Gli studi moderni sul prologo comico trovano il loro punto d’avvio, salvo errore, dallo Schulprogramm di Franz Nesemann, Zur formalen Gliederung der altattischen Komödie. Erster Theil: Der Prolog, edito in due parti distinte tra il 1868 e il 1870 nei quaderni del Königliches Gymnasium di Lissa. Un lavoro che, precedente di un quindicennio l’uscita a stampa della Gliederung di Zieliński, pur certo invecchiato, va considerato senz’altro pionieristico. Il titolo generale e la specificazione esplicita del fatto che la sezione dedicata al prologo era stata pensata dall’autore come prima parte di un progetto che avrebbe dovuto con ogni probabilità includere anche il resto delle strutture formali comiche fanno peraltro immaginare una sensibilità complessiva ai problemi posti dalle strutture ricorrenti dell’archaia che, alla fine degli anni sessanta dell’Ottocento, può certo qualificarsi come ancora singolare, se non proprio eccezionale [tra i non molti lavori sulle strutture formali di archaia precedenti quello di Nesemann ricorderei qui Kock (1856), Hornung (1861), Ascherson (1862) e Genz (1865)].
Ai non molto numerosi studi sul prologo comico di quinto secolo seguiti alla dissertazione di Nesemann farò riferimento nel corso del lavoro circoscrivendo il campo all’essenziale, prendendo cioè in considerazione solo i lavori specificamente relativi al prologo e tralasciando, salve rade eccezioni, le trattazioni contenute all’interno delle monografie dedicate, in tutto o anche solo in parte, alle strutture formali tipiche della commedia attica antica. Come mi è capitato di osservare di recente recensendo il bel volume di Marta Di Bari dedicato ai finali di Aristofane, al molto provvidenziale addensarsi di lavori di carattere formale che ha segnato negli ultimi decenni gli studi relativi alla commedia attica di quinto secolo la filologia italiana ha saputo contribuire in modo decisivo [Napolitano (2015, 561)]. Pure, se le parabasi, prime e seconde, l’agone epirrematico, le sezioni lirico-corali e i finali hanno ricevuto l’attenzione che meritavano, i prologhi, insieme alle scene episodiche postparabatiche, restano ancora scoperti: un motivo in più per cercare, in attesa che qualcuno pensi a un lavoro di taglio complessivo che ponga rimedio alla lacuna, di stilare un pur molto parziale e del tutto provvisorio bilancio. Il che mi propongo, appunto, con questo mio lavoro, che ho ritenuto opportuno limitare, nella sua parte finale, a un’analisi del prologo dei Cavalieri, pur ben consapevole come sono del fatto che si tratta di un testo inadatto a fornire un quadro complessivo dell’organizzazione e del funzionamento dei prologhi di archaia, essendo, il prologo dei Cavalieri, rappresentativo solo di una specifica configurazione di prologo comico tra altre possibili. Fare riferimento a un testo permetterà però di entrare, per così dire, nel laboratorio di Aristofane: una prerogativa che mi è parsa prevalente, per importanza, ai limiti impliciti nel coinvolgimento di un testo rappresentativo solo entro certi confini, come dicevo, della tipologia formale della quale è esempio.
Per quanto attiene alla definizione formale del prologo comico non si può evitare di prendere le mosse dal capitolo dodicesimo della Poetica di Aristotele, che pure è dedicato, vale appena la pena di ricordarlo, alla definizione formale, secondo quantità, dei μέρη della tragedia: κατὰ … τὸ ποσὸν καὶ εἰς ἃ διαιρεῖται κεχωρισμένα, per citare Aristotele, ovvero, nella traduzione allestita nel 2008 per i ‘Classici’ della Piccola Biblioteca Einaudi da Pierluigi Donini, «dal punto di vista quantitativo e come risultanti separatamente dalla sua divisione» (Arst. poet. 12 1, 1452b15), a distinguere la partizione quantitativa definita nel corso del capitolo dodicesimo da quella, di ordine piuttosto qualitativo che quantitativo, operata nel capitolo sesto in relazione alle sei parti καθ᾽ ὃ ποιά τις ἐστὶν ἡ τραγῳδία, «grazie alle quali la tragedia risulta di una certa qualità», ancora secondo la traduzione di Donini, ovvero il racconto, i caratteri, il linguaggio, il pensiero, lo spettacolo e il canto (poet. 6 6, 1450a8-10). Dei sei μέρη elencati nel capitolo dodicesimo il primo è, appunto, il prologo, che Aristotele definisce nel modo che segue: ἔστιν δὲ πρόλογος … μέρος ὅλον τραγῳδίας τὸ πρὸ χοροῦ παρόδου, «prologo è la parte completa della tragedia che precede l’ingresso del coro». Una definizione che, per quanto relativa ai prologhi tragici e non a quelli comici, e anche a voler prescindere, qui, dai ben noti problemi sollevati dall’autenticità dell’intero capitolo dodicesimo della Poetica, non vedo motivo per non ritenere esportabile anche ai prologhi comici di quinto secolo.
Il prologo di archaia, dunque, come l’organismo, ampio, complesso e articolato, che si estende dall’inizio della pièce fino al primo ingresso del coro in orchestra e all’attacco della parodo. Una definizione che ha il pregio, intanto, di essere in linea non soltanto con la definizione descrittiva riservata nella Poetica al prologo tragico, ma anche con le più tarde cristallizzazioni di derivazione aristotelica, relative non solo alla tragedia ma anche alla commedia: penso, per fare solo un esempio, forse il più significativo alla definizione di prologo comico che si incontra nel Tractatus Coislinianus: πρόλογός ἐστι μόριον κωμῳδίας τὸ μέχρι τῆς εἰσόδου τοῦ χοροῦ (15 p. 67, 52 Koster), una definizione della quale non credo si possa evitare di tenere conto, del tutto indipendentemente dalla valutazione del rapporto che lega il Tractatus alla Poetica, un rapporto, sia detto qui en passant, che io vedo indiretto e mediato, in linea con quanto distesamente affermato, da ultimo, da Heinz-Günther Nesselrath nelle dense, lucide pagine dedicate al Tractatus nel suo bel libro sulla commedia di mezzo [Nesselrath (1990) 102-149] assai più che come riflesso diretto, se non come vero e proprio excerptum, di quanto Aristotele avrebbe argomentato nel perduto libro sulla commedia, il disperso, e fantomatico, secondo libro della Poetica [è, questa, come è ben noto, la tesi sostenuta da Janko (1984)]. Se è vero, peraltro, quanto Nesselrath afferma in relazione alle definizioni fornite nel Tractatus a proposito di ἐπεισόδιον e ἔξοδος (per ἐπεισόδιον si veda Nesselrath (1990) 144 n. 98: «wieder einmal dürfte der TC durch platte Übertragung einer in der aristotelischen Poetik auf die Tragödie angewandten Terminologie unnötige Verwirrung gestiftet haben»; per ἔξοδος Nesselrath (1990) 144: «das ist nicht nur eine wenig geschickte Übernahme im Ausdruck, sondern auch eine bedenkliche Vergröberung im Gedanken»), direi che la definizione di prologo si presta meno bene a obiezioni del genere, e può essere, pur con ovvia cautela, accolta.
Resta fermo, a ogni modo, il fatto che la definizione aristotelica di prologo tragico, e a molto maggior ragione quella di prologo comico contenuta nel Tractatus, non ci dicono nulla su cosa si intendesse indicare col termine πρόλογος a livello di quinto secolo. Le reiterate occorrenze del lemma πρόλογος nella sezione dell’agone delle Rane nel corso della quale prima Euripide e poi Eschilo sottopongono a puntigliosa verifica, appunto, i prologhi del rivale (Ar. Ran. 1119-1250) non ci dicono altro, e non è poco, in fondo, che il termine, almeno per i prologhi tragici, non soltanto era già in uso alla fine del quinto secolo, ma che esso era forse, a quel livello cronologico, di uso già consolidato [concordo, in questo, con quanto nota al proposito Lucas (1968) 136 ad 52b19: «this term for the first part of a play goes back at least to Aristoph. Ran. 1119, where it is clearly a word in common use»]. Il che, del resto, può essere affermato - per la commedia, per giunta - anche per un altro lemma che siamo abituati a ricondurre alla letteratura di taglio trattatistico, dalla Poetica di Aristotele in poi: intendo riferirmi al termine ἐπεισόδιον, che, prima che nella Poetica tra i μέρη della tragedia, ricorre già in un frammento della Πυτίνη di Cratino (fr. 208, 2 K.-A.) e più tardi nel fr. 15 K.-A. di Metagene, dal Φιλοθύτης [utile discussione in Pellegrino (1998) 328]. Analogo discorso per il termine πάροδος, che in Aristotele, oltre che nella Poetica, ricorre in un passo dell’Etica Nicomachea (IV 2, 6, 1123a19-24) che, per le sue prerogative non tecniche, e anche al netto dei considerevoli problemi di esegesi che pone (problemi per i quali rimando all’ottimo lavoro di G. M. Sifakis, Aristotle, E.N., IV, 2, 1123 a 19-24, and the Comic Chorus in the Fourth Century, «AJPh» 92/3, 1971, pp. 410-432, con il quale sono perfettamente in linea), suggerisce l’idea che il termine nel quarto secolo, e con ogni probabilità già prima, fosse in uso corrente non soltanto in ambito teorico e trattatistico, ma anche nella comune pratica teatrale, commedia compresa.
Il che detto, e per tornare ai prologhi, considerato il fatto che, salva un’unica e isolata eccezione, nella scena delle Raneche ho chiamata in causa poco fa a essere citati sono ogni volta esclusivamente i versi di apertura delle tragedie di volta in volta sottoposte a esame, resta, ovviamente, in dubbio se con πρόλογος alla fine del quinto secolo si intendesse indicare la sola parte iniziale della tragedia, i versi, ad esempio, del monologo espositivo precedente all’ingresso in scena di personaggi diversi dal προλογίζων nel caso di tragedie aperte, appunto, da monologhi, oppure, come è in Aristotele, l’intera sezione precedente l’attacco della parodo: un punto che, messo a ragione in risalto da Dover nel suo commento al verso 1119 delle Rane [Dover (1993), 331 ad 1119: «it is questionable whether Aristophanes used the word that way (scil. il termine πρόλογος nella medesima accezione in cui è usato e definito da Aristotele); all the examples in 1119-1241 […] are the opening lines of plays»], è reso ancor più problematico, se si vuole, dal fatto che, nel citato passo della Poeticadedicato alla definizione di πρόλογος, l’ὅλον che si accompagna a μέρος potrebbe essere frutto di aggiunta seriore [così, ad esempio, Lucas 1968, 137: «possibily added in order to distinguish the prologue from the opening monologue characteristic of Euripides»].
Quanto alla commedia, la situazione è ancora più intricata e oscura, né aiutano granché gli unici due passi di Aristotele nei quali ricorrano riferimenti espliciti al prologo comico, la digressione su origini e primi sviluppi del genere comico a Atene contenuta all’inizio del capitolo quinto della Poetica (poet. 5 2, 1449b1-6) e il parallelo istituito, in seno al capitolo quattordicesimo del terzo libro della Retorica, tra i προοίμια dei discorsi giudiziari, da un lato, e προοίμια epici e prologhi drammatici, dall’altro (rhet. III 14, 1415a8-22: a rigo 22, καὶ ἡ κωμῳδία ὡσαύτως, il riferimento, del resto cursorio, alla funzione espositiva dei prologhi comici nel confronto con le analoghe funzioni proprie di quelli tragici). In fondo, i due passi aristotelici che ho appena citato, come anche i versi 283-284 Gow di Macone, ove il plurale πρόλογοι ricorre, nella mordace replica di Gnatena a Difilo, a designare i prologhi di quest’ultimo, non fanno molto altro che dirci, ancora una volta, che il termine πρόλογος era in uso non solo per la tragedia, ma anche per la commedia, in ambito di quarto e terzo secolo, e con ogni verosimiglianza già prima, ma non aiutano in alcun modo a immaginare che cosa si intendesse con πρόλογος da un punto di vista formale, specie per quanto attiene all’estensione della sezione che così veniva indicata e denominata.
Si dovrà dunque correre il rischio, del resto consapevole, di utilizzare il termine prologo in un’accezione più estesa e comprensiva di quella con la quale il termine era utilizzato a livello di quinto secolo. Un rischio che correrò anch’io, d’altronde, proponendo un’analisi del prologo dei Cavalieri che terrà presente, appunto, tutta la sezione che si estende dall’esordio del dramma fino al primo intervento del coro, ovvero i versi 1-246, in linea, peraltro, il che mi conforta, con la stragrande maggioranza degli studiosi che si sono occupati dei prologhi dell’archaia, a partire dai padri fondatori degli studi moderni centrati sulle strutture formali tipiche della commedia di quinto secolo, ovvero il già citato Thadeusz Zieliński della Gliederung der altattischen Komödie (Leipzig 1885) e Paul Mazon, autore, poco più tardi, dell’altrettanto fondamentale Essai sur la composition des comédies d’Aristophane (Paris 1904). Il rischio più grosso risiede, naturalmente, nel trasferimento alla commedia di categorie descrittive, prologo compreso, che l’Aristotele della Poeticaapplica, come si è detto, alla tragedia. Nel che, però, non vedrei un problema di portata davvero rilevante se non fosse per la considerazione del fatto che, almeno a quanto è dato di vedere, i prologhi tragici mostrano prerogative notevolmente diverse da quelle che appaiono proprie dei prologhi aristofanei superstiti, sensibilmente più estesi, quanto a numero di versi, e altrettanto sensibilmente più articolati e significativi quanto all’incidenza di ciò che vi ha luogo in relazione all’economia complessiva del dramma che sono di volta in volta chiamati a introdurre [per l’estensione dei prologhi aristofanei in relazione all’estensione complessiva delle commedie si veda la comoda tabella sinottica fornita da Okál (1991) 111]. Il quadro messo a punto dalla filologia ottocentesca, che tendeva, come è ben noto, a considerare il prologo tragico di quinto secolo, nel suo progressivo consolidarsi dalle origini, per noi purtroppo in gran parte nebulose, fino alle configurazioni sperimentate da Euripide, un’innovazione intervenuta nel tempo rispetto a un modello di tragedia che non ne prevedeva, in origine, la presenza, credo abbia resistito bene al tempo. Nulla osta, dunque, a immaginare un percorso in tutto o in parte simile anche per la commedia, delle cui articolazioni formali più caratteristiche e idiosincratiche, la parabasi e l’agone epirrematico, il prologo certo non fa parte. Comunque si voglia immaginare la commedia attica delle origini e dei primi decenni, a partire dagli Acarnesi Aristofane non solo scrive commedie provviste di prologo, ma costruisce i suoi prologhi facendone strutture sensibilmente più estese e articolate, come dicevo, rispetto ai prologhi tragici contemporanei: un dato che, significativo entro certi limiti, perché parziale e difettivo, non potrà però essere ignorato. Altro conto, naturalmente, è provare a spiegare il fenomeno del quale ho appena detto. Forse la più ampia articolazione del prologo comico rispetto a quello tragico potrà essere letta come conseguenza di un fatto, in sé ovvio, al quale ricordo di essere stato reso pienamente sensibile per la prima volta, a suo tempo, da uno splendido lavoro di Ernst-Richard Schwinge sui Cavalieri di Aristofane [Schwinge (1975)]. Il fatto, intendo, che, mentre la tragedia fonda i suoi intrecci su vicende desunte da un repertorio, quello del mito, che, pur non essendo certo monolitico, garantiva al poeta e al suo pubblico una griglia di riferimento salda e precostituita, permettendo all’uno di esporre gli antefatti dell’azione in modo tendenzialmente sintetico e all’altro di orientarsi senza grosso sforzo in attacco di rappresentazione, il poeta comico mette in scena vicende che, prive di ogni possibile riferimento esterno, e di volta in volta uniche nel loro assetto narrativo, pur all’interno di un quadro rigidamente normato da un punto di vista drammaturgico e formale, hanno bisogno di essere dipanate nei loro presupposti e nel loro primo svolgimento con un certo agio, a evitare il più possibile il permanere di aree di disorientamento negli spettatori.
Per quanto considerazioni di altro segno siano ovviamente affiancabili a quelle che ho provato a argomentare adesso, chi ritenga ragionevole questo tentativo di spiegazione potrà immaginare estensione e articolazione del prologo comico di quinto secolo funzionali alle prerogative del genere e dunque accogliere senza particolari difficoltà l’interpretazione estesa della struttura formale del prologo comico che proporrei di applicare all’analisi degli esempi aristofanei superstiti. Tale interpretazione estesa ha del resto il pregio, come dicevo, di essere in linea con il piano descrittivismo che Aristotele riserva nella Poetica alla definizione di prologo tragico: un approccio descrittivo che è a sua volta del tutto ragionevole nell’isolare, come blocco incipitario delle pièces, una struttura omogenea, priva cioè di fratture formali significative tanto in relazione al coinvolgimento esclusivo degli attori, all’esclusione, dunque del coro, quanto, per conseguenza, a livello metrico: il che, se vale per la tragedia, vale allo stesso modo anche per la commedia. Va d’altronde osservato che tentativi di definizione alternativi all’approccio descrittivo di matrice aristotelica non hanno sortito, almeno a mio modo di vedere, effetti incoraggianti. Penso qui, ad esempio, alla definizione di prologo di recente avanzata, per Aristofane, da Sandrine Coin-Longeray, per la quale il prologo aristofaneo sarebbe da identificare come segue: «toute la partie qui va précéder l’énonciation de l’idée-solution du héros» [Coin-Longeray (2008) 316]. Una definizione che intanto presuppone nozioni in quanto tali problematiche, a partire da quella di ‘idée-solution’, così vicina alla categoria di ‘komisches Thema’ messa a punto da Klaus-Dietrich Koch [Koch (1965)] e rivelatasi nel tempo assai più gravida di aporie, nella sua rigidità eccessivamente schematica e generalizzante, che foriera di autentici progressi sul piano dell’esegesi delle singole commedie, e che, poi, si palesa da subito quanto mai impropria e diseconomica: impropria perché obbliga, in fondo, a fare i conti senza motivo con l’idea che i prologhi comici di quinto secolo fossero legati, nella loro definizione formale, a fatti di contenuto piuttosto che a costanti strutturali, un’idea di taglio molto libresco, a ben vedere, e dunque assai difficilmente sovrapponibile alla sensibilità integralmente aurale del pubblico delle rappresentazioni; diseconomica perché obbliga l’esegeta moderno che voglia isolare il ‘début’ di una commedia a individuare, in via preliminare, il punto di snodo tra quanto precede e quanto segue la messa a punto della ‘idée-solution’ da parte dell’eroe comico, con l’ovvia, e sgradita, conseguenza che tutto ciò che preceda tale punto di snodo, ovvero, non dimentichiamolo, i primi versi della commedia, finisce inevitabilmente per essere relegato al rango di puro intrattenimento. Un problema, questo, con il quale la Coin-Longeray, che pure ne è ben consapevole, non mi sembra riesca a fare i conti in modo del tutto persuasivo.
Vengo dunque al prologo dei Cavalieri, che mi propongo di scorrere per osservarne, nei limiti del possibile, il funzionamento. Alla fine della rapida scorsa che intendo offrire cercherò di tirare, a chiusa del mio intervento, alcune conclusioni di taglio più generale e complessivo su forma e funzione del prologo comico. Per cominciare con qualche osservazione sulla ripartizione interna del prologo dei Cavalieri, dico subito che trovo eccessivo l’atomismo proposto da Ignacio Rodríguez Alfageme nel suo pur complessivamente pregevole lavoro del 1997 sulla struttura scenica del prologo aristofaneo [Rodríguez Alfageme (1997)]. Nel prologo dei Cavalieri Rodríguez Alfageme arriva a isolare ben nove sottosezioni, prendendo a unità di misura, a criterio di ripartizione, una nozione di scena, o sequenza, che a me pare però fuorviante: «le temps de la représentation pendant lequel les mêmes personnages restent en vue des spectateurs, y compris les personnages muets, de façon que l’entrée ou la sortie de quelqu’un signale una nouvelle scène» [Rodríguez Alfageme (1997) 43 s.]. Il criterio così isolato da Rodríguez Alfageme parte, sia ben chiaro, da una preoccupazione, quella di tenere conto delle componenti visuali della rappresentazione, a partire dai fatti di cinesica, che mi guarderei bene dal considerare irrilevante. Si tratta, al contrario, di un aspetto a tal punto centrale da dover essere indagato, ove il fuoco si concentri attorno all’attacco delle pièces, tragiche e comiche, anche in relazione a ciò che è possibile ricostruire degli eventuali movimenti scenici degli attori nel tempo immediatamente precedente alla recitazione delle battute incipitarie: un problema al quale, per i prologhi comici di archaia, si è dimostrato particolarmente sensibile Geoffrey Arnott in un lavoro del 1993 [Arnott (1993) 14-16].
Il punto debole, nell’approccio di Rodríguez Alfageme, risiede a mio avviso nel fatto che non ogni movimento scenico d’attore, che sia di entrata in scena o di uscita dalla scena, è rilevante anche da un punto di vista strutturale. E dunque, per esempio, ha senso, mi chiedo, isolare come scene distinte, pur facendole afferire a una sequenza unitaria, i primi cinque versi della commedia, da un lato, e poi i versi da 6 a 97, dall’altro, sulla base del solo fatto che i primi cinque versi della commedia sono recitati in breve monologo dal primo servo mentre i rimanenti novantuno sono recitati da entrambi i servi, fino alla provvisoria, brevissima uscita del secondo in cerca del vino che dovrà servire a escogitare la trovata, il τι δεξιόν evocato a v. 96, adatta ad affrancare i due servi dai soprusi di Paflagone? Direi proprio di no, e a tanto maggior ragione quanto più si ponga mente al fatto che l’assetto scenico e drammaturgico escogitato da Aristofane per l’attacco della commedia prevedeva con ogni verosimiglianza, se non con assoluta certezza, la visibile presenza in scena di entrambi i servi fin da subito. La prima autentica frattura formale, il primo punto di effettiva discontinuità strutturale, cade in realtà, nel prologo, in corrispondenza dei versi 35-39: versi che, al centro, alcuni anni fa, di un bel lavoro di Angela Andrisano [Andrisano (1997-2000)], nel rompere per un momento, ma in modo flagrante, quella che i teorici del teatro chiamano illusione scenica, e formulando, insieme, un appello espresso al pubblico in cerca di un segno esplicito di approvazione (vv. 37-39), servono da snodo, da cerniera, tra la sezione dialogica incipitaria e il lungo e dettagliato monologo espositivo per mezzo del quale il primo servo informa gli spettatori degli antefatti dell’azione (vv. 40-70).
Si tratta, come è noto, di un assetto, piuttosto ben studiato già a partire dall’Ottocento [Kaehler (1877); si veda poi soprattutto Heß (1953) 1-32), che ricorre, in Aristofane, anche nei prologhi di Vespe e Pace: due personaggi di rango servile (gli anonimi οἰκέται di Cavalieri e Pace; Sosia e Xantia nelle Vespe) che dialogano tra loro per un certo numero di versi fino al momento in cui uno dei due prende la parola, da autentico προλογίζων, per mettere al corrente il pubblico della situazione che fa da sfondo all’attacco della commedia. Il fatto che tale assetto ricorra, nell’Aristofane superstite, in tre commedie contigue nel tempo, e poi non più, sembra suggerire una predilezione circoscritta nel tempo, l’adesione a una configurazione del prologo che potrebbe essere stata particolarmente à la page, sulle scene comiche attiche, nel torno di anni che videro la rappresentazione delle tre commedie di Aristofane che ne attestano l’utilizzo, per poi uscire progressivamente di scena. In mancanza del quadro di contesto, è però impossibile stabilire se si tratti di una Erfindungaristofanea, o se invece Aristofane non abbia fatto altro che sperimentare in proprio, nelle tre commedie in questione e forse altrove, in commedie riconducibili, per composizione e rappresentazione, al medesimo periodo, una tipologia di prologo introdotta da altri. Altrettanto impossibile stabilire fino a che punto e in che termini questa tipologia di prologo sia stata concretamente utilizzata dai poeti colleghi e rivali di Aristofane.
Un dato di importanza non secondaria, questo: solo il quadro di contesto permetterebbe, infatti, di valutare la portata dell’operato di Aristofane nelle tre commedie in questione quanto, ad esempio, al grado di sperimentazione, di libertà di movimento, che Aristofane avrà potuto esperirvi, rispetto a una struttura formale di prerogative piuttosto rigide, tanto in relazione a suoi eventuali esperimenti precedenti nel tempo quanto rispetto a ciò che di questa tipologia di prologo avevano fatto e continuavano a fare i suoi rivali. Una riflessione, determinata dallo stato più che mai lacunoso della documentazione, che dovrebbe ispirare cautela anche in chi voglia credere, come me, alla più volte predicata, specie in ambito tedesco, flessibilità di Aristofane nell’utilizzo delle strutture fisse proprie del genere da lui praticato, tanto in relazione alle strutture di prerogative formali più stabili e rigide (parabasi; agone epirrematico) quanto in relazione a sequenze che, come i prologhi e i finali, sembrano invece mostrare un tasso di variabilità più pronunciato. Assai ragionevoli, e salutari, a questo proposito, le osservazioni che trovo adesso svolte da Fausto Montana alla fine della sua recensione al già citato volume di Marta Di Bari sui finali di Aristofane: «Tenere memoria critica della natura a rigor di termini non letteraria ma performativa del dramma attico e del ruolo storicamente funzionale (strumentale) del ‘testo’ (cioè, in pratica, del libretto) dovrebbe favorire l’allentamento delle nostre rigidità interpretative anche rispetto agli ususautoriali: che certe volte sono definiti per petitio principii e applicati in campo ermeneutico con inconcludente circolarità assiomatica, omettendo la possibilità del tutto naturale della varietà e variabilità diacronica e sincronica delle poetiche. Per esempio: a partire da quando e fino a che punto esistette un ‘uso’ aristofaneo nella concezione dei finali comici?» [Montana (2015) 504]. Un’avvertenza che vale, ovviamente, anche per i prologhi.
Come che sia, quel che si osserva nel lungo scambio dialogico che porta dalla chiusa del monologo espositivo all’ingresso in scena del salsicciaio (vv. 71-149) è qualcosa di molto diverso, sul piano dei contenuti e delle funzioni, rispetto al più circoscritto dialogo iniziale. Il che, sia detto quasi tra parentesi, mi spingerebbe a immaginare una ripartizione del prologo in quattro sottosezioni: la prima estendentesi dall’attacco della commedia fino all’inizio del monologo, la seconda comprendente il monologo e il resto del dialogo tra i due servi, la terza e la quarta marcate invece, al loro inizio, da due ingressi in scena significativi anche da un punto di vista strutturale: il primo ingresso in scena del Salsicciaio prima (v. 150), poi la prima comparsa di Paflagone (v. 235). Quanto ai vv. 71-149, sarei più che mai propenso a isolarli decisamente da quanto precede. Nei primi quaranta versi della commedia, salvi forse i cinque versi di esordio del primo servo, che forniscono primi, aurorali elementi di informazione quanto alla trama della commedia, l’intento di Aristofane sembra davvero limitato al puro e semplice intrattenimento del pubblico [così, ad esempio, Arnott (1993) 22: «The Knightsbegins with 35 lines of dialogue between two Athenian slaves, and the only expository distillation dropped into them is the information that the master of the household has just bought a Paphlagonian slave whose arrival has spelled disaster for the other slaves. Everything else in these lines is comic patter»]: a questo ridurrei la lamentosa ξυναυλία su arie di Olimpo dei versi 8-10, il cursorio inserto paratragico che fa da preludio, ai versi 16-19, al consueto coinvolgimento scommatico di Euripide per il tramite della madre erbivendola, il gioco verbale su μόλωμεν/αὐτομολῶμεν dei versi 21-29 e infine gli stessi versi 30-34, nei quali pure si è voluto vedere, credo a torto, un riferimento allusivo alla pietas di Nicia [si vedano, a questo proposito, le giudiziose osservazioni svolte da Vinicio Tammaro in un lavoro del 1991 dedicato a una radicale e complessiva messa in discussione dell’idea, pur molto fortunata, che dietro i due servi del prologo dei Cavalierisiano da scorgere Demostene e Nicia: Tammaro (1991) 147]. Il che detto, è opportuno non mancare di cautela nel dismettere come puro intrattenimento anche ciò che davvero non sembra altro che puro lusus comico. Se è vero infatti, ad esempio, che il gioco verbale su μόλωμεν/αὐτομολῶμεν dei versi 21-29 sembra non molto più che un pretesto per l’allusione oscena alla masturbazione veicolata dal ricorso esplicito al verbo δέφεσθαι ai versi 24 e 29, è vero anche che il problema della diserzione degli schiavi non poteva certo risuonare privo di implicazioni persino sinistre alle orecchie di un pubblico di spettatori che solo pochi anni prima, nell’imminenza ormai dello scoppio delle ostilità, avevano udito lucidamente prefigurato il rischio delle αὐτομολίαι in seno al discorso pronunciato da Pericle in assemblea a favore della guerra contro i Lacedemoni (Thuc. I 142, 4), e che avrebbero del resto visto puntualmente inverarsi la profezia di Pericle nel 413, ai tempi della fortificazione di Decelea da parte degli Spartani: fonte, ancora una volta, Tucidide, il quale, a VII 27, 5, evoca la diserzione di ben ventimila schiavi (τῆς τε γὰρ χώρας ἁπάσης ἐστέρηντο καὶ ἀνδραπόδων πλέον ἢ δύο μυριάδες ηὐτομολήκεσαν). Allo stesso modo, non è da escludere che nei versi 13b-19 sia da scorgere qualcosa di più che un semplice e inoffensivo diversivo scommatico, ovvero un preciso e consapevole intento metateatrale, come suggerisce Lauriola (2010) 232-235.
Certo è che sul dialogo contenuto nei versi successivi al monologo espositivo è come se la luce nuova del monologo riverberasse i suoi effetti, configurandolo in termini integralmente diversi rispetto al dialogo iniziale. Fornita al pubblico, dopo la già eloquente anticipazione di v. 4 s., ogni possibile informazione sullo spazio scenico che fa da sfondo all’azione [cenni in Sánchez García (2006)]; chiarita l’identità del vecchio Demos, il padrone di casa, e del suo servo di recente acquisto, Paflagone, dipinto secondo i canoni più tipici della caratterizzazione comica del demagogo; stabilito saldamente l’impianto metaforico, e anzi, allegorico, del discorso comico che sta per svolgere (si pensi, solo per fare un esempio, alla martellante insistenza con la quale, in relazione a Paflagone, vengono coinvolti lemmi afferenti alla sfera della lavorazione del cuoio, a rendere inequivocabile l’identificazione di Paflagone con Cleone: βυρσοδέψην Παφλαγόνα [v. 44]; βυρσοπαφλαγών [v. 47]; κοσκυλματίοις ἄκροισι [v. 49]; βυρσίνην [v. 59]; βυρσαίετος [vv. 197, 203 e 209]); descritto il segno del rapporto che lega Paflagone al suo nuovo servo; svolte allusioni inequivoche alla situazione del momento, specie attraverso il coinvolgimento in maschera comica dei fatti di Pilo, ai versi 54-57, Aristofane svolge il resto del dialogo tra i due servi in modo da farne il naturale seguito del monologo espositivo. La conseguenza più impressionante risiede, credo, nei termini in cui il materiale discorsivo elaborato nel fitto dialogo tra i due personaggi in scena, pur conservando pienamente il suo potenziale comico, perda totalmente il carattere pur entro certi limiti gratuito, irrelato, episodico che appare possedere, come si è visto, nella sezione incipitaria del prologo. Si faccia cioè, da espediente più o meno improvvisato, fatto costitutivo dell’azione messa in scena, ora recuperando e sviluppando elementi già messi a tema in precedenza nel fitto ordito motivico del monologo, ora anticipando temi e motivi destinati ad avere sviluppo sostanziale nel seguito della commedia.
Così, la grottesca immagine con la quale Paflagone è metamorfosato in una sorta di mostruoso colosso che occupa la Grecia in ogni sua parte e al cui sguardo dall’alto nulla sfugge, come accade a Zeus (vv. 74-79), se è costruita per il tramite di utensili comici comuni, a culminare nei rutilanti giochi paretimologici che coinvolgono gli etnonimi di invenzione accumulati in serie a verso 78 s., è però essenziale a ribadire in modo nuovo alcune delle idee messe a tema appena prima, nel corso del monologo, in relazione alla caratterizzazione demagogica del personaggio preso di mira: il suo occhiuto controllo, la sua εὐρυπρωκτία, la sua insaziabile, vorace rapacità di ladro. La trovata di verso 83 s., apparentemente gratuita nel suo coinvolgimento di Temistocle, ha invece il compito di introdurre, nel contesto dell’economia tematica dei Cavalieri, un personaggio, Temistocle, appunto, attorno al quale Aristofane riflette a lungo nel seguito della commedia, come ha mostrato benissimo Fausto Montana in un lavoro del 2002 [Montana (2002)]. Anche il simposietto eslege inscenato dai due servi immediatamente dopo, ai versi 85-114, coinvolge un istituto, quello, appunto, del simposio, che, oltre a essere elemento costitutivo delle pratiche delle élites aristocratiche rappresentate in modo tutt’altro che episodico, nei Cavalieri, dai componenti del coro, costituisce uno degli ingredienti primari dell’impianto tematico della commedia [cfr. da ultimo Pütz (2007) 103-111 e Wecowski (2014), 66, per il quale i versi 92-94 rifletterebbero, appunto, «a state of minds of the fifth-century Athenian élites»]. Così, del resto, è anche della scena degli oracoli contenuta ai versi 115-143, scena che anticipa non soltanto gli sviluppi interni al prologo, ovvero la sezione (vv. 195-222) nel corso della quale il Salsicciaio, appena giunto in scena, viene progressivamente convinto dal primo servo di essere l’erede designato di Paflagone alla guida della città proprio in forza della recitazione dell’oracolo sottratto appena prima allo stesso Paflagone, ma anche il grande agone di oracoli che, incastonato tra il canto corale dei versi 973-996 e l’amebeo lirico contenuto ai versi 1111-1150, segna il momento culminante della capitolazione di Paflagone.
Ma il discorso potrebbe essere esteso a ambiti più circoscritti: alla ricorrenza, ad esempio, di sfere semantiche significative, quando non di lemmi isolati, dei quali sarebbe interessante studiare le prime ricorrenze nel prologo per poi seguirne il periodico riaffiorare nel corso della commedia. Basti, qui, un cenno al repetorio lessematico relativo alla caratterizzazione del Paflagone, un repertorio che, continuamente ribadito, variato e ricombinato nell’arco dell’intera commedia, è però messo compiutamente a punto già nel corso del prologo: penso, ad esempio, all’ambito semantico dell’inganno e dell’adulazione (vv. 48, 215 s.); a quello della ripugnanza, espresso da lemmi quali βδελυρός e μιαρός (vv. 125, 134, 193, a non dir nulla dei pur problematici versi 230-233, che, comunque intesi, presuppongono ovviamente la disgustosa bruttezza di Paflagone); a quello della ribalderia calunniosa, che si addensa ripetutamente attorno a lemmi afferenti alla sfera della πανουργία e della διαβολή (vv. 7, 45, 64); a quello della rapacità predatoria, rappresentato da una costellazione di lemmi: ἁρπάζω e composti, αἰτέω, δωροδοκέω (vv. 52, 56, 205), a quello del frastuono scomposto e violento dell’oratoria e, più in generale, dei modi, degli atteggiamenti, delle strategie pubbliche tipiche del demagogo (vv. 137, 214, 218). Un repertorio lessematico che, riccamente declinato lungo tutto l’arco del prologo, trova la sua prima ripresa in grande stile già nei primi versi eseguiti dal corifeo a attacco di parodo (vv. 247-254), versi il cui effetto ossessivamente martellante, oltre che alla loro collocazione in apertura di una parodo di inseguimento e al ritmo cadenzato dei trochei, si deve certo anche al fatto che lo spettatore vi trovava ribadita in denso ammasso una quota non insignificante di lemmi che aveva giù udito ripetutamente affiorare nei versi precedenti. Altrettanto dicasi, solo per fare ancora un esempio, del motivo dell’epifania divina, che, veicolato da terminologia di taglio, per così dire, tecnico, a partire dall’uso di φαίνω e composti, ricorre già nel prologo associato alla comparsa del Salsicciaio, nei versi di annuncio del primo servo (vv. 147-149), per poi affiorare a più riprese nel corso dei Cavalieri fino a definire, in una luce quanto mai ambigua, l’epifania di Demos ringiovanito nel finale della commedia [cfr. Kleinknecht (1939) e, da ultimo, Di Bari (2013) spec. 105 ss.]. I versi 71-149, nel conferire elaborazione ulteriore a elementi già messi a tema in precedenza e nell’anticipare, a un tempo, motivi destinati a trovare elaborazione nel seguito della pièce, si caricano del compito, nodale, di porre le basi per i primi sviluppi dell’azione: il che, nei Cavalieri, avviene, ancora in pieno regime di prologo, si badi, a partire dal primo ingresso in scena del Salsicciaio al verso 150.
Il prologo comico, dunque, come struttura che, pur comprendendo, specie in attacco, elementi di evasione, di puro e semplice intrattenimento, in corrispondenza, del resto, di un momento sensibile della commedia, il suo incipit, un momento che il poeta comico poteva cercare di sfruttare per fare colpo sui suoi spettatori e sui giudici chiamati a valutarlo con trovate comiche prive di qualsivoglia risvolto di ordine complessivo, fine a se stesse, è però funzionale, in essenza, a mettere in movimento il motore dell’azione, garantendo agli spettatori l’orientamento del quale hanno più che mai bisogno e mettendo, per così dire, sul tappeto l’intera gamma del repertorio motivico della commedia che è chiamato a introdurre, innescando meccanismi non superficiali di coinvolgimento, chiamando, cioè, il pubblico a cooperare attivamente nell’operazione di decodificazione dell’impianto della commedia sulla base dei dati che appunto nel corso del prologo gli vengono a poco a poco somministrati per progressivo incremento di informazioni. Al punto che, almeno nei prologhi di Cavalieri, Vespe e Pace, l’organizzazione del discorso finisce per assomigliare a una sorta di enigma, che il pubblico è chiamato a sciogliere progressivamente: così, benissimo, Zimmermann in una nota della sua recente messa a punto per il nuovo Handbuch der Altertumswissenschaft [Zimmermann (2011) 687: «Man Könnte geradezu von einem dramatischen Rätsel sprechen, das später im Verlauf der Handlung aufgelöst wird»].
Credo, per chiudere, che le osservazioni che ho cercato di svolgere rendano chiaro il ruolo essenziale, costitutivo, del prologo comico di quinto secolo in relazione al complesso della pièce che sono chiamati a introdurre: del tutto indipendentemente da quanto si voglia immaginare dei primordi della commedia attica, e anche a voler considerare il prologo comico, diversamente dalla parabasi e dall’agone epirrematico, come uno dei frutti più innovativi dell’evoluzione della commedia da spettacolo poco più che improvvisato e rudimentale a fatto di teatro drammaturgicamente compiuto e inserito a pieno titolo all’interno del sistema cittadino delle rappresentazioni, nelle commedie che Aristofane mette in scena a partire dal 425 a. C., data di messa in scena degli Acarnesi, il prologo si presenta come un organismo esteso, articolato, pienamente maturo, e insieme come una struttura essenziale all’economia complessiva del dramma. Mi piace, allora, chiudere, con le parole pronunciate a Siracusa da Carlo Ferdinando Russo, appunto in relazione al prologo aristofaneo, in occasione dell’undicesimo congresso internazionale di studi sul dramma antico: «Torno a un altro giovane, Zieliński, quando scriveva che il prologo è spesso strappabile, e citava le Vespe: in questio giuoco allo strappo, io parteciperei con gli Acarnesi; ma sarebbe uno smembrare, fra le proteste di Pier della Vigna. Il prologo ha infatti radici profonde nell’albero […]. Se tu strappi il prologo, hai lo spettacolo spontaneista all’aperto, come era una volta» [Russo (1987) 72]. Ma non basta, perché del prologo comico, o almeno dei prologhi aristofanei, ove più ove meno, e certo nel caso del prologo dei Cavalieri con entusiasmo incondizionato, bisognerà che si predichi, oltre che l’efficacia drammaturgica, la straordinaria bellezza. Poco oltre il passo appena citato, in chiusa di intervento, Russo citava una pericope dal finale dei Geständnisse di Heinrich Heine: un passo famoso, nel quale Heine contrappone l’Aristofane del cielo, ovvero Dio, a se stesso, il ‘piccolo Aristofane terrestre’, capace di motteggi non molto più che miserabili al confronto con quelli, ben più grandiosamente efficaci, dell’Aristofane celeste [per l’autoidentificazione di Heine con Aristofane vd. Holtermann (2004) 132-143; sul passo dei Geständnisse 143]. A questo proposito Russo nota quanto segue [Russo (1987) 73]: «Vorrei profittare, vorrei dire: der Aristophanes des Himmels, l’Aristofane celeste: le liriche, la parabasi, l’agone; der irdische Aristophanes, l’Aristofane terrestre, il prologo…», parole nelle quali non è difficile vedere in controluce il devoto entusiasmo che, per l’Aristofane lirico, provava Eduard Fraenkel. Eppure, anche se forse non sempre così in alto come nel prologo dei Cavalieri, Aristofane sa volare anche nei prologhi: un dato del quale sarà bene tenga conto, per rendere pienamente giustizia all’oggetto della sua ricerca, chiunque decida, prima o poi, di scrivere, finalmente, quella monografia sui prologhi aristofanei che è, oggi, un autentico, quanto mai urgente, desideratum, nel pur ricco panorama degli studi dedicati alle strutture formali dell’archaia.