suo insegnamento: καὶ τὴν τύχην ὠδυράμην, ταύτῃ μὲν οὐδὲν ἔχων ἐπικαλεῖν ἄλλο, πλὴν ὅτι περὶ τὴν φιλοσοφίαν, ἣν προειλόμην, ἀτυχίαι τινὲς καὶ συκοφαντίαι γεγόνασιν, «e ho lamentato la sorte, pur nonavendo niente altro da rimproverarle eccetto alcune disavventure e calunnie dovute alla filosofia a cui ho scelto di dedicarmi» (9). La rivalità diffamatoria alla quale accenna Isocrate nel Panatenaico testimonia ancora una volta lo slittamento semantico al quale è sottoposta la συκοφαντία, nel senso che ora, al termine del IV secolo, si ha la chiara sensazione che il valore metaforico di questa gamma lessicale, al di là dell’ambito processuale, si sia consolidato nel senso di una tendenza alla calunnia tra rivali nell’ambito educativo. Nello specifico di Isocrate, il dolore che emerge dal Panatenaico per via delle sykophantiai che ha subito la sua φιλοσοφία sembra evocare un clima di invidie e di animosità scolastiche. Del resto, non è immotivato pensare che la stessa polemica tra Eschine e Demostene [cfr., a riguardo, MacDowell (2009)] sia costruita su meccanismi comici nei quali l’accusa di essere un sicofante equivale a tacciare il rivale non solo di ingiustizia politica ma anche e forse soprattutto di una spregiudicata condotta etica, di un’immorale inclinazione al male collettivo, di un’indole malvagia e impudica. In ultima analisi un sicofante, a partire dal IV secolo, è da subito associato a un contesto asociale, lontano da un «comune standard di purezza» [cfr. Burkert (2002, 179 s.)]. Questo valore di sicofante come figura abietta e malvagia soppianterà a poco a poco il significato tecnico-giuridico del termine, sino a coincidere con uncarattere malvagio e generalmente portato all’inganno. Non a caso in Menandro il sicofante è definito un lupo per i suoi vicini e per i suoi concittadini (fr. 34 P.). In una favola esopica (135), per quanto sia difficile unacronologia relativa, un leone si lamenta con Promoteo per uno strano timore nei confronti del gallo: il suo katamemphesthai viene interpretato dal Titano come un immotivato sykophantein.

Sul piano etico, dunque, non è difficile legare la sykophantia alla poneria, secondo una tendenza che affiora già nella commedia. Non sfugge, ad esempio, a una possibile origine comica un frammento dai Philippika di Teopompo citato da Suda (1423 δ A. = FGrHist 115 F 110) che va in questa direzione: Δούλων πόλις· [παροιμία] ἐν Λιβύηι· Ἔφορος <ε>. καὶ ἑτέρα ἱεροδούλων … ἔστι δὲ καὶ ἐν Κρήτηι Δουλόπολις, ὡς Σωσικράτης ἐντῆι <α> τῶν Κρητικῶν. ἔστι δέ τις καὶ επὶ Θράικην Πονηρόπολις, ἣν Φίλιππόν φασι συνοικίσαι, τοὺς ἐπὶ πονηρίαι διαβαλλομένους αὐτόθι συναγαγόντα, συκοφάντας, ψευδομάρτυρας καὶ τοὺς συνηγόρους καὶτοὺς ἄλλους πονηροὺς ὡς δισχιλίους, ὡς Θεόπομπος ἐν <ιγ> τῶν Φιλιππικῶν φησιν, «la città degli Schiavi (proverbio): si trova in Libia. Eforo lo dice nel V libro. Ne esiste un’altra, quella degli schiavi sacri […] C’è anche una Doulopolis a Creta, come afferma Sosicrate nel I libro dei Kretika. Esiste una Poneropolis anche in Tracia, che si dice sia nata per sinecismo per volere di Filippo che qui condusse, come racconta Filippo nell’XI dei Philippika, gli uomini incolpati per malvagità, sicofanti, spergiuri, e gli avvocati e gli altri malvagi a migliaia». Nel ricordare in un proverbio la città degli schiavi, Suda colloca questo luogo in Libia, appellandosi all’autorità di Eforo assieme a una Doulopolis localizzata a Creta da Sosicrate. A rafforzare la presenza di città di emarginati e reietti, Suda rammenta anche una Poneropolis tracia, nata per sinecismo secondo il volere di Filippo. Un sinecismo di natura del tutto particolare, visto che, come narra Teopompo, non si sarebbe verificata un’unione di più centri abitati per formare una città più grande, ma un’unione di figure negative, un insieme di poneroi per l’appunto, che il re avrebbe riunito in un’unica sede, in quanto accusati di malvagità. Tra gli abitanti di Poneropolis Teopompo annovera in un catalogo particolareggiato i professionisti della delazione: oltre ai sicofanti, i falsi testimoni e gli accusatori. Non è inverosimile scorgere per la Poneropolis di Teopompo un contatto con la Kallipolis della Repubblica o con i riferimenti a società idealizzate, spesso sul modello dell’età dell’oro, che traspaiono nella commedia, come ad esempio nell’Età dell’oro di Eupoli (fr. 316 K.-A.). Nel contempo non è forse inopportuno intravedere anche un rovesciamento del modello della città ideale e forse utopistica nella descrizione della Poneropolis di Teopompo, secondo un’istanza ben radicata nella produzione dello storico [cfr. Winiarzyk (2011, 24 s.)].

Sembra possibile scorgere nel sicofante anche un particolare tipo di accusatore fraudolento in materie letterarie, erudite e filosofiche sul modello di Isocrate. Ad esempio, Artemidoro accusa Timeo di Tauromenio di essere βάσκανος e συκοφάντης in merito alla comprensione di alcuni psephismata relativi a un tempio di Artemide perché non avrebbe compreso le testimonianze secondo Strabone (XIV 1, 22): per questo motivo Timeo avrebbe meritato il cambiamernto del nome in Epitimeo, cioè Disonorevole, una storpiatura ridicola che certo sembra avere alla base una chiara matrice comica. Nella stessa prospettiva, notevole importanza assume la definizione che Eraclito Allegorista (4,1) offre di Platone in merito ai suoi guidizi su Omero: Ἐρρίφθω δὲ Πλάτων ὁ κόλαξκαὶ Ὁμήρου συκοφάντης, ἔνδοξον ἀπὸ τῆς ἰδίας πολιτείας τὸν φυγάδα προπέμπων λευκοῖς ἐρίοιςἀνεστεμμένον καὶ πολυτελεῖ μύρῳ τὴν κεφαλὴν διάβροχον, «al diavolo dunque Platone, adulatore e calunniatore di Omero, che accompagna l’esule fuori dalla sua Repubblica con tutti gli onori, coronato di candide bende e con il capo unto di lussuosi profumi» (4, 1). Dopo la rivelazione di un processo la cui fama giunge al cielo intentato contro il divino Omero, Eraclito passa in rassegna i principali fautori dell’accusa. Tra questi, Platone, che viene mandato alla malora dal momento che, nella Repubblica, propone il bando dei poeti dalla città ideale e soprattutto di Omero coronato di candide bende in segno di onore. Eraclito considera la συκοφαντία di Platone verso Omero come una calunnia denigratoria, immotivata e malvagia, soprattutto perché Platone, come anche Epicuro, altro denigratore di Omero, ha in realtà saccheggiato il divino poeta, come risulta evidente dalla lettura dei suoi dialoghi (4, 4). Ma soprattutto in questa accusa non è da sottovalutare che Eraclito ricorre anche a un altro termine significativo in commedia per delineare un carattere negativo e scorretto: Platone oltre a essere un sicofante assume anche i tratti dell’adulatore, il kolax, un uomo che prima blandisce e poi non esita a ingannare [cfr. Pontani (2005, 182-184)].

Dino De Sanctis @ 2016