I Greci – e, di conseguenza, l’erudizione antica – sembrano aver considerato la scimmia, πίθηκος, un animale che, di aspetto non gradevole, può risultare ridicolo (MacDermott 1938, 110 ss.). Oltre al suo aspetto buffonesco, che consente di associarla al bomolochos, la scimmia è spesso considerata «scaltra», πανοῦργος, sia per la sua meschinità che per la sua attitudine all’inganno. Queste caratteristiche, considerate tali già in epoca arcaica (cf. Sem. fr. 7,71-82 W.2), sono sfruttate dalla Commedia antica per indicare metaforicamente, tramite πίθηκος, chi è dedito all’inganno, ἀπάτη, in special modo i sicofanti (cf. Totaro 2000, 160 ss.; 2006, 540 s. n. 165).
Le peculiarità della scimmia sono già ben esplicitate negli interpretamenta di πίθηκος nei vari lessici: se nella Suda (π 1578) essa è detta «l’animale più intrigante» (φιλοπραγμονέστατον γὰρ τὸ ζῷον), è significativo che il lessico spieghi ad locum il verbo διαπιθηκίσαι con διαπαῖξαι, «scherzare» (cf. Suda δ 699 = Phot. δ 407 = EM 269,38-39), nei fatti attribuendo alla scimmia un fare buffonesco. Sempre la Suda (π 1580) associa etimologicamente πίθηκος al verbo πείθω, «persuadere», una associazione che risale al grammatico Filosseno (fr. 17 Th. = Orion 134 s.v., EM 671,47-9) e che, probabilmente, nasce dal fatto che, soprattutto in Commedia, tale animale è simbolo dell’inganno. Nell’Etymologicum Gudianum (π 467,18-21), che a sua volta riporta l’esegesi di Filosseno, si mette in relazione il brutto aspetto della scimmia, εἰδεχθές, con la sua capacità di persuasione.
Per quanto riguarda l’aspetto, l’appellativo πίθηκος è affibbiato da Aristofane a individui che, secondo gli scoli e l’erudizione in genere, erano piccoli di statura, ossia a Panezio (Av. 440) e Cligene (R. 708). Per quanto concerne Panezio, lo scolio vetus 440 agli Uccelli offre diverse interpretazioni di «se costoro non fanno con me lo stesso patto che fece con sua moglie quello scimmione del fabbricante di coltelli» (vv. 339-441, cf. sezione 1 della voce): da una parte Simmaco ritiene che essi facciano riferimento a una favola simile a quelle di Esopo (idea condivisa anche da Callistrato, allievo di Aristofane di Bisanzio), mentre secondo Didimo la «scimmia» sarebbe un tale, dall’aspetto schifoso (αἰσχρός τις ἦν τὴν ὄψιν), che, davanti agli amici, si accordò con la moglie di non picchiarsi più in continuazione né di mordersi a vicenda. Il medesimo scolio identifica questo individuo dubitativamente con Panezio, il cui nome sembra comparisse (cf. schol. vet. 440αβ) nelle Isole (fr. 409 K.-A. καταλιπὼν ἀναίτιον πίθηκον), dove Aristofane lo aveva chiamato «scimmia», poiché era un πανοῦργος, un «poco di buon»: Panezio, in base all’appellativo μαχαιροποιός («costruttore di coltelli») che figura nei versi appena citati, avrebbe prodotto coltelli o sarebbe stato un cuoco (μάγειρος), informazioni che, tuttavia, hanno tutto l’aspetto di essere autoschediastiche. Lo scolio vetus 441a aggiunge che questo individuo sarebbe stato piccolo di statura (μικροφυής): tale caratteristica contrasta con il fatto che la moglie sarebbe stata grande di corporatura, tanto da dominarlo; lo sventurato Panezio, d’altra parte, sarebbe stato biasimato anche perché avrebbe colto la moglie in flagrante adulterio (cf. Suda δ 565, π 1577).
Per quanto concerne Cligene, il Coro delle Rane dice che «neppure questa scimmia ci dà noia, Cligene, il piccoletto» (vv. 708 s., cf. sezione 1 della voce): egli, secondo lo scolio vetus 709a, era un politico dalla parte dei ricchi, straniero e barbaro; di aspetto, sarebbe stato simile a una scimmia, presumibilmente – come Panezio – perché basso (cfr. schol. rec. 708b; vd. anche Totaro 2006, 628 s. n. 108). Riguardo a tali appellativi, si noti che, secondo la Suda (κ 215), gli Ateniesi erano soliti proferire le parole sgradevoli per mezzo di eufemismi, tra cui può essere annoverato πίθηκος. Che la scimmia fosse associata alla bruttezza, del resto, è evidente nelle Ecclesiazuse, in cui così è detta una delle vecchie che pretende alle grazie del giovane: lo scolio 1072a, infatti, spiega che quest’ultimo chiama la vecchia «scimmia», perché costei è deforme, ἄμορφος.
Come si è accennato, le caratteristiche della scimmia, una sorta di piccolo omiciattolo (cfr. Suda π 1578 ὁ βραχὺς ἀνθρωπίσκος), rendono questo animale ridicolo. Una espressione usata da Demostene nell’orazione Sulla corona (242) è indicativa al riguardo: in una sezione in cui l’oratore accusa Eschine di essere un meschino sicofante, egli lo definisce un αὐτοτραγικὸς πίθηκος, espressione dal sapore comico (Natalicchio 2000, I 174 n. 92). Tale espressione, divenuta secondo la Suda (τ 893) proverbiale, indicava una persona che si vantava senza ragione (cf. Hsch. τ 1234, Phot. τ 411 s.): secondo Arpocrazione (τ 21), Demostene avrebbe così chiamato l’avversario a causa di una sua sfortunata performance come attore, sicché, più di saper recitare, egli mimerebbe male gli attori tragici (si pensi all’italiano «scimmiottare»). Secondo la voce della Suda (τ 893) appena menzionata, la ragione per cui Eschine sarebbe stato accostato a una scimmia dipenderebbe dal fatto che tale animale è dedito all’imitazione, μίμηλος.
L’aspetto ridicolo della scimmia, inoltre, è forse connesso alla sua giocosità, che la assimila a chi «a chi fa il furbo», κερκωπίζοντες (cf. Synagogè κ 290 = Suda κ 1409). I κερκώπιδες, etimologicamente connessi al verbo κερκωπίζειν, introducono all’accezione di πίθηκος che è maggioritaria in Commedia, ovvero quella di «scaltro, furbo, ingannatore». Nei περὶ βλασφημίων del grammatico Svetonio (89 T., cfr. Phot. κ 609 ), nella sezione concernente i πονηροί, i Cercopides sono detti πανοῦργοι e ingannatori, ἀπατηλοί: costoro sarebbero stati lapidati perché avrebbero cercato di ingannare Zeus. Secondo la Suda (κ 1405), essi, che sarebbero stati due fratelli, avrebbero tratto il nome dalle atrocità delle loro imprese, con κέρκωψ che indica «furbo, maligno»: l’uno sarebbe stato soprannominato Πάσσαλος, «Chiodo»; l’altro Ἄκμων, «Incudine». Secondo un’altra versione del mito, riportata sia da Svetonio che dalla Suda, essi sarebbero stati ecisti di Pitecusa e sarebbero stati trasformati in scimmie per volere divino a causa della loro malvagità, κακοήθεια. Svetonio aggiunge che da costoro deriverebbe il senso di κερκωπίζειν, che, secondo alcuni, trarrebbe origine dagli animali che scodinzolano con la coda (cf. κέρκος, «coda»). Il grammatico conclude che κερκωπία indicherebbe l’inganno in Simonide (in realtà, secondo una consueta confusione, il referente è Sem. fr. 7,71-82W.2 citato in precedenza). Secondo la Synagogè (κ 291, cfr. Hsch. κ 2108), inoltre, il κέρκωψ, oltre a essere un ingannatore (ἀπατεών), è anche un tipo di scimmia. In Fozio (κ 606) i Κέρκωπες, paragonati alla volpe, sono detti, insieme a scaltri e ingannatori, anche δόλιοι, «infidi», e κόλακες, «adulatori» (cf. Suda κ 1406, 1410 e EM 506,40-44, Et.Gud. κ 316,52-56).
Che simili caratteristiche fossero quelle tipiche dei bomolochoi e dei sicofanti è già evidente dal v. 907 degli Acarnesi, in cui Diceopoli offre al Tebano un sicofante: quest’ultimo rifiuta, perché si porterebbe via una scimmia piena di colpevolezza (ἀλιτρίας), ossia, come spiega lo scolio vetus al passo, piena di ἁμαρτία, «errore, colpa», e ἀδικία, «ingiustizia». Tale scaltrezza ritorna nei Cavalieri, in cui Paflagone accusa il Salsicciaio di incalzarlo con astuzie degne di una scimmia (v. 887 οἵοις πιθηκισμοῖς με περιελαύνεις): esse sono inganni e adulazioni (ἀπάταις καὶ κολακεύμασιν) o imitazioni (μιμήμασιν) secondo lo scolio vetus 887a (= Suda π 1576). Nella seconda parabasi delle Vespe (vv. 1265-1291, cfr. Totaro 2000, 75 ss.), invece, Aristofane afferma di aver assunto un po’ l’atteggiamento di una scimmia nei confronti di Cleone, ossia, come spiega lo scolio vetus 1290b, lo ha adulato (μικρὸν αὐτὸν – i.e. Cleone – ἐκολάκευσα, cfr. Suda σ 687; vd., inoltre, Totaro 2000, 161). In questo quadro possono essere letti i vv. 1064 s. della Pace, in cui Ierocle accusa i mortali di non seguirre gli oracoli e di essersi accordati con le scimmie dagli occhi di fuoco (χαροποῖσι πιθήκοις): queste scimmie, secondo lo scolio vetus 1065b, non sarebbero altro che i Lacedemoni, mentre il vetus 1065c fa notare che πιθήκοις è al posto di λέουσιν, «leoni», ossia uno degli animali feroci che, nell’epos (e.g. Od. XI 611), hanno come epiteto χαροπός, «dagli occhi lucenti». È possibile, dunque, che Ierocle accusi velatamente i feroci Spartani di essere dei falsi ingannatori, in sostanza dei sicofanti. Nelle Rane (v. 1085), infine, la scimmia è associata esplicitamente ai bomolochoi: costoro, nati a causa di Euripide secondo Eschilo, sono detti δημοπίθηκοι, ossia «costanti ingannatori del popolo», come chiarisce il v. 1086. Per spiegare questo composto, lo scolio vetus 1085b richiama semplicemente i concetti di adulazione e di persuasione, mentre il recentius 1085b, dopo aver evocato la capacità mimetica della scimmia e, dunque, dei bomolochoi, spiega che tale animale è ποίκιλος, «multiforme, sottile, astuto». In sostanza, i ciarlatani, che sono πανοῦργοι come le scimmie, usano falsi e affettati scherzi nei riguardi del popolo, chiaramente per ingannarlo: questa è, per gli Ateniesi, l’eredità di Euripide.
Stefano Caciagli © 2016