Porta nell’erudizione

La porta, θύρα o πύλη, nel teatro greco ha un ruolo scenico di rilievo, ma tale funzione non ha sempre lasciato tracce significative negli scoli ad Aristofane e nella tradizione erudita in genere. Nella produzione lessicografica, è Polluce colui che offre la trattazione più estesa della θύρα, segnatamente nel IV libro del suo Onomasticon [124-126; cfr. Nagler (1952, 8-10) per una traduzione inglese del passo]: ivi, egli illustra la posizione e la funzione delle porte nell’edificio teatrale greco.

Questo passo, per quanto significativo al fine di ricostruire le rappresentazioni antiche, è altamente problematico: il retore di epoca imperiale, infatti, non cerca un’attinenza diretta fra i Realien e il lessico, ma ha un interesse squisitamente linguistico, volto alla ricerca delle parole adeguate a un bello stile; come sottolineano Maduit e Moretti (2010), quello di Polluce è piuttosto «un teatro di parole» che una descrizione di un edificio vero e proprio. Tale situazione è determinata dalle fonti che egli usa, specialmente di carattere letterario: la conseguenza del suo modus operandi è che la sua trattazione risulta, nei fatti, stratificata, nel senso che fa riferimento a strutture sceniche non contemporanee fra loro né afferenti al medesimo ambito culturale; Polluce, in effetti, cita termini o spiegazioni confacenti a strutture teatrali sia classiche che imperiali, sia greche che romane oppure orientali, mentre la sua descrizione presenta affinità con quanto Vitruvio descrive nel V libro del De architectura (6,8-7,2).

Posta tale necessaria premessa, che consiglia estrema prudenza nell’uso di questa fonte, va messo in luce come Polluce (IV 124 s.) si occupi delle tre porte presenti sulla scena subito dopo aver trattato dell’iposcenio (fig. 2), struttura che giace sotto il λογεῖον, «luogo da cui si parla, proscenio» (fig. 1), (cfr. Vitr. V 7,2).

Fig. 1: proscenio
Fig. 2: iposcenio

Saliou (2009, 272 s.), che identifica tale struttura con la terrazza che copriva il proscenio antistante alla scena, data l’apparizione del λογεῖον solo alla fine del IV secolo a.C.: delle tre porte (fig. 3), la cui apparizione nella storia del teatro greco non è databile con certezza, quella centrale, appartenente al protagonista del dramma, rappresenterebbe – a dire di Polluce – una reggia, una caverna o ogni tipo di abitazione degna di rispetto; quella di destra corrisponde alla residenza del deuteragonista, quella a sinistra ha un aspetto assai semplice o rappresenta un santuario lasciato deserto oppure un luogo non abitato. In tragedia, sempre secondo Polluce, la porta di destra sarebbe riservata agli ospiti, mentre quella di sinistra rappresenterebbe una prigione. Al par. 126, 

 

Fig. 3: teatro di Taormina, con le due porte laterali ben visibili e quella centrale intuibile

Polluce aggiunge che possono esservi due ulteriori porte vicino a quelle laterali, nei pressi delle quali si trovano macchine sceniche su cui sono fissate le περίακτοι, ovvero i meccanismi girevoli che servivano a cambiare le scene: tale descrizione, con la presenza di cinque porte, presuppone l’architettura teatrale di tipo orientale, che era in voga ai tempi del retore. Egli, infine, conclude la propria trattazione delle porte sceniche illustrando le πάροδοι, gli «ingressi», laterali. Per quanto concerne le aperture assimilabili a porte, si può evocare – anche da un punto di vista etimologico – la θυρίς, «la porticina», non annoverata da Polluce ma citata da Aristofane, e, forse, anche l’ἀναπίεσμα, la «botola», che il retore (par. 132) tratta assieme alle scale di Caronte (fig. 4), da cui escono i fantasmi.

Fig. 4: scale di Caronte

La «finestra» è evocabile per Aristofane in base a un passo delle Vespe [v. 379; cfr. Robson (2009, 33)], in cui Filocleone è invitato dal Coro a calarsi dalla θυρίς per mezzo di una cordicella, e alla luce della scena delle Ecclesiazuse (vv. 877-1111), in cui tre vecchie (si veda la voce Vecchia) si contendono un giovane davanti alla porta di casa, mentre, presumibilmente, la sua giovane amante parla dalla finestra [cfr. Vetta (1989, 233 s.) per una possibile ricostruzione della messa in scena]. La presenza fisica di finestre sulla scena di V secolo, però, è fortemente dubbia: se Polluce parla di una διστεγία, ovvero di un secondo piano, da cui, in commedia, i protettori delle prostitute (πορνοβοσκοί), le vecchie o le donne in genere osservano dall’alto, è pur vero che fra le possibili ricostruzioni della scena classica hanno credito quelle che suppongono una struttura lignea dotata di un solo livello [cfr. Moretti (2000, 296-298 e fig. 11); Bieber (1961, 54 ss., 108 ss.): cfr. Connolly-Dodge (1998, 94), fig. 5].

Fig. 5a: il teatro di Dioniso all’inizio del V secolo a.C. [Connolly-Dodge (1998, 94)]
Fig. 5b: il teatro di Dioniso nella seconda metà del V secolo a.C. [Connolly-Dodge (1998, 94)]

La botola – secondo Polluce – si trova sulla scena e permette di far sgorgare un fiume o di far apparire un personaggio dal basso: è plausibile che anche questo congegno fosse proprio delle scene dall’epoca ellenistica in poi [cfr. Kuritz (1988, 28); Thorburn (2005, 44)].

Riguardo alle strutture poste davanti alle porte, Polluce (IV 123) sottolinea come vi si possa trovare un altare in onore di Apollo (ἀγυιεὺς … βωμός, ovvero l’«altare sulla porta di strada dedicato ad Apollo protettore delle strade»): tale indicazione è, in parte, congruente con quanto detto dallo scolio vetus al v. 875b delle Vespe, secondo cui era costume porre davanti alle porte una colonna appuntita, a mo’ di obelisco, in onore di Apollo; Triclinio aggiunge (schol. 875c) che, in alto, era posta una statua del dio e che tale usanza era stata adottata inizialmente dai Dori.

A proposito di θύρα, la tradizione esegetica relativa alle commedie aristofanee ha posto la propria attenzione sulle indicazioni sceniche che le menzioni della «porta» implicano; sui riti o sulle usanze che avevano solitamente luogo davanti alle abitazioni, sì da chiarire alcune battute o azioni sceniche; sulla spiegazione di termini specifici connessi alle porte. Quando Aristofane usa θύρα o similia, illustrando a parole i gesti scenici a essa connessi, egli appone a testo – secondo gli scoli – indicazioni sceniche. È questo il caso del v. 132 delle Nuvole: in proposito, lo scolio vetus b dice che la battuta ἀλλ’ οὐχὶ κόπτω τὴν θύραν («ma non batto alla porta») detta da Strepsiade è un παρεγκύκλημα. Questo termine sembra indicare una sorta di nota scenica, atta a segnalare la necessità che l’attore vada alla porta di Socrate e bussi. Schönborn (1858, 347 s.), tuttavia, ritiene che il termine qui alluda a una macchina teatrale, usata per rivelare l’interno della casa di Socrate, munita di porta e di oggetti vari.

Il termine παρεγκύκλημα è poco attestato in greco, con solo 7 occorrenze, di cui ben 4 nei soli scoli alle Nuvole (18b, 22a, 132b e 218b): col valore di nota scenica [generalmente, si trova παρεπιγραφή; cfr. Nünlist (2009, 357 n. 78, 362-364)], esso è usato anche nello scolio 346b all’Aiace di Sofocle, che spiega l’invito di Tecmessa al Coro a guardare dentro la tenda dell’eroe come un παρεγκύκλημα. Lo schol. 346a, che recita ἐνταῦθα ἐκκύκλημά τι γίνεται, ἵνα φανῇ ἐν μέσοις ὁ Αἴας τοῖς ποιμνίοις («qui vi è un ekkyklema affinché Aiace appaia in mezzo ai capi di bestiame»), sembra evocare la macchina teatrale dell’ἐκκύκλημα (cfr. Poll. IV 128), sebbene Medda (1997, 37 n. 39) intenda questo termine come «rivelazione» e supponga l’assenza in questo contesto di questo tipo di μηχανή [cfr. Di Benedetto- Medda (2002, 103)]; in schol. Luc. 55,13,43 e in Hld. VII 7,4, invece, il termine sembra indicare «inserto», «interludio», «intermezzo». Rutherford (1905, 110 s.) ritiene che la degenerazione del termine παρεγκύκλημα, che negli scoli viene a coincidere con παρεπιγραφή, sia forse dovuta al fatto che gli scoli non capivano cosa fosse l’ἐκκύκλημα e che, dunque, non sapevano nulla riguardo a questa macchina scenica.

Di παρεπιγραφή, invece, parla lo scolio recentius 184a alle Nuvole, a proposito della richiesta, fatta da Strepsiade al discepolo di Socrate, di aprire la porta; simile indicazione compare riguardo al v. 30 della Pace, in cui lo scolio vetus ad locum sottolinea che l’espressione ἀλλ’ εἰ πέπαυται τῆς ἐδωδῆς σκέψομαι / τῃδὶ παροίξας τῆς θύρας, ἵνα μή μ’ ἴδῃ (vv. 29 s., «ma guarderò se ha finito di mangiare, aprendo la porta così, perché non mi veda») sia una chiara nota scenica, sì da indicare all’attore che deve aprire sommessamente la porta e verificare se lo scarabeo mangi o meno. Simili indicazioni mostrano chiaramente che molte espressioni aristofanee concernenti la θύρα – e.g. θύραζε, «fuori della porta», (cfr. Hsch. θ 22; EM 458,57 s.) – erano probabilmente note sceniche, elemento che a volte è desumibile – per via indiretta – anche dagli scoli: è forse il caso del v. 326 delle Nuvole, in cui Socrate indica a Strepsiade la presenza delle Νεφέλαι («Nuvole») nei pressi dell’εἴσοδος, «entrata», che Tzetzes (Nu. 326a) interpreta – presumibilmente in modo erroneo – come παρὰ τὴν θύραν, «presso la porta». Una possibile indicazione scenica è presente al v. 977 delle Ecclesiazuse, dove la Vecchia 1 si lamenta che il Giovane bussi alla porta, con lo scolio ad locum che spiega ἡ γραῦς ἐξελθοῦσα, «la vecchia essendo uscita».

Le porte potevano essere teatro di azioni rituali, la cui nozione risulta essenziale per comprendere appieno alcuni passi aristofanei. Di rilievo sono gli scoli vetera 923bc alla Pace, relativi a un verso in cui Trigeo suggerisce di insediare la dea Pace con alcune pentole: i due scoli, contenuti in una versione meno abbreviata in Suda χ 613, sottolineano come si offrissero quale primizia dei legumi cotti, serviti tramite pentole, a chi innalzava erme o statue di altri dei (cfr., per Apollo, Poll. IV 123) davanti alle porte.

Ad ogni modo, il rituale che si svolgeva davanti alle porte più volte menzionato dagli scoli è quello legato all’esposizione dei morti. Al v. 611 della Lisistrata, la protagonista, rivolgendosi al probulo, si chiede se egli la accusi di non voler esporre la sua salma: lo scolio ad locum spiega che gli antichi esibivano i morti davanti alle porte, percuotendosi. Allo stesso rituale fanno riferimento gli scoli ai vv. 837 s. delle Nuvole, in cui Strepsiade accusa il figlio di sciacquare i suoi averi (v. 838: καταλόει μου τὸν βίον), come se egli stesso fosse già morto: alcuni commentatori, secondo Tzetzes, sostengono come, dopo il funerale, quelli che abitavano la casa del morto si dovessero lavare per purificarsi, mentre il dotto bizantino ritiene che, in realtà, i familiari si radevano un poco i capelli e, posta una bacinella davanti alla porta di casa, si lavavano le mani, come egli deduce dall’Alcesti di Euripide ai vv. 98-104. Stesso presupposto rituale è sotteso ai vv. 1030-1033 delle Ecclesiazuse: alle profferte amorose della Vecchia 1, il Giovane risponde in modo ironico, consigliandole di circondarsi d’oggetti funebri (tra cui le corone dette ταινιῶσαι; cfr. schol. 1032), fra l’altro ponendo un vaso davanti alla porta; lo scolio 1033a spiega che tale tipo di vaso era chiamato ἀρδάνιον, ossia un recipiente usato per le purificazioni funebri.

A un rito contro il λοιμός, la «peste», fa allusione lo scolio di Tzetzes al v. 1054 del Pluto, relativo all’espressione ὡς παλαιὰν εἰρεσιώνην, «come l’antica eresione», usata dal Giovane per ironizzare sul fatto che, se accosterà la fiaccola alla Vecchia, ella prenderà fuoco. Secondo lo scolio vetus 1054a, εἰρεσιώνη indica un ramo di ulivo avvolto nella lana: questa sorta di corona, alla quale venivano appesi tutti i frutti di stagione, sarebbe stata affissa alle porte degli Ateniesi ogni anno (cfr. schol. vetus 1054e) come elemento apotropaico contro il λοιμός, quale ricordo del vaticinio di Apollo Pizio che – in occasione appunto di una «peste» – aveva prescritto di compiere un sacrificio preliminare all’aratura in onore di Demetra (cfr. Suda ει 184). Lo scolio recentius (1054d) al Pluto, oltre ad alludere al λοιμός, ricorda anche che, nel corso della festa delle Pianepsie, una εἰρεσιώνη veniva appesa alle porte del tempio di Apollo da un ragazzo ἀμφιθαλής, «che ha padre e madre in vita», (lo stesso sarebbe avvenuto anche durante le Targelie, secondo lo schol. Ar. Eq. vetus 729a; cfr. Suda ει 184): questo rituale sarebbe stato il ricordo del voto fatto da Teseo di dedicare ad Apollo un ramo di ulivo, qualora avesse ucciso il Minotauro. Al v. 729 dei Cavalieri, del resto, il Demo invita Paflagone e il Salsicciaio ad allontanarsi dalla sua porta, avendo rovinato la sua εἰρεσιώνη: gli scholia ad locum riferiscono questo termine alla medesima vicenda cui si allude al v. 1054 del Pluto, fornendo maggiori elementi: i generi alimentari che venivano appesi a queste corone, tra cui pani, fichi, miele etc., erano il ricordo delle primizie inviate ad Atene da tutta la terra abitata come ringraziamento per aver fatto cessare il λοιμός grazie al sacrificio propiziatorio per l’aratura (sull’εἰρεσιώνη, si veda in particolare la voce della Suda ει 184: l’editrice, Adler, fornisce in apparato un esaustivo elenco della tradizione esegetica su tale argomento, tradizione che – come solitamente avviene – usa fonti comuni).

Altra affissione connessa ad atti rituali può essere considerata quella delle ali che, negli Acarnesi, Diceopoli ha apposto alla porta di casa come segno, a detta del Coro, del suo tenore di vita: lo scolio vetus 989b collega tali ali a quelle delle vittime sacrificali, strappate e affisse all’ingresso per mostrare la ricchezza di cui gode la casa.

Un elemento ben sottolineato dagli scoli è la distinzione fra i vari tipi di ingressi, segnatamente di quelli ‘pubblici’. Lo scolio tricliniano 1156 agli Uccelli, ad esempio, distingue chiaramente fra πύλη, propriamente la «porta della città», e θύρα, «quella della casa». Di θύραι parla il v. 865 delle Ecclesiazuse, quando un personaggio, senza aver consegnato i propri averi, decide comunque di recarsi ai pasti in comune, mettendosi davanti alle porte per rubare le portate, nel caso non lo facciano entrare. Lo scolio ad locum identifica la porta in questione con quella del δικαστήριον, «tribunale», trasformato (cfr. v. 676) in ἀνδρών, «sala per banchetti». Delle κιγκλίδες, «cancellate», parlano i Cavalieri (v. 641) e le Vespe (v. 124): i relativi scoli collegano il termine alla cancellata del tribunale (nei Cavalieri, però, Aristofane si riferisce a quella del βουλευτήριον, «sala del consiglio»); lo scolio vetus 641a ai Cavalieri, poi, sottolinea che le porte doppie andrebbero piuttosto chiamate δικλίδες, mentre κιγκλίς può anche significare «toppa».

Una parte della tradizione esegetica antica, com’è ovvio, si è preoccupata di spiegare determinate espressioni relative alla ‘porta’ che potevano suscitare qualche problema interpretativo nei lettori. È questo il caso dei vv. 179-182 delle Vespe, in cui Filocleone tenta di evadere dalla guardia del figlio, nascondendosi sotto la pancia di un asino: lo scolio 179b chiarisce che questo atto è mimetico rispetto alla fuga di Odisseo dall’antro del Ciclope Polifemo (cfr. Od. IX 425-463).

Al v. 98 della stessa commedia, il servo Santia, nel descrivere l’amore per i tribunali di Filocleone, dice che, quando egli trova scritto su una porta «Demo (figlio del politico Pirilampe) è bello» (espressione dal chiaro sapore omoerotico), verga a fianco «kamos (ossia il coperchio delle urne in cui i giudici votavano; cfr. schol. 99a) è bello»: lo scolio 98a sottolinea che gli Ateniesi scrivevano «il tale è bello» un po’ ovunque, dai muri alle porte.

Il gioco di parole, per cui l’Upupa al v. 92 degli Uccelli chiede di aprire il bosco (ovvero usando ὕλη al posto di πύλη), è chiarito dallo scolio vetus ad locum, che spiega come il referente sotteso sia la θύρα o l’οἶκος, «casa».

Il tono del v. 1071 della Lisistrata, in cui il Coro, dopo aver invitato tutti a pranzo, dichiara che la porta resterà chiusa, è correttamente identificato come ironico dallo scolio ad locum; al v. 1131, invece, lo scolio mette in luce che le πύλαι a cui fa riferimento la protagonista sono le Termopili; non è colta dagli scoli, infine, l’allusione erotica ai vv. 249-251 (οὐ γὰρ τοσαύτας οὔτ’ ἀπειλὰς οὔτε πῦρ / ἥξουσ’ ἔχοντες ὥστ’ ἀνοῖξαι τὰς πύλας / ταύτας, «non verranno né con fuoco né con minacce tali da riuscire ad aprire queste porte»), in cui le πύλαι sono le «porte» che le donne non apriranno, avendo deciso di fare lo sciopero del sesso.

Di interesse sono i vv. 1097-1099 del Pluto: Carione si chiede chi abbia battuto alla porta, poiché, dopo aver aperto, non vede nessuno, in quanto Hermes si è nascosto dopo aver bussato; il personaggio, quindi, suppone che la porta abbia fatto rumore da sola, come se avesse avuto voglia di piangere (v. 1099: κλαυσιᾷ). Gli scholia vetera 1099bc spiegano che, in questo caso, κλαυσιάω vale ψοφέω, «risuonare», con Suda κ 1709 che chiarisce come il verbo usato da Aristofane in questo passo indicherebbe propriamente il cigolio che la porta fa da sola (ma cfr. LSJ9 956). Tzetzes (schol. 1098), poi, distingue fra κόπτω, ψοφέω e κλαυσιάω: il primo è usato in modo proprio, quando indica l’azione di chi sta per uscire dalla porta che qualcuno ha battuto da fuori; qualora la si apra di soppiatto, uscendo, il rumore di chi la apre si chiama ψόφος. Se la porta, spinta dal vento, si muove da sola e cigola, tale mormorio si chiama «pianto» (cfr. schol. Tzetzes 1098).

Il passo del Pluto di cui si è appena trattato è infine oggetto di una notazione di Tzetzes, che coglie un aspetto di poetica non irrilevante. Egli, nel suo commentario alla commedia in questione, nei fatti identifica l’espediente dell’umanizzazione della porta, che avrà successo nella commedia nuova e poi nel teatro e nella poesia amorosa latina [cfr. Fränkel (1960, 98 s.); Paduano (2001, 164 n. 153)]: il dotto bizantino, sottolineando come tale notazione sia assente nella tradizione esegetica a sua disposizione, mette in luce come l’espressione τὸ θύριον φθεγγόμενον ἄλλως κλαυσιᾷ possa essere applicata a chi abbia la facoltà percettiva e, specialmente, agli uomini; nel passo in questione, allora, φθέγγομαι, «emettere un suono», sarebbe detto del legno inanimato della porta al posto di κινέω, «muoversi»; lo stesso può dirsi di κλαυσιάω, «piangere», invece di ψοφέω, «far rumore», e di τρύζω, «scricchiolare».

Stefano Caciagli @ 2016