Prologo nell’erudizione

Il termine πρόλογος compare per la prima volta nella letteratura greca conservata all’interno della celebre scena delle Rane (1119-1250) in cui vengono messi a confronto gli esordi delle tragedie eschilee ed euripidee. Euripide, infatti, dichiara ai vv. 1119-1122 che analizzerà i prologhi per vagliare «la prima parte della tragedia di questo genio» (cioè Eschilo, τὸ πρῶτον τῆς τραγῳδίας μέρος / … τοῦ δεξιοῦ). Gli scoli vetera al v. 1119 (cfr. Tzetzes ad locum) glossano πρόλογος con προοίμιον, termine che significa «preludio», etimologicamente «ciò che precede una οἴμη (canto, racconto)», mentre la notazione vetus al v. 1120 spiega, autoschediasticamente, che, in Aristofane, τὸ πρῶτον è riferito a πρόλογος in quanto quest’ultimo è la prima parte della tragedia (ὁ γὰρ πρόλογος μέρος πρῶτον τῆς τραγῳδίας). Le due parole in questione, πρόλογος e προοίμιον, ricorrono nella letteratura erudita posteriore, segnatamente in quella dipendente da Aristotele: eppure, come nota Dover (1993, 331), non è certo che Aristofane usi πρόλογος nello stesso senso dello Stagirita, in quanto nelle Rane solo i primi versi delle tragedie sono evocati, mentre – come vedremo meglio fra poco – nella Poetica «prologo» va a indicare un’intera scena. Ad ogni modo, quale che sia il significato del termine in Aristofane, pare sufficientemente assodato che la scena delle Rane presupponga che πρόλογος fosse già di uso comune alla fine del V secolo (cfr. Dunsch 2014, 501).

Per quanto concerne Aristotele, egli discute del πρόλογος nella Poetica e nella Retorica. Nella prima opera, lo Stagirita spiega (1452b14-27) che il prologo è una delle parti della tragedia (μέρη δὲ τραγῳδίας), insieme all’episodio, all’esodo e alle parti corali, fra cui vanno annoverati la parodo, lo stasimo, i canti di scena e i κομμοί(«canti di lutto»). Riguardo a πρόλογος, Aristotele chiarisce che esso è «la parte completa della tragedia che precede l’ingresso (πάροδος) del coro» (trad. Donini 2008, ἔστιν δὲ πρόλογος μὲν μέρος ὅλον τραγῳδίας τὸ πρὸ χοροῦ παρόδου): data questa formulazione, soprattutto in ragione dell’aggettivo ὅλος («tutto intero»), risulta che, qui, lo Stagirita considera il prologo come qualcosa dotato di una coerente e organica unità (cfr. Dunsch 2014, 513); eppure, spesso egli sembra usare il termine con un senso più ristretto, limitato all’esordio di una pièce, esattamente come nelle Rane di Aristofane (cfr. Taplin 1977, 471 ss.). Relativamente alla tragedia, la formulazione aristotelica trova riecheggiamenti in Psello (De tragoedia 1) e Tzetzes (Versus de poematum generibus 3,21): per la commedia, del resto, l’erudizione antica ha adottato formulazioni che rispecchiano quanto Aristotele dice del prologo tragico, sempre che lo stesso Stagirita non avesse adoperato per il genere comico una dicitura comparabile a quella della tragedia, soprattutto se il Tractatus Coislinianus (Prol.Com. 15 Koster) è in una qualche maniera connesso con il supposto secondo libro della Poetica (cfr. Janko 1984). In questo trattato (17), in effetti, si identifica il prologo con la sezione che precede l’ingresso del coro (πρόλογός ἐστιν μόριον κωμῳδίας τὸ μέχρι τῆς εἰσόδου τοῦ χοροῦ), una formulazione che si ritrova anche nell’Anonymus Crameri (Prol.Com. XIc 61 s. Koster).

Della funzione del prologo, specificatamente nell’oratoria, si occupa Aristotele nel III libro della Retorica. In 1414b19-26, difatti, lo Stagirita ricorda come il προοίμιον sia l’inizio di un discorso, che si chiama in poesia (drammatica) πρόλογος e nell’auletica προαύλιον. Il pensatore prosegue mettendo in luce come l’esordio consenta di aprire la via a quanto verrà detto in seguito (πάντα γὰρ ἀρχαὶ ταῦτ’ εἰσί, καὶ οἷον ὁδοποίησις τῷ ἐπιόντι): egli introduce così l’esempio del preludio auletico, che dà l’intonazione a tutta la composizione. Alcune pagine dopo (1415a7-25), Aristotele chiarisce come i προοίμια dei discorsi giudiziari abbiano lo stesso valore dei prologhi drammatici (τῶν δραμάτων οἱ πρόλογοι) e delle composizioni proemiali dell’epica (τῶν ἐπῶν τὰ προοίμια); lo stesso dicasi per gli esordi dei ditirambi. La funzione di questi diversi tipi di esordi è quella di anticipare il tema del discorso e impedire che il pensiero rimanga sospeso (ἵνα προειδῶσι περὶ οὗ [ᾖ] ὁ λόγος καὶ μὴ κρέμηται ἡ διάνοια): quanto rimane indefinito, infatti, rischia – secondo Aristotele – di indurre in errore il pubblico. L’esordio, insomma, consente di seguire il discorso, un elemento che era probabilmente essenziale per una fruizione orale. Aristotele prosegue con tre esordi a mo’ di esempio: quello dell’Iliade, quello dell’Odissea e quello, probabilmente, dei Persika di Cherilo di Samo. Lo Stagirita continua, dicendo che i poeti tragici sono soliti spiegare il contenuto dei loro drammi: lo possono fare immediatamente nei prologhi, come Euripide; oppure farlo in seguito da qualche altra parte, come Sofocle nell’Edipo re al v. 774. Lo stesso, del resto, accadrebbe in commedia. La funzione necessaria e propria del προοίμιον, in sostanza, è di indicare il fine (τέλος) cui mira il discorso (su questa sezione della Retorica, si veda il commento di Gastaldi 2014).

Se, relativamente ai prologhi, è spesso il nome di Euripide a ricorrere (cfr. e.g. Schol. vet. Ar. Ach. 416a e vet.Ar. Th. 1065), l’inventore di questa sezione della tragedia sarebbe stato Tespi: secondo Temistio (Or. 26,316d), Aristotele avrebbe detto che, inizialmente, il coro entrava cantando in onore degli dei, mentre sarebbe stato Tespi ad aver inventato il prologo e le parti recitate; Eschilo, invece, si sarebbe limitato a introdurre il terzo attore (su Tespi, cfr. Clem. Al., Strom I 16,79 e Suda θ 282). Tale notizia, tuttavia, contrasta con quanto dice lo stesso Aristotele nella Poetica (1449a16-19), dove non si menziona affatto Tespi e si attribuisce a Eschilo l’invenzione del secondo attore: resta in dubbio, dunque, se Temistio abbia attribuito falsamente la notizia ad Aristotele o se essa fosse contenuta in una opera perduta dello Stagirita.

Stefano Caciagli © 2016