Scimmia nella commedia

Nelle rappresentazioni della scimmia che offre la produzione letteraria greca è possibile isolare quale tratto ricorrente la capacità di imitare l’uomo [cfr. Connors (2004, 184)]: la scimmia distorce le azioni e l’aspetto umani. Una caratteristica già chiara al pensiero antico: per Galeno, la scimmia è “imitazione ridicola dell’uomo” (γελοῖον ἀνθρώπου μίμημα, De an. adm. II 416 K.) come per Epitteto la scimmia imita tutto ciò che vuole (III, 15, 6; vd. sezione b). L’imitazione della scimmia è sempre negativa perché offre una copia deteriore di un modello positivo. Non a caso già in fase arcaica, ad esempio per la caratterizzazione di Tersite nel mito di Er del X libro della Repubblica di Platone o per il rivale di Pindaro nella Pitica II (72-75; vd. sezione C), la scimmia diviene simbolo dell’insieme di caratteristiche fisiche e morali in opposizione polare rispetto alla nozione dikalokagathia. In questo senso, l’aspetto ridicolo e deteriore della scimmia quale imitazione mal riuscita dell’uomo è recepito dall’archaia in funzione scommatica. Negli Acarnesi, Diceopoli scopre che uno dei due Eunuchi è l’effeminato Clistene, paragonato ora ad una scimmia: Ὦ θερμόβουλον πρωκτὸν ἐξυρημένε, τοιόνδε δ’, ὦ πίθηκε, τὸν πώγων’ ἔχων… (120: “tu che hai il focoso culo depilato, con questa barba, scimpanzé…). Aristofane costruisce una parodia di Archil. fr. 187 West (τοιήνδε δ’, ὦ πίθηκε, τὴν πυγὴν ἔχων “con un tale culo, o scimmia”), parte di una favola che leggiamo in forma più estesa in Esopo ( fab. 73, 81 Perry). Con la sostituzione di πυγή con πώγων, Aristofane associa all’aspetto della scimmia l’abitudine che l’influente Clistene aveva di radersi anche in età avanzata. Clistene, già maturo, imita l’aspetto dei παῖδες spinto dal desiderio sessuale e per questa tendenza all’imitazione è paragonato alla scimmia [cfr. Olson (2002, 109-111]. Ancora negli Acarnesi, Diceopoli invita il Beota a portarsi via un tipico “prodotto” di Atene: il sicofante (903-904). Il Beota declina l’offerta definendo il sicofante “uno scimmiotto pieno di malizie” (πίθακον ἀλιτρίας πολλᾶς πλέων): la scimmia è ora simbolo degli inganni del sicofante che assumono il profilo di una possibile contaminazione per la polis, come indicato dal significato religioso di ἀλιτρία (cfr. Olson 2002, 299). Con simile funzione, nei Cavalieri compare il termine πιθηκισμός, probabile conio di Aristofane: (887). Paflagone, ora in svantaggio rispetto al Salsicciaio che ha appena regalato un mantello a Demo, attribuisce al rivale “astuzie da scimmia” (πιθηκισμοί). Nella replica del Salsicciaio, che afferma di essersi semplicemente “messo nelle scarpe” di Paflagone, emerge di nuovo la capacità d’imitazione cometratto distintivo della scimmia [888-889; cfr. Neil (1901, 127)]. Nella seconda parabasi delle Vespe, Aristofane indica con il verbo πιθηκίζειν “fare la scimmia” il proprio atteggiamento tenuto in seguito allo scontro con Cleone successivo ai Cavalieri.Parte della critica ha ritenuto a lungo che il pithekismos fosse rivolto a Cleone con il quale Aristofane avrebbe stretto un temporaneo accordo, ora violato con la rappresentazione delle Vespe(per la messa a punto del problema cfr. Totaro 20002, 179-187). Ma sembra plausibile che l’accordo con Cleone fosse solo una calunnia da parte di alcuni nemici, veri destinatari del pithekismos (Mastromarco 1993). Πιθηκίζειν indica quindi il temporaneo prestarsi da parte di Aristofane al gioco dei suoi calunniatori con alcuni σκωμμάτια: riceve conferma l’aspetto comico dell’immagine della scimmia,preponderante in questo caso rispetto all’idea di inganno e furbizia (cfr. Totaro 20002, 192 n. 31); inoltre, è plausibile che la sponda offerta da Aristofane ai motti ai suoi calunniatori rappresenti una pallida imitazione della grande arte comica che invece Aristofane rivendica a se stesso e che torna, in funzione anticleoniana, a dispiegarsi proprio con le Vespe. Di nuovo, l’aspetto ridicolo della scimmia appare associato al concetto di imitazione.

Nella Pace, Ierocle, sostenitore della guerra, accusa Trigeo di avere fatto la pace con gli Spartani “scimmie dallo sguardo di fuoco”, con l’altisonante nesso χαροποὶ πίθηκοι dove il paragone con la scimmia indica il carattere ostile del popolo nemico. Analogo significato ha l’immagine della scimmia nelle Tesmoforiazuse (133), dove l’Arciere allontana con la frusta Euripide-Perseo che tenta di avvicinarsi al Parente-Andromeda. L’Arciere apostrofa Euripide quale “brutta volpe” che tenta di fare la scimmia (πιτηκίζειν) con lui: l’associazione delpithekismos alla volpe testimonia l’aspetto infido attribuito alla scimmia. Negli Uccelli, le caratteristiche della scimmia sono attribuite ad un ignoto fabbricante di coltelli, vittima di una moglie tirannica, sulla cui identità l’erudizione antica offre varie ipotesi (438-442; vd. sezione B). Nessuna delle ipotesi offerte dagli scolii però convince. In assenza di notizie certe sul personaggio del fabbricante di coltelli non è semplice comprendere in quale modo sia declinato qui il paragone con la scimmia [cfr. Mastromarco-Totaro (2006, 162 n. 89]. Nella parabasi delle Rane, nella quale il Coro esorta i cittadini alla riconciliazione con gli esiliati per il colpo di stato del 411, Cligene, protagonista delle persecuzioni contro gli oligarchi, è definito “scimmia” sia per la bassa statura (μικρός) sia, forse, per la sua attività economica che lucra sull’adulterazione del litron, una sostanza detergente (706-717; cfr. Mastromarco-Totaro 2006, 628 n. 108). Ancora nelle Rane (1083-1088), Eschilo accusa Euripide di avere affollato Atene di “buffoni scimmie del popolo” (βωμολόχοι δημοπίθηκοι) che ingannano sempre il demos: qui l’aspetto comico e ridicolo della scimmia è accostato sia al profilo del bomolochos (vd. voce) sia al profilo del politico ingannatore. Nelle Ecclesiazuse (1071-1073), la terza Vecchia, al suo ingresso in scena, è scambiata per una “scimmia incipriata” (πίθηκος ἀνάπλεως ψιμυθίου): emerge qui il viso della scimmia come emblema di bruttezza in quanto imitazione del volto umano [cfr. Demont (1997, 462-463)]. In un frammento del Μονότροπος di Frinico (fr. 21 PCG), un personaggio ignoto definisce “scimmioni” (μεγάλοι πίθηκοι) quattro figure dell’Atene coeva: Licea, Telea, Pisandro, Essecestide (cfr. Stama 2014, 152-154). Un secondo personaggio chiosa la definizione offerta dal primo sostenendo che il gruppo di “scimmie” è ben variegato, perché comprende il vile (δειλός), l’adulatore (κόλαξ), il bastardo (νόθος). Risulta evidente come l’accusa di essere una scimmia comprenda in sé molti degli aspetti negativi della politica ateniese, dall’adulazionealla bassa origine, il cui tratto comune è la distorsione in negativo delle virtù civiche. Di nuovo, la tendenza a deteriorare un modello positivo tramite l’imitazione caratterizza l’impiego dell’immagine della scimmia in un contesto scommatico.

La tradizione comica che dalla Mese giunge a Plauto prosegue l’impiego dell’immagine che abbiamo osservato nell’archaia. Eubulo, nelle Cariti, attribuisce ad un personaggio ignoto un’invettiva contro chi, al posto di educare i figli, si cura degli animali domestici tra cui la scimmia (fr. 114 PCG). Nel frammento degli Adelphoi attribuito ad uno dei poeti della Nea chiamati Apollodoro (fr. 1 PCG), è presente un makarismos per la vita nelsegno della ἀπραγμοσύνη, del disimpegno politico, alla quale si oppone la vita disperata che è necessario condurre nel mondo delle “scimmie”. Come nelle Rane e nei Cavalieri, la scimmia è simbolo della panourgia dei politici che escogitano ogni mezzo per ingannare il popolo a loro favore [cfr. Demont (1997, 460-461)]. Il motivo della scimmia è poi recepito e sviluppato in misura sorprendente nella commedia latina di Plauto. In particolare il gioco di parole tra simia e similis, indisponibile in greco, permette a Plauto di impiegare l’immagine della scimmia quando, per la risoluzione del plot comico, diviene essenziale la capacità di ingannare tramite false imitazioni che è il tratto distintivo di alcuni personaggi (cfr. Connors 2004). Un caso emblematico è presente nello Pseudolus, dove il protagonista arruola Simia, schiavo nella casa di Carino, per impersonare un messaggero che dovrà perpetrare un inganno fondato sulla dissimulazione (724-744). Nel Truculentus, quando la meretrix Fronesia dovrà mettere in scena un falso parto, la prima schiava ad essere chiamata per organizzare l’inganno è Pithecium (477-478). Nel Miles gloriosus, la dissimulatio di Milfidippa è annunciata dal paragone con la scimmia (pithecium) proposto dal soldato futura vittima dell’inganno (989-992). Di notevole interesse, ancora in stretto rapporto con il concetto di imitazione, è l’impiego innovativo da parte di Plauto della scimmia come immagine di se stesso, simbolo del poeta latino che imita e distorce i modelli greci in occasione dei ludi (Poenulus 1073-1074; cfr. Connors 2004, 193-194). L’ampia parabola disegnata dall’immagine della scimmia in commedia, dalla loidoria dell’archaia sino alla riflessione di Plauto sulla propria produzione letteraria, appare quindi segnata in modo costante dal concetto di imitazione.

Mario Regali © 2016