Mimesi nella ricezione

Come uno dei più recenti studi monografici in merito afferma, “la mimesis, in tutte le sue varianti, dimostra di essere la più duratura, la più resistente e intellettualmente la più flessibile fra tutte le teorie artistiche della cultura occidentale” [Halliwell (2002, 16)]. Dopo l’Archaia, dopo Aristofane, i contributi decisivi di Platone e Aristotele pongono il concetto di mimesis al centro della riflessione sulla produzione letteraria e i suoi valori, fissando così l’orizzonte all’interno del quale si è sviluppata, nella storia della cultura occidentale, l’indagine sul complesso intreccio tra arte rappresentativa ed esperienza umana, dall’Accademia sino alle teorie anti-rappresentative del ’900. A Platone e Aristotele il concetto di mimesis offre una privilegiata occasione di esprimere in forma teorica e compiuta un tratto distintivo della cultura letteraria greca, ossia il naturale legame tra autore, opera e pubblico al quale la produzione letteraria affida la sua efficacia quale strumento di paideia [Arrighetti (2006, 296-301)].

Nella produzione critica degli ultimi quindici anni, sulla storia del concetto di mimesis si sono concentrati molteplici sforzi [cfr. Schönert- Zeuch (2004), Halliwell (2009), Koch-Vöhler-Voss (2010)] dai quali emerge come l’interesse della critica si sia rivolto in particolare a comprendere i modi nei quali il concetto antico di mimesis sia confluito o meno nelle teorie letterarie ed estetiche a partire dal Rinascimento. Uno sterminato campo d’indagine, nel quale, per il nostro Lessico, è necessario selezionare un singolo punto di osservazione; una prospettiva il cui fuoco deve essere ridotto. In questa terza parte della voce mimesis nella categoria Poetica, sarà di particolare interesse far emergere se e come la mimesis letteraria che Aristofane mette in scena negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse, con le maschere di Agatone ed Euripide, abbia esercitato un influsso nella produzione non teatrale e successiva.

In particolare nelle Tesmoforiazuse (vv. 146-167), il termine μίμησις compare quando Aristofane descrive il bisogno dell’autore di rappresentare l’altro da sé, come nel caso di Agatone intento alla composizione di drammi femminili, di per sé estranei alla sua φύσις maschile (v. 156). Ma nella scena delle Tesmoforiazuse è senza dubbio mimetico anche il rapporto fra il poeta e la produzione che non è estranea alla sua φύσις. La produzione letteraria riflette sempre la natura del suo autore: ὅμοια γὰρ ποιεῖν ἀνάγκη τῇ φύσει (v. 167). Al centro della riflessione che Aristofane esprime tramite la maschera di Agatone è quindi la mimesis del sé, la necessità che per Agatone costringe il poeta a offrire una produzione in armonia con la propria φύσις, a rappresentare se stesso nei propri personaggi.

A comprendere quale posizione occupi la concezione della mimesis espressa da Agatone nelle Tesmoforiazuse, nel più ampio panorama della riflessione successiva sul rapporto tra produzione letteraria e realtà, sarà dedicata questa sezione del Lessico. È certo utile prendere le mosse da uno schema offerto da Halliwell che forse rappresenta uno dei contributi più validi del suo volume [Halliwell (2002, 23-24)]. Sin dalle prime occorrenze, il campo semantico della mimesis presenta uno spettro di significati di notevole ampiezza, che spazia dalla somiglianza visiva all’emulazione dei comportamenti, all’impersonazione realizzata in contesti drammatici, alla riproduzione di suoni di natura espressiva, alla conformità metafisica che per Aristotele caratterizza la concezione pitagorica del rapporto tra mondo materiale e mondo astratto dei numeri. Ognuno di questi ambiti è recepito in varie forme da Platone, che rinnova però la tradizione introducendo per la mimesis l’ambito cosmico nel Timeo, dove il rapporto tra mondo delle idee, dell’essere e mondo del divenire è un rapporto mimetico. Inoltre, sulla scia di Aristofane, tra III eX libro della Repubblica, Timeo-Crizia e VII libro delle Leggi, Platone offre un quadro più ricco ed esauriente per la mimesis letteraria, che pone in modo definitivo al centro della riflessione sull’essenza della produzione letteraria il processo di rappresentazione o imitazione del mondo esterno [cfr. Giuliano (2005, 21-135) e, in particolare sul Timeo-Crizia, Regali (2012, 99-147)]. All’interno dell’ampia e variegata riflessione di Platone sulla mimesis letteraria gioca un ruolo non marginale la mimesis di se stesso quale naturale tendenza del poeta, la stessa sulla quale riflette Aristofane nelle Tesmoforiazuse. La mimesis di sè, che per l’Agatone della commedia aristofanea è il necessario presupposto per la produzione letteraria, diviene in Platone un ideale al quale tendere quando il sè è specchio dell’areté patrimonio del philosophos; in netto contrasto con la mimesis indiscriminata che caratterizza i poeti da esiliare dalla Kallipolis e da Magnesia [Tulli (2013)].
Nel III libro della Repubblica (395b-c), ai guardiani è concessa solo la mimesis che non li allontani dal compito di custodire l’eleutheria della polis e, in particolare, dalle virtù “che a loro si addicono sin dall’infanzia”, τὰ τούτοις προσήκοντα εὐθὺς ἐκ παίδων, ossia il coraggio, la temperanza, l’hosiotes e, appunto, l’eleutheria.

Allo stesso modo, in relazione alle armonie, per i guerrieri sarà necessario adottare l’armonia che sappia imitare i toni e gli accenti dell’uomo coraggioso impegnato in un’azione di guerra; e così il ritmo corretto, per Socrate, sarà quello conveniente a una “condotta di vita ordinata e coraggiosa”, al βίος κόσμιος καὶ ἀνδρεῖος (399e). I giovani custodi così educati dovranno essere sottoposti a prove che ne saggino proprio la capacità di restare fedeli a loro stessi (413e). Il φύλαξ dovrà essere un “buon custode di se stesso”, φύλαξ αὑτοῦ ὢν ἀγαθός, e “della μουσική che ha appreso”, καὶ μουσικῆς ἧς ἐμάνθανεν, mostrandosi in ogni occasione “euritmico e armonioso”, εὔρυθμος τε καὶ εὐάρμοστος, capace di essere utile al massimo grado sia a se stesso sia alla città.

La mimesis di sé è poi al centro anche della riflessione offerta nel X libro della Repubblica sui possibili modelli per una mimesis positiva. Alla luce della tripartizione dell’anima in parte razionale, emotiva e appetitiva, che corrisponde alla tripartizione del corpo sociale di Kallipolis tra filosofi-re, guerrieri e ceto produttivo-commerciale, Socrate sottolinea come per i poeti μιμητικοί, oggetto della critica sviluppata nel X, il modello più semplice da imitare sia la parte eccitabile dell’anima, l’ἀγανακτητικόν che contraddistingue in misura varia le parti sociali che nella Kallipolis devono sottomettersi alla guida dei filosofi archontes. Al contrario, l’ethos da imitare per favorire la componente razionale dell’anima sarà il carattere φρόνιμός τε καὶ ἡσύχιος, che è possibile immaginare al centro delle imitazioni che Socrate favorisce per la Kallipolis con il nesso “encomi per gli uomini virtuosi” (604e1-6; 607a2-5). E il carattere “intelligente e calmo”, che di fronte al dolore non diviene preda dei pathe, in quanto espressione del dominio della parte razionale sull’emotiva e sull’appetitiva, appartiene senza dubbio al filosofo-re, il quale, nel caso dovesse produrre mimesis, la realizzerebbe come mimesis di se stesso, in piena corrispondenza con ciò che abbiamo osservato per il III libro. Non a caso, nel VI libro della Repubblica, quando soggetto della mimesis è il filosofo, il consenso di Platone diviene esplicito: la metafora del “buon pittore” svela infatti il profilo dell’autore della Repubblica che, da un lato, quale φιλόσοφος, rende simile se stesso alle “realtà ordinate e sempre invariate nella loro identità”, dall’altro costruisce un modello di πόλις che riproduce “ciò che per natura è giusto, bello, moderato” (500c-501b). Dietro la maschera del “buon pittore”, parte della critica scorge la poetica di Platone autore della Repubblica: il dialogo imita la ricerca del filosofo sulla δικαιοσύνη. La selezione che Platone attua nei confronti della tradizione rappresentata da Aristofane favorisce dunque la mimesis del sé quando il sé cela il profilo del filosofo.

Come spesso la critica più sensibile alla componente letteraria dei dialoghi ha messo in luce, a partire da Konrad Gaiser (1959), alle dichiarazioni teoriche sulla produzione letteraria del passato, in particolare nella Repubblica, corrispondono i luoghi dove si rivela il senso di una produzione nuova, fondata sulla ricerca. Alla teoria letteraria della Repubblica e delle Leggi, la prassi della scrittura filosofica di Platone si mostra fedele. Anche in relazione alla mimesis di sé che abbiamo osservato tra III, VI e X libro della Repubblica, nel Simposio, in particolare nel decisivo snodo tra il discorso di Agatone e il successivo discorso di Socrate con la maschera di Diotima, la tendenza di Platone a realizzare una prassi letteraria coerente con la propria teoria si manifesta in piena chiarezza.

Nella serie di encomi per Eros che costituisce la trama del Simposio, il discorso di Agatone riserva un ruolo centrale alla mimesis di sé, intesa quale proiezione sul personaggio Eros di caratteristiche personali dell’autore Agatone [cfr. Regali (2016)]. Un processo che Platone sembra sviluppare anche nel discorso di Socrate: con la mimesis di sé Socrate, pur dietro la maschera di Diotima, rappresenta Eros quale φιλόσοφος, come con la mimesis di sé Agatone aveva rappresentato Eros quale ποιητής. Nel discorso di Agatone, Eros è bello, giovane, delicato e poeta; nel discorso di Socrate, Eros non possiede bellezza, è scalzo ed è φιλόσοφος. In entrambi i casi, il profilo di Eros riflette il profilo dell’autore dell’encomio. Come vedremo, Agatone rappresenta il punto più alto possibile raggiunto dalla tradizione poetica: una tradizione corretta e riveduta, che pone al centro l’imitazione del sé e non la indiscriminata mimesis di ogni oggetto possibile. Ma la mimesis di Agatone non è ancora diretta verso la ricerca del filosofo e il carattere stabile delle idee al quale il φιλόσοφος aspira. Questo passo ulteriore è compiuto da Socrate che, con la maschera di Diotima, rappresenta Eros quale φιλόσοφος.

Osserviamo come Agatone tenda nel λόγος a rappresentare se stesso quale poeta ed Eros quale riflesso del sé. Agatone disegna un ritratto del dio che appare modellato sull’immagine di se stesso, l’immagine di Agatone offerta dalla tradizione che Platone recepisce nel Simposio. Eros è καλός, νέος, ἁπαλός, “bello, giovane e delicato” (195a-b; 195d-e; 196a-b), come Agatone è καλός, νεανίσκος, ἁπαλός (174a, 198a; Aristoph. Thesm. 192). Il rispecchiamento di Agatone ’ in Eros giunge al culmine con la qualifica di poeta che al dio è attribuita nella sezione finale del discorso: Eros e gli uomini che a lui inneggiano condividono il medesimo canto (196e-197a).

La prima definizione che Agatone offre di Eros è nel segno della massima lode: è il più felice tra gli dei, è κάλλιστος e ἄριστος (195a5-8). Tra le qualità che compongono la bellezza del dio, Agatone illustra per prima la giovinezza. Eros è il più giovane tra gli dei; sempre rifugge la vecchiaia e sempre accompagna i giovani, a lui simili (195a8-b7). Sin da questo primo tratto emerge il rapporto mimetico con Agatone: come Eros è bello perché giovane, così la caratterizzazione di Agatone, sia nel Simposio sia nelle Tesmoforiazuse, è focalizzata sulla bellezza e sulla gioventù del poeta. Nella cornice, quando Aristodemo incontra Socrate che contro le sue abitudini si è fatto bello, Socrate spiega che si è reso bello “per andare da un bello”, il suo imminente ospite Agatone: ταῦτα δὴ ἐκαλλωπισάμην, ἵνα καλὸς παρὰ καλὸν ἴω (174a2-8). Nel primo scambio fra Agatone e Socrate, in merito alla trasmissione della σοφία, Socrate descrive la σοφία di Agatone, che a differenza della sua, debole e vaga come un sogno, splende chiara a tutti i Greci dopo la vittoria del giorno precedente, una σοφία che per la giovane età di Agatone, definito νέος da Socrate, promette molto per il futuro (175e3-7). Al termine del discorso di Agatone, Aristodemo ricorda il clamore destato tra i simposiasti, il θόρυβος che si solleva per l’appropriatezza del λόγος del giovane, del νεανίσκος come qui Aristodemo definisce Agatone (198a1-3).

Tutto ciò che sappiamo dal Simposio e dalle Tesmoforiazuse sul ritratto di Agatone ruota dunque attorno alla gioventù e alla bellezza del poeta. I soli tratti dell’aspetto di Agatone ai quali sia Platone sia Aristofane accennano sono la sua giovane età e la bellezza del corpo o dei vestiti che indossa. E non a caso, nel pieno rispetto della teoria esposta da Agatone nelle Tesmoforiazuse, nel Simposio il poeta compone un encomio per Eros attribuendo al dio tratti fisici identici ai propri.

Sin qui le caratteristiche fisiche di Eros, che riflettono le caratteristiche fisiche di Agatone. Ma il vertice della mimesis di sé nel ritrarre Eros è raggiunto da Agatone nella seconda parte del λόγος, quando dal κάλλος il poeta passa a descrivere l’ἀρετή del dio. Nella sequenza canonica δικαιοσύνη, σωφροσύνη, ἀνδρεία e σοφία, la σοφία di Eros identifica in modo palese l’oggetto della lode con l’autore della lode: la σοφία di Eros è infatti la σοφία di un poeta. Secondo Agatone, Eros è un ποιητής così sapiente da riuscire a rendere chiunque poeta: chi è toccato da Eros diviene infatti poeta anche se estraneo alle Muse (196e1-3). La descrizione di Eros ποιητής raggiunge poi il suo culmine nella sezione conclusiva, nella quale, non a caso, anche lo stile di Agatone vira dalla prosa di stampo gorgiano verso la dizione lirica (197c3-5). L’immagine finale di Eros poeta “accompagnato da ogni uomo” nel canto “che affascina” è preparata in vario modo nella serrata sequenza asidentica che chiude l’encomio. Il dio appare quale guida, ἡγεμών, degli incontri, σύνοδοι, dove di norma ha luogo la rappresentazione poetica: le feste, i cori, i sacrifici (197d2-3). Ancora quale guida, κυβερνήτης, Eros è descritto in relazione alla fatica, alla paura, al desiderio, alla parola, il λόγος (197d8-e1). Una sequenza nella quale la critica scorge la situazione di Agatone nel momento presente, l’encomio che è chiamato a esporre, e i momenti legati alla sua attività di poeta: la fatica della composizione, la paura dell’insuccesso, il desiderio di gloria, il λόγος [cfr. Rowe (1998, 166)]. Il quadro conclusivo del ritratto offerto da Agatone coincide poi con il vertice dell’identificazione fra Eros e il poeta (197e2-5): Eros è ora l’ἡγεμών κάλλιστος e ἄριστος, che ogni uomo deve seguire mentre inneggia secondo bellezza e partecipa all’ode che il dio canta affascinando la mente di tutti gli dei e degli uomini. Agatone esorta quindi gli uomini a divenire poeti, a lodare Eros seguendo il suo esempio; sulle orme di Eros, lo stesso Agatone diviene così maestro di poesia.

La mimesis quale rappresentazione di sé percorre, come abbiamo visto, l’encomio per Eros di Agatone nella sua interezza, ma non è estraneo al concetto di mimesis di sé anche il discorso che Socrate apprende da Diotima. Tramite l’elenchos di Agatone, Socrate giunge a mostrare “quale sia Eros” invertendo di segno il ritratto offerto in precedenza da Agatone: Eros non è né καλός né ἀγαθός, bensì è privo sia di καλά sia di ἀγαθά (201b1-c9). L’insegnamento seguente di Diotima conduce poi a identificare nella sfera del μεταξύ l’ambito che appartiene al dio (201e8-b5). Il profilo reale di Eros è poi offerto da Diotima con il racconto sulla nascita da Poros e Penia: un ritratto che sconvolge l’immagine del dio offerta da Agatone (203b1-204a7). Eros è sempre povero e soprattutto è molto lontano dall’essere “delicato e bello”, ἀπαλός τε καὶ καλός. Alla delicatezza di Agatone, si oppone l’Eros “duro e squallido” di Diotima, σκληρὸς καὶ αὐχμηρός (203c6-d3).

Ora, negando la delicatezza e la bellezza di Eros, Diotima inverte di segno il ritratto che Agatone aveva delineato tramite la mimesis di sé. Un profilo nuovo per Eros, che presenta i tratti che appartengono a Socrate: oltre all’essere scalzo, il tratto peculiare di Socrate segnalato già nella cornice con gli inusuali sandali che stupiscono Aristodemo, al filosofo, come all’Eros nuovo di Diotima, non appartiene certo la bellezza. L’immagine del Sileno al quale Alcibiade paragonerà Socrate ne offre conferma (215a-e). Come nel discorso di Agatone, poi, la mimesis del sé coinvolge l’attività di Eros (203d5-6): come Socrate, Eros è “desideroso di phronesis, ricco d’espedienti, filosofo attraverso l’intera vita”, φιλοσοφῶν διὰ παντὸς τοῦ βίου. La posizione intermedia tra mortalità e immortalità conduce Eros al passaggio continuo, nello stesso giorno, dalla morte alla rinascita, alla continua alternanza tra sapere e ignoranza (203d8-e5). Non a caso, tale tratto del carattere di Eros torna più avanti nel discorso di Diotima, quando Eros conduce i mortali a partecipare dell’immortalità tramite il continuo rinnovarsi della ἐπιστήμη, “conoscenza” per mezzo di una μελέτη, “esercizio”, che richiama senza dubbio la ricerca continua di Socrate, con il suo διαλέγεσθαι (207c-208b). Solo Eros, poi, tra gli dei pratica la filosofia e desidera divenire σοφός, perché le altre divinità già possiedono il sapere. Il danno maggiore provocato dalla ἀμαθία è per Diotima l’illusione di essere valenti e saggi quando in realtà non si è tali: emerge qui un ritratto di Eros molto vicino al profilo di Socrate nell’Apologia, il più sapiente tra gli uomini, secondo l’oracolo, perché unico a sapere di non sapere (21a-23c).


Diotima conclude ora il ritratto di Eros affermando in modo definitivo la sua natura filosofica (204b1- 7): è necessario che Eros sia φιλόσοφος poiché il φιλόσοφος è in una condizione intermedia tra il sapiente e l’ignorante, una condizione che Eros deve alla nascita da Poros e da Penia, la condizione alla quale di frequente nei dialoghi, dalla Apologia al Fedro, Socrate aspira. E ancora, nei Grandi Misteri, l’ergon di Eros corrisponde di nuovo alla φιλοσοφία: dopo gli ἐπιτηδεύματα, il νέος deve essere guidato verso la bellezza delle ἐπιστῆμαι, dove il καλόν non risplende solo nei particolari ma è libero, senza vincoli, nel “grande mare del bello”. Di fronte al mare del bello, nella sua contemplazione, il giovane produrrà λόγοι “belli e magnifici” e genererà pensieri nella φιλοσοφία priva di φθόνος (210c6-e1). Il praticare senza φθόνος la ricerca del sapere, qui attribuito al νέος che segue Eros, è un tratto che nei dialoghi è sempre associato al personaggio di Socrate o all’ideale di φιλόσοφος che Socrate propugna, dal Protagora (320c1-2) alla Repubblica (VI. 499d10-501b8) [cfr. Herrmann (2003)]. Eros diviene quindi nel ritratto di Diotima un maestro di φιλοσοφία: tende alla conoscenza del καλόν e trascina chi partecipa di esso, così come Eros, per Agatone, tende alla poesia e trascina al canto chi di lui partecipa. Come per Agatone, anche per il discorso di Socrate la mimesis di sé ha un ruolo centrale.

Dopo Platone, ma con ogni probabilità ancora in Accademia, la mimesis di sé gioca un ruolo non marginale anche nella Poetica di Aristotele. Perno attorno al quale Aristotele sviluppa la propria concezione di produzione letteraria, la mimesis conserva nella Poetica un legame con la personalità dell’autore secondo lo schema che agisce nelle Tesmoforiazuse e che diviene fertile, come abbiamo osservato, in Platone. Nella sezione sulle origini della poesia, Aristotele immagina una fase arcaica della storia letteraria nella quale la poiesis si differenzia in due ambiti distinti in base agli oikeia ethe degli autori (1448b24-27): i più seri, i σεμνότεροι, imitavano le belle imprese degli uomini simili a loro, mentre i più modesti, gli εὐτελέστεροι, le azioni dei φαῦλοι, producendo gli uni la poesia di biasimo, gli ψόγοι, gli altri la poesia di lode, gli inni e gli encomi. Il capitolo 4, dal quale il passo è tratto, mostra come sin dall’origine per Aristotele la produzione letteraria sia in stretto legame con l’interesse per gli aspetti etici dell’azione umana, delle πράξεις, che riflettono la personalità dell’autore. Come mostrato a più riprese, in modo cristallino, da Graziano Arrighetti questo principio è alla base dell’impiego dell’aneddoto che lo stesso Aristotele adotta nel dialogo Περὶ ποιητῶν e che Satiro svilupperà, in particolare attorno alla figura di Euripide, nella sezione della Βίων ἀναγραφή che, come ha permesso di scoprire il papiro di Ossirinco 1176, era composta non a caso in forma dialogica [cfr. da ultimo Arrighetti (2006, 278-301) e, per Satiro, Schorn (2004)]. Anche dopo Platone, nel genere del dialogo, come in commedia, la mimesis di sé offre agli autori un’occasione privilegiata per esprimere la propria poetica. Questo tratto, come vedremo, sopravviverà, pur con dinamiche del tutto nuove, nella poesia alessandrina.

In età ellenistica, l’intensa riflessione sulla mimesis tra Accademia e Peripato giunge ad Alessandria. In particolare la mimesis di sé sembra al centro delle Talisie di Teocrito, che recepisce la tradizione esiodea della componente autobiografica quale perno attorno al quale sviluppare l’espressione della propria poetica [sulle Talisie come riscrittura della scena dell’investitura nella Teogonia cfr. Puelma (1960); scettico invece Cameron (1995, 412) che scorge ironia nel sorriso con il quale Licida accompagna il dono del bastone; diversamente Payne (2006, 140) non legge l’incontro con Licida né come investitura poetica né come iniziazione alla poesia bucolica ma come “the conception of a kind of poetry that is able to invent fictional doubles as aspirational models for one’s present existence”].

Con tratti che richiamano in modo evidente elementi strutturali dei dialoghi di Platone, in particolare del Fedro come la critica non ha mancato di notare [cfr. Hunter (2003, 233-234) e Payne (2006, 118- 119, 127-128, 139)], nelle Talisie la maschera di Simichida racconta in prima persona l’incontro con il poeta pastore Licida, avvenuto durante un viaggio dalla città alla campagna di Cos. Dopo uno scambio vivace di canti bucolici con Licida (vv. 21-127), Simichida riprende il viaggio e l’idillio si conclude con la favolosa descrizione della natura rigogliosa che la fattoria di Frasidamo, meta del viaggio, offre alla compagnia di Simichida (vv. 128-157). Dietro la maschera di Simichida, già la critica antica scorge il profilo di Teocrito che mette in scena la propria investitura di poeta bucolico [vd. sch. ad VII 21; cfr. Gow (19522) 2, 127-129]. Simichida, voce narrante, si presenta infatti come un poeta urbano (v. 2: εἵρπομες ἐκ πόλιος “partimmo dalla città”) che riceve la propria iniziazione bucolica dal poeta-pastore Licida [vv. 13-14: (…) ἦς δ’ αἰπόλος, οὐδέ κέ τίς νιν / ἠγνοίησεν ἰδών (…) “era capraio, impossibile sbagliarsi”; Teocrito imita qui le scene in cui Omero descrive il riconoscimento tra gli dei: Hom. Il. I 536-537 e Od. V 77-78], iniziazione che Simichida dimostra di avere meritato tramite l’entusiastica descrizione del locus amoenus rurale che chiude l’idillio (vv. 131-157) [cfr. Pearce (1988, 300)]. Con la maschera di Simichida, Teocrito esprime in apertura dell’idillio il proprio debito nei confronti di Asclepiade di Samo e Filita di Cos [vv. 39-41; il debito è reale anche se celato dietro l’ironico ἐπίταδες, cfr. Gow (19522) 2, 142], la cui poesia erotico- simposiale non a caso è trasposta in ambito bucolico nel canto paradigmatico di Licida che inizia Teocrito al nuovo genere [cfr. Payne (2006, 117): “Theocritus seems to have dramatized his own involvement with bucolic poetry in the form of an encounter with a figure from that world who embodies its imaginative appeal”]. Il propemptikon per Ageanatte, soggetto all’inconsueta condizione di liberare Licida da Afrodite, ha l’evidente funzione di annunciare l’abbandono della poesia erotica in favore del sereno mondo bucolico di Comata, favorito dalla Musa che lo salva dal crudele padrone grazie al dolce miele. L’immagine che chiude il canto di Licida annuncia l’idillio bucolico nella poesia: se Comata fosse ancora vivo, Licida pascolerebbe per lui le capre sui monti, ascoltando la voce del poeta che, sdraiato sotto le querce o i pini, canta con dolcezza. Al canto di Licida, Simichida- Teocrito, che da Licida ha ricevuto il bastone che lo investe della qualifica di poeta nel segno della alatheia di Zeus, risponde con un canto nuovo che ne ripercorre le tracce. Dopo la prima sezione dedicata all’eros, dopo la preghiera a Pan, Simichida, come Licida, annuncia il proprio addio alla poesia erotica, esortando Arato a non sostare più presso la porta di Filino, ad abbandonare la lotta con gli avversari d’amore, per darsi all’hasuchia, al riposo, sotto la protezione della vecchia che con il suo sputo difenderà il poeta dai mali (122-126).

Dopo lo scambio poetico con Licida, Simichida-Teocrito riceve di nuovo dal sorridente poeta-pastore il bastone come xeinion dalle Muse e prosegue il cammino verso la fattoria di Frasidamo. Qui Teocrito mette in scena un simposio campestre nel quale l’ideale dell’hasychia con cui aveva chiuso il canto per Licida trova espressione piena: i giacigli di giunco e pampini di vite, la fonte sonora delle Ninfe, il canto instancabile delle cicale, il volo delle api attorno alle fonti, il profumo del raccolto, il vino di quattro anni che ricorda a Simichida il vino che Chirone offrì a Eracle o il vino di Polifemo, sino al sorriso di Demetra che stringe nelle proprie mani spighe e papaveri [cfr. Payne (2006, 133- 138)]. Nelle Talisie, Teocrito costruisce quindi un complesso gioco di maschere nel quale Simichida rappresenta la personalità del poeta e ne esprime le nuove istanze di poetica: la mimesis nuova di Teocrito produce un mondo fittizio, a metà tra il realismo umile del mimo siciliano e il simbolismo letterario del quale è investito l’universo bucolico, che ha indotto la critica ad attribuire a Teocrito un ruolo decisivo nella scoperta della fiction [cfr. Payne (2006, 118), che interpreta il programma letterario delle Talisie come l’unione dell’elegia erotica erudita di Filita con le convenzioni del mimo siciliano di Sofrone]. Una mimesis che rinnova il tradizionale rapporto tra mondo esterno e rappresentazione letteraria, creando lo spazio intermedio di un fittizio universo simbolico, nel quale conserva un ruolo non marginale la mimesis di sé come strumento privilegiato per l’espressione della poetica [cfr. Payne (2006, 118): “identification of the self with mimetic models is, within the world of these poems, a form of self-projection”].

Fonte preziosa per ricostruire la riflessione antica sulla mimesis dopo il Peripato è certo la produzione erudita di Filodemo. Nel Peri poiematon le numerose occorrenze dei vocaboli mimeomai, mimesis e mimema sono prova del fatto che anche in età ellenistica la mimesis permane quale elemento fondamentale nella critica letteraria, pur con alcune variazioni sostanziali rispetto al passato. I termini del gruppo mimeomai coincidono per Filodemo con il campo semantico del “comporre poeticamente” e il concetto di mimesis coinvolge ora anche l’imitazione di opere letterarie [cfr. Arrighetti (2011)]. Di particolare interesse è poi il peculiare giudizio di Filodemo su Archiloco e Aristofane, giudizio dal quale traspare la possibilità teorica di comporre poesia al di fuori della mimesis. Certo, a causa della frammentarietà e della natura polemica del Peri poiematon non è possibile per noi ricostruire con precisione i contorni dell’idea di mimesis in Filodemo, ma ciò che più interessa qui è notare come, pur in un quadro teorico profondamente rinnovato rispetto alla scena delle Tesmoforiazuse, la mimesis di sé sopravviva nella produzione epigrammatica di Filodemo, in particolare in un epigramma di particolare pregnanza per la sua poetica. Nell’epigramma 115 del V libro dell’Antologia Palatina, poi numero 10 nell’edizione di Sider, Filodemo costruisce un sapiente gioco con l’etimologia del proprio nome: l’amore ripetuto per Demo di Pafo, poi per Demo di Samo, poi per Demo di Nisa e infine per Demo di Argo conducono il poeta in modo progressivo dall’iniziale indifferenza (οὐ μέγα θαῦμα v. 1; οὐχὶ μέγα v.2) alla coscienza del proprio destino legato al nome [cfr. Paduano (1992, 136-137)]. Le Moire lo hanno chiamato Φιλόδημος perché l’amore per Demos lo dominerà per sempre. Con l’arguta pointe attorno al nome che chiude l’epigramma, Filodemo lega alla propria nascita, alla propria natura fissata nel nome dalle Moire, l’eros quale tema della propria produzione epigrammatica. L’eros, infatti, che come la poesia nel sistema di Epicuro è un piacere naturale ma non necessario, rappresenta il tema della maggioranza degli epigrammi che l’Antologia Greca attribuisce a Filodemo, ben 22 su 35. Di nuovo, con la mimesis del sé sviluppata qui tramite l’etimologia del proprio nome, l’autore esprime la propria poetica, in questo caso il naturale legame con la tematica erotica, tramite la rappresentazione di se stesso, tramite la maschera del sé.

Si compie con l’epigramma di Filodemo il percorso che qui abbiamo voluto tracciare per la mimesis del sé: dal ritratto di Agatone nelle Tesmoforiazuse, attraverso la nuova mimesis del filosofo che Socrate teorizza nella Repubblica e mette in pratica nel Simposio, dopo la riflessione del Peripato che con l’impiego dell’aneddoto testimonia la persistente fiducia nel legame tra autore e opera, la mimesis del sé giunge a Teocrito e Filodemo, offrendo loro l’occasione di esprimere le istanze della poesia bucolica e dell’epigramma erotico. Un percorso che testimonia di nuovo la sostanziale unità della cultura letteraria greca, che attorno al concetto di mimesis ha raccolto in modo costante, pur nei mutati contesti storici e sociali, la propria riflessione sulle funzioni e sugli scopi della produzione letteraria.

Mario Regali © 2016