La personificazione della Povertà non sembra aver prodotto un lavoro esegetico di rilievo nell’erudizione antica. In sostanza, si reperiscono solo delle notazioni atte a spiegare alcune espressioni dell’agone fra Cremilo e Povertà nel Pluto (vv. 415-618) di Aristofane. Se lo scolio vetus 415 spiega l’espressione incipitaria di Povertà «dove fuggite, omuncoli sciagurati, che osate un’azione empia, illegale, temeraria? Restate qui», dicendo semplicemente che ella si avvicina a Cremilo e Blepsidemo per disputare con loro, lo scolio vetus 422αβ chiarisce che Povertà è ὠχρά, «pallida, giallastra», perché ha il colore dei poveri (πένητες), che sono tali perché non sono in grado di mangiare a sufficienza. Tzetzes, ad locum, riprendendo l’argomentazione di questo scolio, fa notare come Aristofane adatti il colore di Povertà a quello dei poveri e degli indigenti.
Se era Cremilo ad aver detto «pallida» Povertà, Blepsidemo la paragona addirittura a «un’Erinni da tragedia» (v. 423). Del resto, Penia sembra usare una dizione tragica, quando al v. 601 ella cita il Telefo di Euripide (fr. 713 K.), dicendo ὦ πόλις Ἄργους («oh città di Argo»), come nota Tzetzes ad locum (si tenga presente che Telefosembra comparisse in scena come uno straccione, cfr. Ar. Ach. 430 s.: era dunque una buona pietra di paragone per Povertà). Tornando all’«Erinni da tragedia», lo scolio vetus 423a spiega come il gioco comico si fondi sul fatto che, in Eschilo, le Erinni entrano in scena δεινοπαθοῦσαι, ossia «lamentandosi»: il Coro delle Erinni, in effetti, esordisce nelle Coefore dicendo: ἰοὺ ἰοὺ πόπαξ· ἐπάθομεν, φίλαι. / ἦ πολλὰ δὴ παθοῦσα καὶ μάτηνἐγώ· / ἐπάθομεν πάθος δυσακές, ὢ πόποι / ἄφερτον κακόν (vv. 143-146 «– ahi, ahi! ohi, ohi! Patimmo, mie care / – molti e vani mali io patii; / – patimmo una disgrazia, ahimé, un male insopportabile» (trad. Caciagli). Lo scolio vetus 423a, poi, aggiunge, come confronto, la seguente citazione dall’Oreste di Euripide, γοργῶπες ἐνέρων ἱέρειαι, δειναὶ θεαί (v. 261: «tremende dee, sacerdotesse infernali dallo sguardo di Gorgoni», trad. Caciagli). Tzetzes, ad locum, fa notare come i poeti tragici fossero soliti introdurre in scena le Erinni con le λαμπάδες, ossia con le fiaccole: le apparizioni che destano orrore, del resto, si adatterebbero più alla tragedia che alla commedia (cfr. Suda τ 899 e schol. vet. 423b). In effetti, l’uso delle fiaccole produrrebbe – sempre secondo Tzetzes – terrore negli spettatori. L’erudito bizantino, poi, aggiunge che proprio la mancanza di fiaccole sarà un fattore positivo per Cremilo e Blepsidemo: dato che questa Povertà-Erinni non è παντελής, «completa, perfetta», poiché è senza fiaccole e fuoco, ella non desta paura e sgomento, sicché i suoi due antagonisti potranno, al contrario, farla piangere (cfr. Pl. 425 οὐκοῦν κλαύσεται). D’altra parte, come nota lo scolio vetus 425dαβ, la Povertà non è per natura spaventosa, ma ci inganna vanamente: per questo piangerà.
Una notazione di un certo interesse è presente negli scoli al v. 431: dato che nel verso precedente Povertà aveva lamentato che la si volesse cacciare da tutta la terra, Cremilo le assicura che un βάραθρον, un «burrone», per lei resterà sempre. Lo scolio vetus 431 spiega che βάραθρον è una tenebrosa apertura nel terreno in Attica simile a un pozzo, in cui si gettavano le persone malvage, i κακοῦργοι: in questa voragine si trovavano in alto e in basso degli uncini. L’aition di tale pratica sarebbe quanto accadde a Phryx, che sarebbe stato gettato nel βάραθρον da Demetra, irritata perché egli le avrebbe preannunciato il rapimento di Kore e il conseguente suo girovagare in cerca della figlia. Oltretutto, la dea avrebbe reso sterile il territorio, finché gli suoi abitanti, consultato l’oracolo, avrebbero ricoperto la voragine per ingraziarsela (cfr. Suda β 99).
Se relativamente al v. 443 – in particolare all’espressione ζῷον ἐξωλέστερον riferita a Penia – la Suda (ε 1832) afferma che la povertà è «una belva (θηρίον) funesta», per cui è meglio morire piuttosto che affrontarla, riguardo al v. 548, in cui la Povertà accusa Cremilo di aver tratteggiato non la vita che elle offre ma quella dei πτωχοί («mendicanti»), la Suda (π 966) sottolinea che la πενία non è sorella di πτωχεία: la prima, infatti, fa in modo che i poveri esercitino varie arti (Suda π 967). Il concetto qui enunciato, soprattutto ai vv. 552-554 del Pluto, e nelle esegesi sopra riportate è consono con quanto presumibilmente prospetta Esiodo nelle Opere e i giorni, come ha messo in luce Van Wees (2009): la πενία è la condizione più di chi è costretto a lavorare per avere i beni materiali, non una condizione di indigenza assoluta; in sostanza, la πενία può condurre un πένης a una vita che può includere alcune agiatezze. Si noti, in conclusione, che di questo passo si ricorda Tzetzes nelle Chiliades (XI 384,746- 747), dove dice che «Aristofane ha scritto un encomio della povertà, dimostrando che la povertà è migliore della ricchezza».
Stefano Caciagli @ 2016