Prologo nella traduzione e nella messa in scena

Se si osserva il prologo aristofaneo dal punto di vista pragmatico, con occhio da teatranti più che da classicisti, a colpire è l’importanza e la varietà delle sue funzioni. Il suo ruolo non è meramente strumentale, ma metateatrale e per così dire ‘portante’: è una sorta di timone, una barra che segna la rotta, già nei primi versi che conserviamo di Aristofane. O, per usare una metafora musicale, è una chiave a inizio partitura, che ci dà in prima battuta la ‘tonalità’ della commedia in questione: un accordo dominante, che varia di volta in volta, frutto di un sapiente equilibrio tra le scelte linguistiche, formali e di contenuto che contraddistinguono ciascuna commedia, trama e perfino personaggio. E se le note sono sempre le stesse, naturalmente, le combinazioni sono infinite. Nei miei studi su Aristofane, dal punto di vista teatrale (si veda la bibliografia in calce e in particolare Treu 1999), ho riscontrato molte variabili e poche costanti, a partire proprio dal prologo. Innanzitutto gli attori: prima ancora di tradurre, leggere o ascoltare una sola battuta, per capire cosa ci aspetta basta guardare quanti attori sono in scena. Sono loro (per mantenere la metafora musicale), le chiavi, gli accordi, il ritmo e gli strumenti che caratterizzano la partitura. Sin dal prologo è evidente come il primo attore (sempre presente in scena, come vedremo) abbia la parte del ‘primo violino’, ma è anche il diapason che ‘dà il La’ all’orchestra permettendo via via agli altri strumenti di accordarsi insieme, e agli attori di entrare in scena o di prendere parte al gioco, manmano, secondo le regole che lui stabilisce. Anche Lanza (2012, 173) suddivide il prologo degli Acarnesi (vv. 1-203) in tre movimenti “adagio, concitato, andante”: il primo è un monologo, il secondo una scena di gruppo, e il terzo un dialogo a due). Il ruolo di ‘direttore d’orchestra’ spetta al regista (che Aristofane programmaticamente distingue da sé, rinunciando a quel ruolo a favore di un professionista del mestiere): è lui a ‘dare l’attacco’ alla commedia, e questo vale anche per ogni allestimento moderno.

Lo sa bene chi frequenta i teatri, le sale da concerto, le arene estive: l’incipit è in ogni caso fondamentale, nel bene e nel male, sulla carta come sulla scena. Qui l’autore e il traduttore, il regista e l’attore si giocano il rapporto col pubblico. E non solo a teatro: le prime battute di un copione, i primi momenti di uno spettacolo, valgono come l’inizio di un brano musicale, le prime scene di un film o di un telefilm (che spesso hanno un vero e proprio prologo, come è noto). In pochi minuti, talvolta anche secondi, lo spettatore tv decide se cambiare canale o proseguire. Lo stesso vale per l’autore e l’attore comico, antico o moderno (anche televisivo), e di riflesso per il traduttore: con le prime battute può farci chiudere il libro o farci proseguire la lettura. E se è vero che in teatro il pubblico non cambia canale, e raramente si alza e se ne va, tuttavia il comico resta un duro banco di prova per qualsiasi attore, che ‘sente’ la sala al primo colpo: se la risata non si innesca subito, se non scatta la complicità nei primi momenti, allora difficilmente lo spettacolo decolla. Lo hanno sottolineato in tanti, da Dario Fo a Vittorio Gassman, e tutti, da spettatori, lo possiamo confermare. Le prime battute, oltre a far ridere, servono a ‘scaldare il pubblico’ (in gergo teatrale) ossia a instaurare con gli spettatori un rapporto empatico e solidale che durerà per tutta la commedia, nel migliore dei casi: soprattutto per il commediografo antico, che disputa una gara a colpi di risate, è facile immaginare che un prologo riuscito (o meno) possa contribuire in modo determinante alla vittoria o alla sconfitta nel concorso cittadino.

Aristofane lo sa bene. E ce ne dà prova, ogni volta, sfoggiando il suo repertorio di trucchi per conquistare il pubblico in poche, pochissime battute. A differenza di altri comici (anche solo di pochi anni successivi) Aristofane non comincia col raccontarci una storia, un antefatto, una situazione. Può anche non farlo affatto, o perlomeno non subito: prima ci fa entrare nel mood della commedia; crea un’atmosfera unica, ogni volta diversa; ci fa assaggiare i sapori ‘forti’, ma anche più delicati, che compongono la sua personale ricetta. Gli ingredienti di base sono la parodia tragica, gli attacchi ai personaggi noti, i commenti a fatti di cronaca, i lazzi e le buffonerie su malesseri, difetti fisici o incontinenza di singoli individui o categorie di persone, oppure l’incapacità dipoeti e musicisti, ma soprattutto dei comici rivali. In modo autoironico, Aristofane nel prologo delle Vespe (vv. 50 ss.) sciorina i trucchi del mestiere che infarciscono le sue stesse commedie, e ne prende le distanze. I due servi, prima di esporre la vicenda, chiariscono agli spettatori cosa non devono aspettarsi: “risate megaresi, sottobanco”, “la solita coppia di servi che da un cesto butta noci agli spettatori”, “né il solito Eracle, che gli fregano il pranzo, e neanche Euripide, sfottuto l’ennesima volta” (Marzullo 2008, 294-5). E ancora, per distinguersi dai rivali, nel prologo delle Rane (vv.1-12) l’autore, per bocca del primo attore (Xantia) e del terzo (Dioniso) critica i lazzi altrui, a suo dire triti e ritriti: e al tempo stesso li usa [cfr. la traduzione di Cantarella (1964, 43-7), usata da Ronconi a Siracusa nel 2002, e Del Corno (1992, 11-3)].

E non è un caso se quella stessa commedia – com’è noto scopertamente metateatrale – prende di mira in modo esplicito, ripetuto e magistrale proprio i prologhi dell’amato /odiato Euripide. Aristofane si propone tramite Eschilo di ‘distruggerli’ dimostrando di poterci “adattare ogni cosa: sacchettina, boccetta, bisaccina” (Romagnoli 1933), ossia completando ogni verso del rivale con lo stesso finale “ruppe la boccetta” Romagnoli) o “perse la boccetta” (Marzullo), creando così il primo memorabile ‘tormentone’ comico della storia. Il lazzo con la ripetizione ossessiva in crescendo (fruibile dal grande pubblico) ha la più sottile funzione (apprezzata dagli intenditori) di mettere a nudo l’intercambiabilità delle formule, ma nel complesso la modularità dei prologhi, e sottintende l’accusa a Euripide di sfruttare all’infinito un modello abusato (cfr. supra “Il prologo nell’erudizione” e Napolitano 2016). Peraltro, come nel sopra citato prologo delle Rane, anche in questo caso Aristofane non ha remore nell’usare disinvoltamente quello che irride: proprio il modello dei prologhi tragici e specialmente euripidei (ben noti al pubblico per evidente contiguità spazio-temporale) è presupposto di molti suoi memorabili ‘attacchi’ [ad esempio Acarnesi o Donne a parlamento: cfr. per la prima commedia Lanza (2012) e Lauriola (2008), per la seconda Capra (2010)].

Qui è di solito il primo attore, che meglio padroneggia i registri più vari, dall’aulico al triviale – e ne fa buon uso per vincere il concorso – a riservarsi un lungo incipit in climax. Esordisce con un lamento, una preghiera, un’invocazione che riecheggia nel tono, nel lessico e negli stilemi tragedie ben note, o genericamente una ‘maniera tragica’, che di solito si infrange ben presto con una battuta dal sapore forte e di contenuto basso o triviale. La paratragodia raggiunge l’apice, a nostro avviso, nel prologo delle Nuvole, caratterizzato da un’atmosfera notturna, malinconica, perfino angosciosa: il protagonista non riesce a dormire, tormentato dai debiti, mentre il figlio responsabile della sua rovina dorme beatamente e sogna cavalli (la sua mera presenza fisica e la controscena ‘onirica’ accrescono evidentemente l’isolamento avvertito dal protagonista). Questo humour nero caratteristico del prologo domina non a caso l’intera commedia e culmina nel finale drammatico (l’incendio al Pensatoio) sempre più spesso accentuato dagli allestimenti recenti. Si vedano rispettivamente Treu, Giovannelli, Capra (2010) per Le Nuvole dirette da Antonio Latella (2009) e Treu (2014) per Le Nuvole dell’Ensemble Teatro Due di Parma (2014): due allestimenti decisamente più ‘cupi’ rispetto alle Nuvole dirette da Sammartano (1988) e da Maggi (2011), semmai più vicini ai toni macabri delle Rane siracusane di Ronconi (2002) o a quelli grotteschi degli Uccelli di Tiezzi (2005).

Simili scelte di regia si inquadrano in una più generale tendenza a rileggere Aristofane in chiave ‘dark’, ma nel caso specifico delle Nuvole si giustificano, a nostro avviso, in virtù del peculiare clima sospeso, carico di tensione e di incertezza: in questa luce il prologo delle Nuvole appare una spia importante che prefigura il tema complesso della commedia nonché gli elementi contraddittori e ambigui che accomunano i personaggi e il Coro (cfr. Treu 1999, 42-45). Tutto questo è già evidente nei primi versi, sulla carta e sulla scena, grazie alla caratterizzazione insolitamente dettagliata e raffinata del protagonista che per certi versi rappresenta un’evoluzione del ‘tipo comico’ cui molta critica (almeno a partire da Cornford 1914) ha da tempo ricondotto i tratti essenziali e ricorrenti del protagonista aristofaneo. Anche in questo caso le scelte dell’autore sono dettate da esigenze pratiche e contingenti, oltre che stilistiche ed estetiche: in particolare il protagonista, ma anche ilcoro e gli altri attori, sono evidentemente portatori del messaggio, argomento o problema che ad Aristofane sta a cuore (la pace, prima di tutto).

A questo riguardo si è sottolineato sin da principio come il prologo serva a definire i temi-chiave della commedia, presentare i personaggi al pubblico e conquistarlo in pochi minuti: a tale scopo il commediografo rielabora tipi ‘fissi’, tradizionali e stereotipi dai tratti fisici e comportamentali ricorrenti, aggiungendo pochi selezionati tratti per evidenziare di volta di volta quel che gli serve. All’identificazione concorrono costume, maschera e parrucca (vecchi, contadini, servi e così via), il modo di muoversi, il lessico fortemente caratterizzante con cui parlano di sé e dei loro problemi. Si tratta spesso di veri e propri antieroi, decisamente spregevoli. Eppure bastano poche battute e siamo già dalla loro parte: la miglior prova di un prologo riuscito, frutto di talento e di collaudato mestiere. Ne abbiamo due esempi già nei primi due prologhi conservati, Acarnesi e Cavalieri, esponenti rispettivamente di quello che potremmo chiamare prologo del ‘primo tipo’ (il primo attore solo in scena) e del ‘secondo tipo’ (due attori): in particolare nella seconda commedia il primo attore (in gergo teatrale ‘il comico’) è affiancato dal secondo (‘la spalla’) e insieme formano la cosiddetta ‘coppia comica’ (è il tipo di prologo più diffuso: Cavalieri, Vespe, Pace, Uccelli, Rane, Pluto). Tra questi personaggi ricorrenti ci sono naturalmente i servi in combutta o in competizione tra loro, che solitamente si lamentano del padrone (Cavalieri, Vespe, Pace) oppure viene direttamente inscenata la classica dialettica servo-padrone (Rane e Pluto). Come è stato più volte sottolineato dalla critica, a partire da Russo (1984) e Lanza (1989), il perno di questa coppia è sempre il primo attore: e lui si riserva sempre il prologo, non solo per scaldare il pubblico, come si è detto, ma anche per catturarlo, portarlo dalla sua parte ed esporre in prima persona l’idea-chiave della commedia.

Se tutto questo spetta a lui, allora rinunciare a un momento così importante come il prologo sarebbe contro ogni logica teatrale: al più la sua entrata può essere ritardata ad effetto e preparata dagli altri attori (è il caso di Filocleone nelle Vespe). Per questo non convince per i Cavalieri la ripartizione dei ruoli proposta da Russo (1962; 1984) e Dearden (1976, 97) che attribuiscono al primo attore la sola parte del salsicciaio, che entra in scena a ben 150 versi dall’inizio: preferiamo seguire Lanza (1989) che invece suddivide la parte del salsicciaio tra terzo e primo attore (rispettivamente prima e dopo la parabasi) e assegna al primo attore la parte del primo servo, decisiva nel prologo [per la ripartizione dei ruoli nei Cavalieri cfr. Treu (1999, 21 ss.), per il prologo (in particolare di questa commedia) cfr. Napolitano 2016].

A questo proposito va anche sottolineato che tutti i personaggi del prologo dei Cavalieri (come di molti altri), non hanno nome, ma sono contraddistinti solamente dalla qualifica di ‘servo’ o di ‘salsicciaio’. Alcune edizioni riportano i nomi degli strateghi Nicia e Demostene (che dovevano essere riconoscibili dalle maschere, oltre che dai riferimenti testuali, ma non sono mai nominati) e di Agoracrito. Non è marginale il fatto che quasi sempre i personaggi siano, a inizio commedia, significativamente anonimi: per favorire l’identificazione del pubblico, e per riservare come sorpresa il loro nome (spesso ‘parlante’) a prologo inoltrato (o anche più avanti). Le traduzioni italiane rendono variamente i nomi parlanti del protagonista e degli altri personaggi: in passato si è tentato di tradurli in equivalenti moderni [cfr. a titolo di esempio le differenti scelte di Romagnoli (1933), Mastromarco (1983), Degani (1988) e tra gli ultimi Capra (2010) e Lanza (2012)]. In particolare la più recente edizione degli Acarnesi, curata da Diego Lanza, prima traduce con “Ambedeo” l’originale “Anfiteo” (per metà uomo e per metà immortale), e poi con “Falsancial” l’originale Pseudartabas “l’Occhio del Re” (Lanza 2012, 64-75): è probabile che le battute del Falso Persiano celassero una parodia delle formule ufficiali delle ambascerie del Gran Re (si veda Negri Treu, 2009) ma perlopiù i traduttori rinunciano a tradurle, o le rendono variamente in grammelot, ora in americano maccheronico (Lanza 2012, 177), con implicita assimilazione della ‘lingua franca’ di oggi a quella dell’antico Impero. Ancora, sui nomi parlanti e più in generale sui personaggiaristofanei si veda Capra (2010, 47 e 5): nella sua recente edizione delle Donne a parlamento (sulla scorta di Lanza, 1989), preferisce indicare quale attore sta parlando, per evidenziare la gerarchia dei ruoli e la continuità delle rispettive prestazioni, a prescindere dai personaggi interpretati [si veda anche Treu, Giovannelli, Capra (2010, 258-259)]. Una simile scelta, certo fondata e al tempo stesso coraggiosa, si contrappone a una prassi da tempo invalsa che non solo elenca tutti i personaggi a inizio commedia, ma ne indica il nome in didascalia, a dispetto della consuetudine originaria, e in generale a scapito del comico, dei suoi tempi e ritmi, di un suo ingrediente fondamentale: l’aprosdoketon o inatteso. Il nome parlante, come molte battute, fa leva sull’effetto-sorpresa: svelarlo al momento opportuno è come ‘calare unasso’ sulla scena, opportunamente preparato nel prologo (lo stesso accade per il coro: nel prologo si anticipa qualche indizio per stuzzicare la curiosità del pubblico e aprire la strada alla parodos). ‘Bruciare’ il nome a inizio commedia è come anticipare la fine di una barzelletta, sbagliando i tempi comici.

Altrettanta cautela sarebbe d’obbligo, per i traduttori, nel dare le indicazioni sullo spazio scenico del prologo: spesso si svolge in un ambiente domestico, con alcune vistose eccezioni come l’assemblea (Acarnesi) o un non-luogo fuori Atene, preludio a un’ambientazione aerea o sotterranea (Pace, Uccelli, Rane, Pluto). Ma quel che più conta è che è sempre l’attore comico, di volta in volta, a ‘creare’ lo spazio con le sue parole, come è stato osservato (Lanza 1989a). Le leggi teatrali che dominano la commedia antica non rispettano le nostre norme di verisimiglianza, e sono di natura altamente simbolica, non realistica. Dunque sarebbe buona norma limitare allo stretto necessario le didascalie sceniche, rigorosamente sincroniche, non prolettiche: evitando, in altre parole, di guastare l’effetto-sorpresa anticipando al pubblico quel che gli si farà vedere (o più probabilmente immaginare) a tempo debito. Molte edizioni invece premettono una lunga didascalia al testo che descrive minuziosamente la scena (presunta) ricavandola da quel che diranno gli attori soltanto in seguito. In questo modo si condiziona la percezione della scena da parte del lettore, mentre in Aristofane le cose vengono letteralmente ‘evocate’ dall’attore, come spiriti che prendono corpo in scena: prima, potremmo dire, semplicemente non esistono. Il prologo della Pace ad esempio è tutto giocato sull’indeterminatezza: i due servi stanno evidentemente impastando focacce, ma evitano accuratamente di menzionare lo scarabeo stercorario, e la materia di cui si nutre, parlano di ‘mangiamerda’ termine invalso nell’uso con significato metaforico e come tale equivocabile (difatti fingono che qualcuno nel pubblico lo fraintenda, e in questo modo ne approfittano per una frecciatina).

Riempire Aristofane di sovrabbondanti didascalie (nel caso dei traduttori), o di scenografie e oggetti (per la messinscena) è una tentazione cui pochi resistono: scenografi e registi spesso non si accontentano di una scena nuda e povera, come quella antica, ma già a inizio spettacolo l’affollano di oggetti e immagini. Piuttosto che una didascalia pare preferibile premettere, con maggiore originalità e sforzo creativo, una scena di nuova concezione come quella escogitata da Egisto Marcucci, regista degli Acarnesi (Siracusa, 1994). Aristofane sin dalle prime battute sottolinea lo stato di guerra, l’impatto che ha sul protagonista (e di riflesso, come abbiamo visto, sul pubblico). Per questo il regista lo colloca in mezzo a fantocci di cadaveri sparsi nell’orchestra; vengono a raccoglierli due creature alate e inquietanti, due ‘angeli della morte’ vestiti da macellai, con i grembiuli sporchi di sangue. Il rumore di un elicottero li mette in fuga. Il protagonista si alza e si prepara a parlare al pubblico. In questo prologo come si accennava sopra, il protagonistès è perno assoluto della scena, senza che intervengano altri attori per molte decine di versi. Nel caso specifico un attore comico d’eccezione, Marcello Bartoli, forte di un lungo addestramento nella commedia dell’arte (come Arlecchino), è in scena, riverso a terra, si alza e inizia a parlare, in medias res. Le prime battute “Quanti guai mi hanno rosicchiato il cuore…” sono una litania di gioie (poche) e dolori (tanti), un lamento, che invita di per sé il pubblico alla condivisione all’identificazione del protagonista in base ai gusti, alle passioni, alle idiosincrasie. Anche questa è una funzione importante del prologo, uno strumento potente per creare un senso di appartenenza e coesione, un invito a riconoscersi in un gruppo o categoria, ad aderire più o meno esplicitamente a una corrente di pensiero. Inquest’ottica un buon adattamento potrebbe sfruttare questo meccanismo cercando parallelismi nel mondomoderno e magari impiegando, per analogia, i nostri meccanismi di cooptazione, ad esempio sui social network (a partire dal semplici “mi piace /non mi piace” fino ai tipi più variegati di fan club veri o virtuali).

Questo esempio permette di evidenziare anche un altro aspetto di grande rilevanza: l’inevitabile “aggiornamento”dei riferimenti culturali, a fatti e personaggi dell’Atene di V e IV secolo. Perché la commedia decolli il prologo deve servire concretamente a scaldare il pubblico. Ma come può farlo se i nomi originari (Teognide ad esempio) sono oggi sconosciuti ai più? Meglio sostituirli con equivalenti moderni, o restando in campo teatrale e dunque attingendo al gotha di registi, drammaturghi, attori (anche con una punta di cattiveria verso i rivali, ma possibilmente con autoironia) oppure, ad esempio, usando nomi di autori noti (Baricco?), musicisti (Giovanni Allevi?) attori o ‘divi’ contemporanei (Roberto Bolle? Filippo Timi?), che rendano possibile l’identificazione.

Qualcosa di simile è accaduto nelle Vespe siracusane (cfr. Grilli 2014 e Avogadro 2014): le battute dei due servi sono integrate da altre contemporanee anche rivolte al pubblico e – fatto per noi interessante – agli attori che recitano nelle tragedie in scena in quegli stessi giorni. Per contrasto la precedente edizione delle Vespe a Siracusa, diretta da Renato Giordano (2003), malgrado la nota preposta al testo, che parlava di “cambiamenti alla traduzione (…) necessari”, in realtà si limitava a togliere perlopiù i referenti originali, senza sostituirli con equivalenti moderni. Un problema evidente sin dal prologo, fino alla scena del processo ‘casalingo’ ai due cani, che era in origine una trasparente allegoria di fatti reali, in cui erano coinvolte personalità un tempo note, oggi sconosciute. La satira sarebbe risultata senz’altro più efficace se il regista ne avesse“aggiornato” i bersagli con equivalenti moderni.

Una simile scelta in chiave decisamente contemporanea caratterizza altri allestimenti, tra cui spicca I Cavalieri-Aristofane Cabaret, un bell’adattamento in forma di teatro musicale scritto, diretto e interpretato da Mario Perrotta (Premio Ubu 2011). Qui il prologo è preceduto, significativamente, da una sorta di breve ‘avvertenza esplicativa’, rivolta al pubblico dall’autore/attore, che contiene una provocazione e al tempo stesso una dichiarazione programmatica: “Questo non è Aristofane, questo è Aristofane rovistato e scorretto. Questa è una scorrettezza continua, è una fotografia scattata a sorpresa, senza preavviso, a futticumpagnu. È un Aristofane preso a prestito, quando serve, altrimenti… bastiamo noi” (Perrotta 2011).

Allo stesso modo una precedente riscrittura dei Cavalieri (Gonzales 1980), premetteva al prologo aristofaneo una lunga scena di scaramuccia tra i due servi e il salsicciaio, camuffati da pagliacci, ricca di lazzi circensi. Sempre al servizio della satira, per inciso, va segnalato anche un caso inverso: Aristofane fa da prologo a un testo moderno. Nel gennaio 2011 Una Frenesia di Scimie (progetto e testo di Gennaro Carillo, diretto e interpretato da Sandro Lombardi), premette estratti dai Cavalieri di Aristofane ad una lettura di Eros e Priapo di Gadda, sfruttando il parallelismo intuito da quest’ultimo tra Mussolini e Paflagone (antieroe della commedia aristofanea modellato sulla ‘maschera’ del demagogo Cleone).

Come termine di paragone moderno si potrebbero citare ad esempio i prologhi di Dario Fo (che ha più volte riconosciuto il suo debito con la tradizione comica e con Aristofane, pur non avendo mai interpretato una sua commedia: si veda Treu, 2016). A inizio spettacolo, come testimoniano le riprese dell’epoca, Fo faceva sempre qualche battuta perlopiù ispirata alla cronaca, e approfittava anche di spunti estemporanei (ad esempio se succedeva qualcosa in teatro, uno spettatore ritardatario, un altro dalla risata particolarmente buffa e fragorosa). Allo stesso modo anche i prologhi di Aristofane potrebbero meglio svolgere la loro funzione di ‘apripista’ se fossero aggiornati, anche strada facendo, con fatti di cronaca specialmente rilevanti.

Un’altra strada per attualizzare i prologhi è sfruttarne il carattere metateatrale: alcuni registi e drammaturghi premettono o aggiungono brani di altri testi, o d’invenzione, che fanno perno proprio sugli attori, sul loro comportamento in scena [le sopra citate Nuvole di Latella (2009), o dell’Ensemble Teatro Due di Parma (2014), portano l’attenzione del pubblico proprio sul momento dell’entrata in scena cfr. Treu, Giovannelli, Capra (2010)].

La trattazione fin qui condotta va integrata con un’ultima osservazione: si è parlato finora soprattutto degli attori, e non del coro, dato che il prologo tradizionalmente precede la parodos. Ma è da notare che soprattutto sul finire della carriera Aristofane ‘confonde le acque’ e aumenta in modo consistente anche nel prologo la presenza del coro, quasi a bilanciare la perdita d’importanza che questo progressivamente riveste. In particolare nei prologhi di Lisistrata e Donne a parlamento le protagoniste femminili espongono il loro piano ad altre donne loro complici, e si preparano ad attuarlo. La commedia del 392 ha però, in aggiunta, una sorta di secondo prologo [cfr. Russo (1984, 241) e Capra (2010, 204 ss.)] sviluppato in modo parallelo ma antitetico al primo: a inizio commedia Prassagora e le donne travestite da uomini si preparano all’assemblea, ossia al colpo di stato che le porterà a sostituire i loro mariti; nel secondo prologo, maschile, vediamo il rovescio della medaglia, due uomini vestiti da donna, di cui uno intento ai bisogni corporali: senza saperlo, e senza poterlo impedire (non sono andati in assemblea) hanno già perso il loro potere. E quale modo migliore di mostrarlo? Come la divisione del coro della Lisistrata, tra maschi e femmine, anche qui il doppio prologo serve a sottolineare il comico rovesciamento dei ruoli e delle gerarchie (età, sesso etc.) che sarà il tema portante della commedia. Lo confermano, sulla scena, prima le Donne a Parlamento dirette da Serena Sinigaglia (2006), su cui si veda Giovannelli (2008), poi quelle siracusane di Vincenzo Pirrotta (2013). Qui la protagonista Anna Bonaiuto (energica generalessa, seria e autorevole negli intenti e nei toni), trova un degno, comico contraltare nello stesso regista che veste i panni (ridicolmente femminili, vista anche la sua fisicità) del marito di Prassagora, Blepiro: e vedendoli in scena, prima separati e poi insieme, viene spontaneo pensarli come gli eredi moderni dell’antica “coppia comica”.

Martina Treu © 2016