La bruttezza, la capacità di imitare le movenze altrui e l’inclinazione al γελοῖον sono elementi che caratterizzano la scimmia anche dopo la commedia arcaica unitamente alle sue fattezze fisiche antropomorfiche, che già in antichità erano associate o associabili a quelle degli uomini. La natura mediana di questo animale, vicino all’ἄνθρωπος in quanto bipede ed eretto, sembra essere una costante nella trattatistica zoologica antica (Aristotele, Historia animalium 502a17, de Partibus animalium 689b31, Topica 117b18; Eliano, Historia animalium ???), un dato, questo, che potrebbe rendere conto del fatto che la scimmia si presta a diventare facilmente un simbolo distorto dell’umanità e delle sue convenzioni sociali. Non stupisce, dunque, che tali componenti del πίθηκος rientrino in un comune repertorio che, per l’appunto a partire dal mondo classico [cfr. Kitchell Jr. (2014, 5 per il πίθηκος, 116-122 per il κέρκος o κερκοπίθηκος)], permangono come peculiari, pur con significative sfumature, anche nella letteratura medievale e rinascimentale [cfr. Woldemar (1952, passim)].
Già nel periodo arcaico, ad esempio, la scimmia ha attratto interesse per la sua natura di animale intermedio. Archiloco (fr. ??? W.2) allude a una scimmia forse come simbolo di un parvenu politico o di un populi adulator da censurare, non a caso in un contesto giambico: la stessa associazione tra un politico e la scimmia è peraltro offerta da Aristofane nelle Rane (vv. 700-709) con il ritratto di Cligene πίθηκος (per l’associazione tra demagogo e scimmia si veda la Sezione 1). Del resto, lo stesso Archiloco definisce esplicitamente la storia della scimmia e della volpe come una favola paradigmatica, un αἶνος, termine che richiama la tradizione esopica [cfr. Aloni (1992, 541)]: una scimmia scacciata dai compagni se ne va sola per i campi fin quando è raggiunta da una furba volpe [cfr. Luria (1929), che individua un possibile parallelismo tra la scimmia di Archiloco e la figura del demagogo di Aristofane; cfr. anche Lenz (1945)]. Un secondo frammento, di più problematica interpretazione, sembra alludere all’offesa che la volpe rivolge alla scimmia dopo che questa si è privata delle vesti e mostra il deretano all’altro animale, ricevendone un insulto. Simbolo della donna danno esiziale tra gli uomini è la donna-scimmia di Semonide (fr. 7,71-82 W.2): significativa è qui l’associazione tra la donna-scimmia e il γέλως che essa produce per tutta la città, del quale non ha nessuna preoccupazione, visto il suo carattere impudico [cfr. a riguardo Lloyd-Jones (1975, ???)]. Ancora umanizzata è la scimmia che Pindaro ricorda nella II Pitica (72 s.), quando definisce un suo rivale – che gli scoli individuano in Bacchilide (???) – che lo denigra presso Ierone come una bella scimmia, un πίθηκος καλός, invitando il sovrano a non prestare fede alle sue parole [cfr. Angeli Bernardini (???, ???)]. Possiamo avere però un’idea abbastanza precisa delle caratteristiche attribuite alla scimmia osservando soprattutto la favola esopica, dove la scimmia è una figura ricorrente e dal molteplice significato: una scimmia è simbolo di un carattere mendace, un’altra per la sua abilità a danzare è scelta come re degli animali ma è sbranata da una volpe, un’altra è giudice in una disputa tra un elefante e un cammello. In un caso una scimmia è una servitrice al banchetto di un leone e di una volpe [per l’antropizzazione degli animali in Esopo, cfr. Jedrkriewicz (1989, 231-240), mentre per la scimmia nella tradizione favolistica cfr. Rodriguez Adrados (1999, I 354 s.)].
Certo, è probabile che le componenti sviluppate dalla favola siano state recepite anche dalla commedia e, per il suo tramite, confluite e mediate nella successiva produzione letteraria. Platone, ad esempio, evoca la scimmia in momenti significativi della sua produzione: nel Lachete (196e8) la scimmia è inserita in un elenco di animali che secondo Socrate in base alle argomentazioni di Lachete sulla ἀνδρεία dovrebbero essere coraggiose, anche se in realtà non lo sono. Nell’Ippia Maggiore (289a-b), invece, troviamo la scimmia in un’interessante fase elenctica del dialogo. Socrate sta dimostrando al Sofista che un oggetto non può essere considerato bello in assoluto. Propone a tale fine un esempio la cui autorità è fatta risalire a Eraclito [cfr. a riguardo Petrucci 2012, 87 n. 67)]. Socrate cita il noto detto per cui la più bella tra le scimmie è brutta, se messa al confronto con il genere umano, πιθήκων ὁ κάλλιστος αἰσχρὸς ἀνθρώπων γένει συμβάλλειν. Subito dopo Socrate aggiunge, seguendo ancora Eraclito, che il più saggio degli uomini avrà sembianza di scimmia, se paragonato a un dio, ἀνθρώπων ὁ σοφώτατος πρὸς θεὸν πίθηκος φανεῖται καὶ σοφίᾳ καὶ κάλλει καὶ τοῖς ἄλλοις πᾶσιν. Al di là della discussione sulla paternità eraclitea di questi frammenti [cfr. Fronterotta (2013, 214-216), con un’ampia discussione della questione], è bene sottolineare come nel dialogo si riverberi la tradizione per cui la scimmia è in generale secondo i Greci un animale dotato di particolare bruttezza e l’animale ad un tempo più simile nell’aspetto all’uomo, tanto da indicare in una ipotetica scala di valori il punto più basso e degradato raggiunto dalla bellezza umana, se comparata alla perfezione della divinità [sui rapporti tra l’Ippia Maggiore e la tradizione esopica in merito all’elehchos cfr. Kurke (2011, ???)]. Certo, invece, non sfugge che una verosimile allusione comica in merito alla presenza della scimmia in Platone debba essere individuata nella reincarnazione di Tersite in una scimmia al termine della Repubblica nel racconto di Er della Panfilia (620c3-4), πόρρω δ’ ἐν ὑστάτοις ἰδεῖν τὴν τοῦ γελωτοποιοῦ Θερσίτου πίθηκον ἐνδυομένην. Sfruttando movenze tipicamente epiche, Er racconta le varie metempsicosi in animali e in uomini assunte dalle anime che ha avuto modo di osservare nel tempo in cui le Parche hanno assegnato le sorti alle ψυχαί [cfr. Vegetti (???, ???)]. Prima di Odisseo, che sceglie non a caso la vita di un uomo da nulla dopo aver rinunciato a ogni velleità, è il turno di Tersite, il più brutto tra i Greci giunti a Ilio, il soldato che secondo quanto ricorda Omero nell’Iliade (II 212-216) ogni qual volta parla induce gli eroi alla derisione, ἀλλ’ ὅ τι οἱ εἴσαιτο γελοίϊον Ἀργείοισιν / ἔμμεναι· αἴσχιστος δὲ ἀνὴρ ὑπὸ Ἴλιον ἦλθε. Figura degradata e sgraziata, priva di abilità retorica e di κόσμος nell’epos, Tersite è un antieroe [a riguardo, cfr. …]. Platone ne sviluppa e ne esaspera evidentemente le caratteristiche comiche in una prospettiva denigratoria. Tersite da Er è definito γελωτοποιός, un buffone, come γελωτοποιός è, ad esempio, nel Simposio di Senofonte Filippo (???). L’associazione tra Tersite e la scimmia che si trova nella Repubblica, dunque, va interpretata in questa ottica: il più negativo tra gli eroi prende le forme del più brutto e ridicolo tra gli animali. Non è improbabile, peraltro, che nella scelta di ricordare per Tersite una metamorfosi in scimmia sia stata decisiva l’interpretazione dei versi omerici: la nascita inevitabile e ricorrente del riso dalle parole di Tersite si riflette nella tendenza della scimmia a far ridere chi la osserva, non solo per il suo aspetto buffo ma spesso anche perché la scimmia imita in maniera ridicola le movenze altrui [per Tersite nel racconto di Er e il suo mutamento in scimmia, cfr. Connors (2004, 184 s.)]. Val la pena di notare, peraltro, che secondo Licofrone nell’Alessandra (v. 1000) Tersite è un πιθηκόμορφος, mentre l’anonimo autore del Commento alla Retorica di Aristotele (68,9-11 Rabe), nel valutare l’idea secondo la quale è necessario che le cose comiche siano anche dolci (b25), chiosa tale affermazione con un giudizio che inequivocabilmente associa la scimmia al riso: εἴτε ἄνθρωπός ἐστι γελοῖος, ὡς ὁ πίθηκος καὶ τὸ ἔργον αὐτοῦ τοῦ πιθήκου γελοῖόν ἐστιν, εἴτε λόγος ἐστὶ γελοῖος.
Un caso emblematico della negatività della scimmia e del suo carattere scellerato è da scorgere nella nota accusa che Demostene nell’orazione Sulla corona rivolge a Eschine, suo rivale e calunniatore (242): τοῦτο δὲ καὶ φύσει κίναδος τἀνθρώπιόν ἐστιν, οὐδὲν ἐξ ἀρχῆς ὑγιὲς πεποιηκὸς οὐδ’ ἐλεύθερον, αὐτοτραγικὸς πίθηκος, ἀρουραῖος Οἰνόμαος, παράσημος ῥήτωρ. La critica ha giustamente sottolineato in questa violenta accusa un influsso comico di notevole forza e di chiara evidenza [cfr. Yunis (2001, 243)].
Merita, infine, particolare attenzione il fatto che per il tramite della favola esopica e della commedia la scimmia occupa scene significative nella produzione di Luciano. Nel Piscator (36), infatti, Luciano racconta una favola ambientata in un teatro regio. Un re egiziano insegna agli animali la danza pirrica, in quanto gli animali sono più inclini degli uomini all’imitazione. Uno spettatore arguto lancia al centro della frutta e subito le scimmie, dimenticandosi della danza, iniziano a combattere le une contro le altre per accaparrarsi la leccornia. Lo spettacolo suscita profonda ilarità in tutto il pubblico. Certo, oltre all’influsso esopico e alla pratica storica testimoniata da Eliano, secondo il quale i Tolemei insegnavano ai babbuini a danzare, alcuni elementi della favola sembrano giustificare nella scena un generale influsso comico, anche sul piano lessicale. Di particolare peso è il fatto che questo racconto sia stato ripreso e integrato da Gregorio di Nissa nel De professione christiana (VIII 1), con alcuni cambiamenti significativi, tra i quali il più vistoso è la presenza di una sola scimmia al posto della schiera di animali combattenti [a riguardo cfr. Cannatà Fera (2004, 50-53)]. Resta, tuttavia, l’ambientazione teatrale e farsesca della scena. Anche nell’Apologia (5 s.), peraltro, Luciano ricorda la danza della scimmia. In questo caso la scimmia è lo stesso Luciano, che si difende dall’accusa di aver mutuato il carattere e l’inclinazione dei dotti che vivono grazie ai pagamenti statali, un tempo dallo scrittore aspramente criticati, nel momento in cui Luciano stesso ha accettato una carica pubblica in Egitto.
Non è da escludere, per tutto ciò, che la scimmia fosse un simbolo dell’umanità alla rovescia già nella tradizione popolare e poetica arcaica e sia stata poi assunta dalla produzione favolistica e comica sino alle raccolte di Demetrio del Falero o di Seleuco di Alessandria [cfr. Crusius (1894, 299-231)], per rappresentare un tipo umano buffo in un comune e fitto intreccio tra più generi letterari. Aristofane, dunque, e la commedia in generale hanno potuto offrire una sorta di canonizzazione tramite l’apporto della favola per le caratteristiche del πίθηκος, che via via hanno avuto un lungo e proficuo sviluppo nel successivo panorama letterario [sull’influenza e la ricezione in Aristofane della favola esopica e di Esopo come sapiente cfr. Schirru (2009, 17-129)].
Dino De Sanctis © 2016