Sicofante nella commedia

Α partire dalla metà del V secolo a.C., il ruolo centrale dei tribunali popolari e dell’accusa volontaria nel sistema politico ateniese provoca un vivace dibattito sugli abusi legali, i cui riflessi si colgono con chiarezza sulla scena comica. In primo piano è la maschera del Sicofante, campione dell’inganno perpetrato ai danni del demos, avido delatore che coglie ogni occasione, grazie alla sua abilità retorica, per accrescere le proprie ricchezze a scapito della polis. Come vedremo, a lato delle numerose occorrenze di sykophantes, «delatore», e sykophantein, «accusare ingiustamente», in Aristofane e in Eupoli il sicofante diviene personaggio sulla scena, svelando così una maschera coerente i cui tratti, sempre negativi, appaiono costanti nei diversi contesti drammatici.

Nel fr. 228 K.-A. dei Banchettanti (v. 1), il verbo συκοφαντεῖν attesta sulla scena di Aristofane il motivo della sicofantia, declinato forse come tendenza al ricatto tramite la delazione. Nei Cavalieri, la proposta che il Corifeo avanza al Salsicciaio di divenire il suo Φᾶνος, un membro della cerchia di Cleone, per i processi futuri nasconde un’allusione al ruolo ambiguo del sicofante nel gioco politico di Atene [vv. 1254-1256; cfr. Mastromarco (1983, 309 n. 217)]. Denota il sicofante quale invasore di ogni spazio politico nelle istituzioni della polis la reazione diDiceopoli che negli Acarnesi proibisce ai Sicofanti l’ingresso nella sua privata agora (vv. 725 s.). I Sicofanti rivolgono infatti le loro accuse contro un ampio spettro di vittime, che comprende ogni livello del potere politico: dal vertice, i magistrati uscenti (Eq. vv. 258-260), al gradino più basso dei cittadini ἀπράγμονες, «estranei allavita politica» (V. vv. 1037-1042). Aristofane tematizza di frequente il disprezzo per i sicofanti, anche quando la maschera non è presente sulla scena: dall’esplicita negazione di essere un sicofante da parte del Coro delle Vespe (vv. 1075-1097), di Trigeo nella Pace (v. 191), delle donne nelle Ecclesiazuse (vv. 452, 561 s.), della Vecchia nel Pluto (v. 970), all’accusa di sicofantia come attacco alle figure politiche, come accade per Cleone nei Cavalieri (v. 437) e nella Pace (v. 653), per Cleonimo negli Uccelli (vv. 1473-1477), per Neoclide nel fr. 454 K.-A. La presenza dei Sicofanti sulla scena comica non si interrompe con la Mese: in un frammento di Eubulo (fr. 74,1-6 K.-A.) si allude ai sicofanti come prodotto tipico del ‘mercato’ di Atene, come in Antifane (fr. 177,1-5 K.-A.). Alessi descrive un defunto con al collo una corona di fichi della quale si compiaceva molto in vita (fr. 4,1-3 K.-A.) e lamenta il fatto che il nome συκοφάντης non è corretto perché fa torto al dolce sapore del frutto, non armonico con la μοχθηρία, «malvagità, vizio», dei sicofanti (fr. 187,1-6 K.-A.). Nella Nea, con Menandro, il termine mantiene la propria pregnanza quale offesa (Pk. 375-378; Sam. 577b; Epit. 218b; Georg. fr. 1,1-5 A.; Theophoroumene fr. 1,14-17 A.).

Nell’Archaia, la distorsione comica della figura politica del sicofante si rivela in pieno quando la maschera compare sulla scena. Nelle scene episodiche, il Sicofante appartiene al gruppo di personaggi stereotipati (soldati, filosofi, poeti, indovini, retori, ambasciatori) che ostacolano il progetto dell’eroe comico, tentando di trarre profitto dalla sua vittoria [cfr. Pellegrino (2010, 119)]. Anche alla luce delle categorie individuate da Roland Barthes per la narrazione, secondo le quali le scene episodiche hanno funzione catalitica perché interrompono l’azione, offrendo indizi che permettono di comprendere la nuova realtà scenica dopo la vittoria dell’eroe [cfr. Grava (1999); Torchio (2001)], la comparsa della maschera del Sicofante negli Acarnesi (vv. 818-828, 908-958), negli Uccelli (vv. 1410-1469) e nel Pluto (vv. 850-958) mostra come il delatore rappresenti uno degli antagonisti che l’eroe deve sconfiggere per imporre la realtà nuova da lui vagheggiata. La caricatura del delatore prevede i tratti negativi dell’ingerenza negli affari pubblici, della dissimulazione, della venalità, dell’aggressività verbale, che causano la necessaria espulsione dalla scena per mano dell’eroe comico trionfante.

Le scene episodiche nelle quali il Sicofante compare quale personaggio mostrano elementi ricorrenti che compongono un ritratto coerente della maschera del delatore.

  • L’entrata in scena è sempre brusca e interrompe il dialogo tra gli attori presenti, rappresentando così l’ingerenza del sicofante nella vita dei cittadini. La maschera è connotata da un linguaggio altisonante e allusivo, sin dal suo ingresso. Negli Acarnesi (vv. 818-820), le trattative commerciali fra Diceopoli e il porcaio Megarese sono interrotte dal Sicofante, che rivolge al mercante straniero uno sprezzante doppio senso, fondato sul valore semantico dell’interrogativo ποδαπός, «di quale provenienza», tramite cui disconosce la natura umana del Megarese equiparandolo agli animali che commercia [cfr. Pellegrino (2010, 132 s.)]. Negli Uccelli, il Sicofante entra in scena con un canto lirico (vv. 1410 s.), interpretato da Pisetero come uno skolion (v. 1416). La battuta d’ingresso del Sicofante allude al fr. 345 V. di Alceo, del quale è imitato anche il metro, l’asclepiadeo maggiore. La richiesta delle ali è modellata sulla richiesta di armi che, forse da Achille, era pronunciata nei Mirmidoni di Eschilo (fr. 256 R.). Nel Pluto, l’ingresso in scena è connotato da un intenso tono patetico (vv. 850-853): il Sicofante enumera le proprie disgrazie, dovute al nuovo ordine stabilito da Pluto, con una serie progressiva di avverbi numerali [nesso frequente nella commedia; cfr. Pellegrino (2010, 187)] e impiega poi un’elevata metafora che descrive il daimon che deve affrontare come un vino forte al quale mescolarsi [cfr. Rau (1967, 208)]. L’altisonanza dell’ingresso del Sicofante è subito contrastata dall’invocazione comica, di tono colloquiale, ad Apollo Apotropaios, l’Apollo che allontana i mali, pronunciata da Carione [cfr. Medda (2006, 100)]. Il tono elevato dell’entrata in scena, oltre a contribuire alla caratterizzazione negativa, prepara il gioco comico che sarà sviluppato con la sempre degradante uscita di scena del delatore sconfitto.
  • La maschera del Sicofante è poi caratterizzata dall’impiego frequente di un lessico giudiziario e politico. Negli Acarnesi, il linguaggio del Sicofante insiste ripetutamente sul campo semantico della φάσις, «denuncia, delazione», impiegato nel senso tecnico della procedura legale per la violazione delle leggi sul commercio estero [cfr. Christ (1998, 141)]. L’uso del deittico segnala il sacco in cui il Megarese nasconde le figlie-troiette, uscite al v. 765 e rientrate al v. 818 in coincidenza con l’ingresso del Sicofante, al cui sguardo però non sono sfuggite [cfr. Mastromarco (1983, 175-177)]. Il gioco scenico poggia sulla procedura reale, nell’ambito della φάσις, che prevede la dimostrazione alla giuria del corpus delicti. Negli Uccelli, il Sicofante allude alle proprie tendenze delatorie proclamandosi κλητήρ, termine che designa l’ufficiale giudiziario che notifica l’atto di citazione all’imputato [vv. 1422-1423a; cfr. Zanetto (1987, 294)]. Al v. 1455 il verbo ἐγκαλέωrichiama la presentazione dell’istanza di accusa. Nella scena del Pluto, le occorrenze di βούλομαι sono emblema della volontarietà dell’accusa (vv. 908, 917 s.). Le ultime parole con le quali il Sicofante esce di scena nel Pluto coincidono con il lessico politico per il rovesciamento della democrazia (vv. 948 s.: καταλύει […] τὴν δημοκρατίαν) e per il potere suasorio della Bule e della Ekklesia (vv. 949 s.). Al linguaggio connotato dell’esperto di tribunali e assemblee corrispondeva probabilmente il piglio accusatorio della gestualità, con frequenti dimostrativi e locativi, elemento fondante nelle scene di Aristofane sul delatore.
  • Il Sicofante dissimula l’onestà e la dedizione nei confronti della polis, per essere presto smascherato dagli eroi comici. Nel Pluto, il Sicofante si definisce χρηστός, termine che, opposto a πονηρός, «corrotto», nel corso della commedia distingue chi era onesto ma povero perché il dio Pluto ancora non vedeva (v. 900). Il delatore afferma inoltre di essere φιλόπολις, «amico della polis», qualifica che si traduce poi nella βοήθεια, «soccorso», in favore delle leggi vigenti e nell’evergetismo per la città. Giusto ridurrà poi il presunto evergetismo del Sicofante a una nefasta πολυπραγμοσύνη, «agire da intrigante, da faccendiere», alla quale opporre un modello di vita ispirato all’ἡσυχία, «calma, quietismo» (vv. 900-925). Ancora nel corso dell’elenchos condotto da Giusto, il Sicofante afferma di essere curatore, ἐπιμελητής, degli affari della città e di tutte le questioni private, evocando il celebre epitafio di Pericle in Tucidide, che celebra i cittadini Ateniesi per l’ἐπιμέλεια, «cura», che dedicano in modo equilibrato agli affari pubblici e privati (vv. 907 s.; cfr. Th. II 40,2).
  • L’eroe comico disprezza il Sicofante che vive solo dei proventi della sua attività delatoria e ne svela l’inutilità per la πόλις. Negli Uccelli, Pisetero si stupisce di come l’attività delatoria possa essere un ἔργον, «lavoro, professione», ed esorta il Sicofante a occupazioni più degne (vv. 1430-1435). In seguito, concesse al Sicofante le ali, desidera indirizzarlo verso un ἔργον νόμιμον, «attività legale», ma il delatore reagisce con l’orgoglio per il proprio genos di delatori (vv. 1447-1452). Aristofane costruisce qui un’iperbole comica: la sicofantia non era una professione riconosciuta, mentre negli Uccelli diviene persino ereditaria e fonte di gloria per la stirpe del Sicofante. Nel Pluto, Giusto comprende in modo immediato la negatività del Sicofante subito dopo il suo ingresso, con la metafora numismatica che descrive il delatore come moneta di basso conio [vv. 860-863; cfr. Sommerstein (2001, 191)]. Anche Carione disprezza il delatore perché πονηρός, «disonesto», e «perforatore di muri» (v. 869). Subito dopo, il Sicofante è paragonato a un serpente velenoso dal cui morso Giusto si difende tramite l’anello-amuleto (v. 885). Nell’esame di stampo socratico [cfr. Webster (1970, 35)] promosso da Giusto, è svelato il falso evergetismo del Sicofante, opposto ai mestieri utili come quello del contadino, del commerciante o di chiunque sia possessore di una techne. Il Sicofante ammette di fingersi mercante, ma solo per ottenere favorevoli condizioni processuali.
  • Il Sicofante è irredimibile, il suo carattere negativo è irriducibile a un comportamento positivo. Negli Uccelli, Pisetero cerca di convincere il Sicofante a intraprendere un’attività rispettosa delle leggi, un ἔργον νόμιμον (vv. 1430-1452). Nel Pluto, Giusto tenta di convertire il Sicofante a una sana ἀπραγμοσύνη, «inattività politica» (vv. 921-925). Entrambi i tentativi però falliscono e preludono alla punizione fisica e all’espulsione della maschera dalla scena teatrale, proiezione del desiderio utopico di espellere tutti i delatori da Atene.
  • Le scene episodiche si chiudono con l’espulsione spettacolare del sykophantes, sviluppata di norma tramite la reificazione degradante del delatore, che diviene vittima del contrappasso. Negli Acarnesi, la reazione dell’eroe comico Diceopoli è repentina: con i servi imballa il sicofante Nicarco come un vaso da spedire via dalla polis (vv. 925-955). Il verbo μαρτύρομαι, «testimonio», con il quale Nicarco replica alla battuta precedente di Diceopoli induce a pensare alle percosse fisiche. La scena dell’imballaggio mostra un’inversione comica del reale agire politico del Sicofante, secondo la norma del contrappasso: uso a denunciare il traffico illegale di merci con l’estero, è a sua volta ridotto a merce e venduto allo straniero Tebano [cfr. Labarbe (1996, 158)]. Una volta imballato come una terraglia, probabilmente il Sicofante è appeso a testa in giù: la scena richiama secondo Douglas Olson (2002, 304 s.) il racconto sulla cattura dei Cercopi da parte di Eracle (cfr. Archil. fr. 178 W.; Pind. fr. 161 M.): il Sicofante è associato così alla «proverbiale πονηρία» dei fratelli malfattori per antonomasia [cfr. Pellegrino (2010, 154)]. Diceopoli offre poi una serie di paragoni con oggetti di uso quotidiano che riflettono le caratteristiche negative del Sicofante: il cratere, il mortaio e la coppa sono simbolo della tendenza del delatore a essere un coacervo di mali per la città, come il candelabro è emblema dell’abilità nello scovare pretesti per la denuncia dei magistrati uscenti [cfr. Pellegrino (2010, 156-158)]. Dai versi con i quali Diceopoli congeda il mercante Tebano emerge un ulteriore Leitmotiv del repertorio comico: l’infinito numero di sicofanti che infestano Atene. Se il Tebano otterrà un guadagno dal carico che sta trasportando, può tornare per prenderne altri (vv. 955-958).

Negli Uccelli, il Sicofante paragona se stesso a una trottola, della quale desidera acquistare la velocità nel muoversi da una città all’altra per condurre a processo i forestieri (vv. 1460 s.). La punizione che Pisetero infligge al Sicofante riflette di nuovo, come negli Acarnesi, la legge del contrappasso: il Sicofante desidera muoversi con la velocità della trottola per accusare le sue vittime e Pisetero esaudisce il suo desiderio con le frustate che agrande velocità lo fanno uscire di scena (vv. 1461-1468).

Nel Pluto, interviene in modo repentino Carione a interrompere il fallimentare tentativo di redenzione del delatore che era stato intrapreso da Giusto, dando inizio all’aggressiva spoliazione del Sicofante (vv. 926-943), i cui tratti umilianti sono accentuati dal fatto che il delatore è vittima di uno schiavo. Nella spoliazione, interpretata dal Sicofante come un furto subito, agisce di nuovo la legge comica del contrappasso, che ribalta a sfavore del delatore la sua tendenza a spogliare dei loro beni le vittime nei processi. Il lamento del Sicofante al v. 935 (ὄιμοι μαλ’ αὖθις) richiama le ultime parole pronunciate da Clitemnestra nell’Elettra di Sofocle (v. 1415) dopo il secondo colpo subito da Oreste: come accade a Nicarco negli Acarnesi, il Sicofante è finalmente battuto dall’eroe comico. Carione inchioda infine i calzari del Sicofante alla sua fronte, parodiando le offerte votive fissate agli alberi sacri: il delatore esce di scena scalzo, unico, a eccezione di Socrate, tra i personaggi di Aristofane (vv. 941-943). Il Sicofante corre (v. 952) fuori, invitato con ironia da Giusto e Carione a recarsi al bagno pubblico per riscaldarsi, dove però, sostiene ora Carione, sarà espulso dal bagnino che lo riconoscerà come individuo di «bassa lega» (v.957). Si chiude così la scena, nella struttura anulare costruita tramite il ritorno del nesso πονηροῦ κόμματος, «di basso conio», con il quale il Giusto aveva apostrofato il delatore in entrata (v. 862).

Il Sicofante è persona dramatis anche nei Demi di Eupoli, in una scena conservata dal Papiro del Cairo 43227 (fr. 99,78-120 K.-A.), nella quale il personaggio incontra Aristide redivivo per chiedergli protezione da uno straniero di Epidauro che aveva voluto denunciare: il Giusto reagisce con ironia e condanna il Sicofante. I tratti del personaggio coincidono con il delatore delle commedie di Aristofane [cfr. Carrière (1979, 246)]: si presenta come persona per bene (ἀγνός: fr. 99,79; cfr. Ar. Pl. 900, 911 s.), inver tendo la propria immagine pubblica [cfr. Telò (2007, 468)], attacca di norma gli stranieri (fr. 99,106-108; cfr. Ar. Ach. 818-820, 910-912; Av. 1431, 1453-1460), protesta per la violenza subita (fr. 99,108-110; cfr. Ar. Pl. 898-900), viene infine espulso dalla scena (fr. 99,112; cfr. Ar. Ach. 827 s., 924- 958; Av. 1461-1468, Pl. 930-950).

L’avversione dei poeti comici per il sicofante emerge dai tratti negativi che la maschera mostra sulla scena, come dalle elaborate dinamiche della sua espulsione dal mondo del protagonista. Assieme all’oratoria (si veda la Sezione 3), la commedia antica riflette l’avversione reale per i sicofanti quali nemici della salute civile che doveva accomunare il popolo di Atene in un sentimento di aperta ostilità. Di fronte al pubblico del teatro, che coincide con il pubblico delle giurie e delle assemblee alle quali si rivolgevano i sicofanti, Aristofane ritorce contro i delatori gli stessi spettacolari strumenti di persuasione da loro impiegati per ingannare il demos: la dirompente forza della parola che piega la realtà e la rocambolesca vitalità del gesto scenico [cfr. Labarbe (1996, 156); Carey (2000, 82); Pellegrino (2010, 130)].

Mario Regali @ 2016