Se le strade della ricezione contemporanea sono spesso difficili da individuare, nel caso di Mimesis è particolarmente arduo l’obiettivo di rintracciarne la ricezione nella riflessione teorica e nella prassi teatrale contemporanea.
Le parole di S. Halliwell (L’estetica della Mimesis) rappresentano un mònito: “lo statuto attuale della mimesis in quanto concetto è controverso e instabile”, e utilizza l’immagine di “una colonna infranta di un edificio classico ormai diruto”, “una reliquia tristemente obsoleta di antiche certezze” (p. 302). La difficoltà del rintracciare un preciso perimetro da analizzare, un “oggetto” vero e proprio di cui indagare l’eredità, si rileva già a partire dai consistenti problemi di traduzione. Nella maggior parte delle traduzioni italiane (di Aristofane, ma anche di Platone e Aristotele) si opta per ‘imitazione’. Ma è una scelta che non cessa di destare perplessità, tra studiosi, intellettuali, traduttori e filologi.
Derrida (La Dissemination, 1972) nota: “non dovrebbe essere tradotto affrettatamente con il termine imitazione, quanto piuttosto come rappresentazione”. Anche Barthes (Diderot, Brecht, Ejzenstein, 1973) sembra condividere le medesime perplessità. Da una prospettiva più vicina al nostro settore di studi, anche Glenn Most (Routledge Encyclopedia of Philosophy) chiosa: “Mimesis è generalmente tradotto come ‘imitazione’, ma di fatto il suo significato è più vicino a realizzazione (actualization): oggetti, eventi o azioni che, in quanto divini, passati o inerenti a un canone appartengono a un orizzonte di maggior valore rispetto alla nostra quotidianità ma che proprio per questo sono in qualche modo distanti da noi, ci ingiungono di riportare alla luce il loro essere reali”.
Tali differenti soluzioni testimoniano di una profonda oscillazione di senso, una vera e propria dislocazione semantica. Quale legame può dunque essere rintracciato tra la feconda teoria della Mimesis e l’originale comico? L’“imprinting comico” della parola è ancora riconoscibile nel lungo percorso della parola tra teoria e prassi? Torniamo dunque per un momento ad Aristofane, e al lessico comico.
L’utilizzo del termine in Tesmoforiazuse è legato a doppio filo alla dimensione performativa: Agatone esprime la necessità di un’aderenza tra il testo rappresentato e il corpo che se ne fa portatore (vv. 146- 156). Si ha l’impressione, in altri termini, che il campo di applicazione di questo concetto secondo Aristofane non possa esulare dal contesto performativo, dove il corpo diventa medium cangiante del contenuto espresso.
L’idea di Mimesis, alla sua prima comparsa, risulta cioè strettamente legata al ruolo del performer ed espressa in un contesto esplicitamente metateatrale: il Parente (con l’aiuto di Agatone – che dichiara di comportarsi allo stesso modo per le proprie composizioni poetiche – e con la supervisione di Euripide) si traveste da donna in vista della sua performance alla Festa delle donne, proprio proprio come un attore prima del suo spettacolo. Euripide incarna dunque una funzione quasi registica preparando l’attore – con quello che un attore di oggi chiamerebbe un vero e proprio ‘training’– in vista del suo agone: a questa preparazione collabora volente o nolente anche Agatone, tanto che quando egli rientra in casa (265) il Parente è ormai pronto per l’entrata in scena.
Possiamo guardare nella stessa prospettiva anche alla scena iniziale degli Acarnesi nella quale –anche se non abbiamo un riferimento esplicito alla μίμησις – traspare comunque “una decisiva e vivace rappresentazione dei processi mimetici che concorrono alla costruzione dell’ἦθος del personaggio” (cf. De Sanctis voce).
Euripide è zoppo e straccione come i suoi personaggi (410-417), e allo stesso modo anche Diceopoli ha bisogno di “euripidizzarsi” indossando vesti pietose: se il travestimento teatrale funzionerà, egli potrà suscitare compassione e rendere convincente la lunga ῥῆσις dinanzi al coro (416). La visita a Euripide è dunque indispensabile per acquisire gli strumenti della performance, e solo grazie a questo intervento egli risulta pronto per l’impresa.
La dimensione metatetrale dell’episodio è resa evidente, poco dopo, dall’ammiccante affermazione di Diceopoli che divide tra gli spettatori veri e propri (442-444) e una prima e speciale cerchia di spettatori, il Coro. “Gli spettatori sappiano chi sono”, intima Diceopoli: egli divide cioè nettamente la propria personalità dall’esito del travestimento mimetico, che si configura dunque come qualcosa di utile, ma anche posticcio e falso.
La prima definizione in nostro possesso di Mimesis nasce dunque in stretta connessione con contesti metateatrali, e apertamente orientati ai meccanismi della performance.
E le stesse caratteristiche si ritrovano, non a caso, in uno dei brani di maggiore rilevanza per la storia moderna della Mimesis teatrale, Amleto shakespeariano (Scena II, Atto III):
[the purpose of playing]
first and now, was and is, to hold, as ‘twere, the mirror up to nature; to show virtue her own feature, scorn her own image, and the very age and body of the time his form and pressure. Now this overdone,
or come tardy off, though it make the unskilful
laugh, cannot but make the judicious grieve; the censure of the which one must in your allowance o’erweigh a whole theatre of others. O, there be players that I have seen play, and heard others
praise, and that highly, not to speak it profanely,
that, neither having the accent of Christians nor
the gait of Christian, pagan, nor man, have so
strutted and bellowed that I have thought some of nature’s journeymen had made men and not made them well, they imitated humanity so abominably.
Il passo, molto noto, è stato oggetto di diverse riflessioni. Ad attrarre l’attenzione della critica è, da un lato, la metafora dello specchio (presente, per altro, anche in Platone), dall’altro, l’accento posto sull’imitazione della natura: delicata questione divenuta poi cruciale per diversi pensatori (Halliwell, 302 e ss.). Ma in questa occasione è interessante soprattutto osservare come il contesto sia anche in questo caso (proprio come in Aristofane) apertamente metateatrale: Amleto condivide le proprie indicazioni sulla modalità di recitazione, e fornisce di fatto indicazioni di regia agli attori da lui assoldati.
Mimesis è dunque (anche) lo sforzo dell’attore di aderire al personaggio o all’oggetto rappresentato: su questo particolare aspetto si concentra il mio intervento di oggi, e naturalmente in questa prospettiva le traduzioni prima citate (‘rappresentazione’ o ‘realizzazione’) valorizzerebbero lo stretto legame con il contesto performativo e attorale.
Se, come abbiamo osservato, Aristofane (in Tesm. ma anche in Acarnesi) suggerisce di fatto un’aderenza tra l’autore/attore e le caratteristiche estetiche del personaggio, o dell’oggetto, rappresentato, vale la pena porsi tre questioni:
Quanto al primo punto, il contesto ci invita alla cautela: i personaggi che si fanno garanti e, per così dire, testimoni viventi della teoria (Euripide e Agatone) sono, nell’orizzonte della commedia, personaggi largamente inaffidabili, legati all’inganno e alla menzogna. L’esposizione della teoria viene percepita dagli interlocutori come ridicola (si vedano le risposte irrisorie del parente ad Agatone) e, più in senso lato, l’esito del travestimento mimetico è un fallimento: in Tesm. il Parente verrà scoperto e messo in ridicolo (762) e verrà lasciato in balia delle donne fino all’arrivo di Euripide. Ma persino Euripide, attore ben più efficace, risulterà poco credibile: le due donne che hanno in custodia gli infiltrati (esse rappresentano – anche in questo caso, come in quello precedentemente citato di Ac. – primi spettatori della meta-performance) non sono disposte a credere alla rappresentazione teatrale. Al termine della rappresentazione dell’Elena, Euripide sarà definito πανοῦργος (920): l’opinione sul suo conto non è mutata. E infine, Euripide si ritroverà a trattare con le donne, giurando di cambiare atteggiamento nei loro confronti (1160).
La teoria della mimesis, quando enunciata, offre il fianco a battute caustiche che ne rivelano l’assurdità (153 e 155) o, ancora peggio, si rivela inefficace nei fatti: essa, nella prospettiva della commedia, risulta di fatto indegna di fede.
Se si guarda invece alle più importanti teorie sull’attore, vediamo che esse si fondano esattamente sulla corrispondenza tra il corpo del performer e la sua aderenza all’oggetto rappresentato: il principio mimetico si mostra alla base delle più influenti teorie novecentesche sull’attore (in primis quella Brechtiana e Stanislavskiana), che sono evidentemente legate all’antica tradizione delle Mimesis. Pur arrivando a conclusioni opposte, le due teorie (e le molte che da esse sono nate per filiazione diretta o indiretta) si interrogano allo stesso modo sulle possibilità e le modalità dell’attore di restituire, o di aderire, all’oggetto rappresentato. Ma all’origine di queste riflessioni, si possono visibilmente rintracciare i filtri di Platone e Aristotele (le pagine della Poetica in possesso di Brecht sono infatti fittamente annotate, cf. Capra 2007, Teatro e libertà. Mimesis stupore e straniamento fra Brecht e Platone), non le balzane teorie dell’Agatone aristofaneo.
Più in generale, si ha l’impressione che le più importanti riflessioni teoriche sulla Mimesis prendano come punto di partenza le fonti platoniche e aristoteliche tralasciando il precedente aristofaneo e, più in generale, le specificità della Mimesis comica.
Basti osservare, a titolo di esempio, il volume di Halliwell – che è stato da citato a più riprese e che costituisce un importante riferimento sull’argomento – nella lunga trattazione cronologica non fa riferimento se non in modo cursorio alla teoria enunciata in Tesmof.
La tradizione teorica converge genericamente sulla composizione poetica, sul fatto teatrale o sul tragico. Persino Auerbach, nel suo celebre Mimesis (1946), dichiara di aver escluso dal suo terreno di studio “le opere comiche e quelle indubitabilmente destinate a restare nel campo dello stile umile”.
Proviamo dunque a tracciare qualche possibile conclusione. Nella prima enunciazione della teoria della Mimesis, in Aristofane, troviamo di fatto enucleate le specificità dell’attore comico e, indirettamente, della Mimesis comica. Come messo in luce dall’articolo cruciale di D. Lanza (1989), l’attore comico è un attore di fatto anti-mimetico, che gioca costantemente allo scoperto contraddicendo i contorni stessi dalla rappresentazione, e negandola di continuo.
Tale meccanismo è attuato costantemente nel testo di Aristofane, e proprio nei brani più rilevanti per la parola Mimesis: in Tesmof., come in Acarn, i personaggi entrano ed escono di continuo dal loro ‘travestimento’, ne sanciscono l’inefficacia mimetica, cercando complicità con gli spettatori e con il Coro nel continuo gioco di smascheramento. Tale gioco di specchi è per altro moltiplicato: Euripide/Diceopoli da un lato Parente/Euripide/Agatone dall’altro sono personaggi-attori di una meta- performance (il discorso davanti al coro per Acarnesi; la messinscena davanti alle donne per Tesm.), ma sono a loro volta attori consapevoli della propria funzione. Se la Mimesis per l’attore è la tensione tra il proprio corpo performativo e l’oggetto/o personaggio rappresentato, il comico sancisce l’impossibilità di quell’aderenza, ma la necessità di un continuo slittamento. Di questo testimoniano anche le rappresentazioni vascolari (Taplin 2007), che ritraggono l’attore comico spesso nell’atto di guardare e non di indossare la maschera, a differenza di quanto avviene per le rappresentazioni figurative del mito tragico. Proprio a partire da questa ‘visibile’ dimensione metateatrale, come è noto, i vasi di ambito comico sono più facilmente attribuibili al contesto teatrale. L’aderenza tra l’attore e il personaggio nel comico – ce lo testimoniano i testi e le rappresentazioni vascolari – non è mai completa. Questa è forse la specificità della prassi mimetica comica; ma va altresì notato che essa non è stata assorbita né dalle grandi teorie sulla Mimesis né tantomeno dalle più importanti e sistematiche teorie sull’attore, che tendono a tralasciare l’ambito comico.
Si tratta dunque di una istanza priva di eredità? Essa, più che nelle ampie trattazioni teoriche sull’imitazione, va piuttosto rintracciata nella prassi attorale confluita nella nostra tradizione comica: un bagaglio ‘pratico’ di cui si trova traccia nelle affermazioni dei comici e nei loro rari tentativi di fermare su carta un patrimonio, una sapienza, che resta per lo più orale. Si può pensare, exempli gratia, alle riflessioni di Ettore Petrolini (Modestia a parte, 1931), al Manuale Minimo dell’attore di Dario Fo (1987). Quali consonanze possiamo trovare in queste trattazioni? Innanzitutto, l’idea che l’interprete comico non debba limitarsi ad imitare, ma piuttosto a deformare l’oggetto rappresentato: persino la formulazione gergale “fare un’imitazione” allude a un’adesione imperfetta, deformata, caricaturale, fatta con la complicità del pubblico. Gli autori fanno spesso cenno al continuo gioco di “slittamento” tra la dimensione scenica e la realtà, che abbiamo visto essere ingrediente fondamentale della comicità di Aristofane (si veda, per esempio, Petrolini 1931: “Un caso particolarissimo è quello che io chiamo ‘slittamento’: si può parlare con il suggeritore, ammonire un rumoroso ritardatario (…). Bisogna cogliere il momento di uscire e di rientrare nello spazio scenico”).
Le specificità della mimesis comica appaiono dunque, per molti versi, escluse dalla grande e importante tradizione teorica. Essa si rivela, per così dire, una anti-mimesis: una Mimesis cioè discontinua e intermittente, inaffidabile, volta a deformare la realtà rappresentata e non a farle da specchio.
Maddalena Giovannelli © 2016