Mimesi nella commedia

Dell’incisiva portata che la μίμησις rivestì nella commedia di Aristofane, la sensibilità antica ha mostrato una chiara consapevolezza in un arco di tempo che spazia dalla riflessione di Aristotele sino all’esegesi di Olimpiodoro. Nella Poetica (3, 1148a25-30), ad esempio, ricordando che i Megaresi rivendicarono alla loro terra la nascita della commedia, Aristotele sottolineava, nell’ambito dei tre modi tipici nello sviluppare l’atto imitativo, che, per un aspetto, Sofocle era imitatore di Omero, visto che rappresentava persone serie, mentre, per un altro, si trovava a essere uguale ad Aristofane, perché entrambi imitavano persone che fanno, πράττοντες, e agiscono, δρῶντες. Nel ricostruire il profilo sublime che distinse il maestro fondatore dell’Accademia, proposto nel Commentarium in Alcibiadem, invece, Olimpiodoro (2, 65) narrava dello stupore che in Platone traspariva alla lettura di Aristofane e Sofrone, tanto da dedicare un epigramma in onore del primo e da ricavare un benefico guadagno, preziosa ὠφελία, per il gioco di caratteri insito nei suoi dialoghi, dalla μίμησις che si trovava riflessa nella produzione del comico e del mimografo. All’inizio e al termine di questa critica antica, dunque, Aristotele e Olimpiodoro segnalano, pur da prospettive diverse, un vitale e sintomatico rapporto tra la sfera della μίμησις e la produzione di Aristofane, ben prima del maestoso affresco tracciato a riguardo, per l’appunto, da Platone nella Repubblica in un’ottica nuova che pur guarda alla produzione passata e con speciale interesse a quella drammatica. Tale rapporto non deve sorprendere. Sebbene, come è stato notato, la sfera semantica della μίμησις in Aristofane sia limitata a occorrenze non numerose, il peso che l’atto imitativo qui ricopre sia sul piano teorico sia sul piano performativo è di notevole impatto. Il mio intento è oggi ripercorrere il testo di Aristofane nella evoluzione della sua poetica per offrire un quadro generale su un aspetto dell’Archaia che, spero, metterà in evidenza come lungo i tre periodi della attività di Aristofane, anche il suo atteggiamento nei confronti della μίμησις si sia adeguato necessariamente, con fertile risultato, all’orizzonte del ποιεῖν, adattando i processi imitativi, centrali nella rappresentazione.

Inizierò il mio esame dalle Vespe e dalle Tesmoforiazuse, alterando, di necessità, la successione cronologica della prima produzione di Aristofane, per poi passare agli Acarnesi. Come noto, nella parabasi delle Vespe Aristofane si mostra al pubblico ateniese nelle sembianze di un novello Eracle alexikakos: il suo bersaglio è Cleone, malvagio mostro dalle cento bocche simile al Tifeo della Teogonia, fatale e terrificante male che agita Atene, ma da subito, all’inizio della parabasi, a ben vedere, il coro afferma, con forza, che il poeta vuole innanzitutto rimproverare gli spettatori: il poeta ha ricevuto un torto di non poco peso e pretende giustizia. Nel giro di pochi versi Aristofane ripercorre la sua carriera dai silenziosi inizi al periodo della sua pubblica contesa con Cleone. Certo, ora, pur in auge per la vittorie conseguite, Aristofane non si è inorgoglito e ha impedito che le sue Muse diventassero vergognose mezzane, per ingraziarsi il pubblico. Prima di questa doverosa celebrazione, tuttavia, è proiettata una luce di particolare fascino sul cosiddetto “periodo segreto” che, secondo una felice definizione della critica, coincide con una sorta di apprendistato presso l’officina di altri comici, prima del 427.

Al di là delle effettive dinamiche che connotarono questa fase, il “periodo segreto” richiamato nelle Vespe sembra testimoniare nel senso di una costante e intensa relazione tra Aristofane e il mondo del dramma coevo: i poeti sono in diretto contatto con il giovane che non esita a offrire, quale ἐπίκουρος, un aiuto determinante, pur muto e anonimo. Tale operazione impone un modo di approcciarsi alla dimensione letteraria della quale Aristofane si mostra pienamente consapevole e sensibile. Non a caso, nella parabasi delle Vespe il coro chiarisce la prassi nella quale si è esplicitata la βοήθεια di Aristofane (1018-1028):

τὰ μὲν οὐ φανερῶς ἀλλ’ ἐπικουρῶν κρύβδην ἑτέροισι ποιηταῖς,
μιμησάμενος τὴν Εὐρυκλέους μαντείαν καὶ διάνοιαν,
εἰς ἀλλοτρίας γαστέρας ἐνδὺς κωμῳδικὰ πολλὰ χέασθαι,
μετὰ τοῦτο δὲ καὶ φανερῶς ἤδη κινδυνεύων καθ’ ἑαυτόν,
οὐκ ἀλλοτρίων ἀλλ’ οἰκείων μουσῶν στόμαθ’ ἡνιοχήσας.
ἀρθεὶς δὲ μέγας καὶ τιμηθεὶς ὡς οὐδεὶς πώποτ’ ἐν ὑμῖν,
οὐκ ἐκτελέσαι φησὶν ἐπαρθείς, οὐδ’ ὀγκῶσαι τὸ φρόνημα,
οὐδὲ παλαίστρας περικωμάζειν πειρῶν οὐδ᾽ εἴ τις ἐραστὴς
κωμῳδεῖσθαι παιδίχ᾽ ἑαυτοῦ μισῶν ἔσπευσε πρὸς αὐτόν,
οὐδενὶ πώποτέ φησι πιθέσθαι, γνώμην τιν’ ἔχων ἐπιεικῆ,
ἵνα τὰς μούσας αἷσιν χρῆται μὴ προαγωγοὺς ἀποφήνῃ.

Nella tre fasi ricordate in questi versi che tracciano un’archeologia dell’attività di Aristofane, la gavetta, la rivelazione di sé, la consacrazione, suscita interesse la prima. Nella fase dell’apprendistato, Aristofane ricorda di aver imitato lo spirito profetico dell’indovino Euricle, μιμησάμενος τὴν Εὐρυκλέους μαντείαν καὶ διάνοιαν, o per meglio dire, la facoltà di un uomo che, come informano gli scoli (ad Vesp. 1019a-b) e illumina una pagina del Sofista di Platone (252c8), era solito offrire responsi come un ventriloquo se non addirittura guidato da un δαίμων interiore. Aristofane, in questo modo, tende a sottolineare che, per poter prestare il suo soccorso letterario ai maturi colleghi, ha dovuto immergersi nella loro natura, pur nella segretezza di un’operazione nascosta, κρύβδην, entrando nei ventri di questi, per immedesimarsi nel loro modo di percepire la realtà ed evitare che il suo aiuto stridesse con la forma peculiare e naturale di uno stile e di un pensiero diversi dal suo. Da questa βοήθεια letteraria, tratteggiata da Aristofane nel segno della μίμησις, il poeta è consapevole di aver ricavato frutti di notevole valore per la fase che, invece, lo vede quale autore apprezzato e protagonista sulla scena di Atene. Alla luce della metafora fluviale, dopo il periodo dell’apprendistato mimetico, Aristofane appare come la fonte di un rivolo rigoglioso di poesia che, dal suo alveo ricco di acqua, riversa al pubblico una produzione copiosa e felice, frutto esuberante e genuino del giovane che, un tempo passato, si è dovuto nascondere nelle pieghe dei testi degli altri ποιηταί per rafforzarsi nello statuto di affermato ποιητής. Al di là del valore negativo che, secondo la critica, nella parabasi delle Vespe, può assumere l’espressione εἰς ἀλλοτρίας γαστέρας ἐνδύς, un valore del quale non sono pienamente persuaso, certo è inevitabile scorgere in questa affermazione la prima testimonianza in Aristofane, almeno in ordine di tempo, di un atto imitativo finalizzato alla creazione poetica. Il profilo di Aristofane-Euricle, in grado di parlare senza aprire la bocca per offrire il vaticinio, tematizza la capacità di celarsi in una natura apparentemente diversa dalla propria e inserisce il poeta in una dimensione nuova: nel periodo segreto Aristofane ha imitato il pensiero dei poeti ai quali è venuto in soccorso, entrando nel loro ἦθος. L’immagine del poeta quale indovino, in questo modo, diventa una metafora per indicare la μίμησις tra Aristofane e gli altri comici. Credo, peraltro, che questa immagine, di affascinante impatto, serva anche per rafforzare la creatività di Aristofane: l’imitare delle Vespe durante il necessario apprendistato è un fatto propedeutico all’esplosione della carriera di Aristofane, ben lontano dal plagio ingenuo e biasimato che, nella parabasi delle Nuvole, Aristofane rivolge, quale screditante accusa, contro i suoi colleghi che, per attaccare Iperbolo dopo gli strali di Ermippo, non fanno altro che imitare, cioè copiare, la gustosa trovata delle anguille escogitata nei Cavalieri (864-867), τὰς εἰκοὺς τῶν ἐγχέλεων τὰς ἐμὰς μιμούμενοι (559).

La testimonianza autobiografica che le Vespe delineano nella parabasi è destinata a lasciare il segno. Prima di venire agli Acarnesi, e nella fattispecie alla trasformazione alla quale si sottopone Diceopoli, giunto presso la casa di Euripide, da contadino stanco della guerra a mendico garrulo e fine dicitore sul modello di Telefo, è inevitabile accennare alle Tesmoforiazuse, certo già nel pieno della seconda fase, perché è per l’appunto presso la casa di un altro tragico, Agatone, dinanzi alla porta della sua elegante dimora, che Aristofane esplicita sul piano teorico l’idea della μίμησις emersa nelle Vespe. Al termine del viaggio cittadino compiuto da Euripide e dal kedestes, la coppia giunge dinanzi alla porta dell’affascinante Agatone ὁ κλεινός (26-32). Un servo esce ad annunciare la delicata esperienza creativa che sta vivendo il suo padrone per via della fatidica visita delle Muse, una visita che l’etere deve ammirare tenendo fermo il fiato (38-57). Di lì a poco Agatone compare sulla scena, grazie all’enciclema, fuori di casa, in un’atmosfera di sontuoso lirismo. Le parole del tragico rivelano la più profonda esplicitazione della μίμησις che la commedia di Aristofane offre. Già a partire dall’effetto visivo: Agatone, non a caso, è abbigliato come Cirene nella veste screziata color di croco (98). Ma non solo: la sua eccessiva effeminatezza supera l’eleganza dell’abito tanto che, mentre la realtà impone che Agatone sia di fatto un uomo, lo sguardo attonito di Euripide e del kedestes suggerisce che, nella sostanza, si tratti di una donna o, per meglio dire, di un γύννις (136), la donnicciola, parola che, già di Eschilo per il suo Dioniso ἄναλκις (fr. 76 Radt) poi eredita Teocrito per l’immagine di un impari pugilato nell’Idillio XXII (69). La delicata commistione tra elemento femminile ed elemento maschile in Agatone desta maggiore disorientamento, quando il tragico inizia a parlare. Dalla bocca di Agatone, innanzitutto, giunge un canto di affascinante intensità lirica: un inno delicato rivolto agli dei che proteggono Troia (101-129), che seduce e inebria di bellezza, in perfetta corrispondenza, nella volgare sensazione del kedestes, con la natura femminea del suo esecutore. La melodia che si diffonde al tiepido sole d’autunno è un dolce canto, ha il sapore di donna, è un gioco di lingua, un lavoro di chiavi. Certo, però, nella scena il momento decisivo si profila quando Agatone dopo il canto, dinanzi agli interrogativi del kedestes, rivela di portare un abito elegante perché deve essere conforme al suo elegante pensiero, ἐγὼ δὲ τὴν ἐσθῆθ’ ἅμα γνώμῃ φορῶ (148). Del resto, un poeta deve essere tale e quale ai drammi che vuole creare, tanto che se uno crea un dramma al femminile, nel senso che rappresenta delle donne, deve fare in modo che il suo corpo abbia modi di donna secondo un criterio di ferrea ὁμοπάθεια in virtù della quale ὅμοια … ποεῖν ἀνάγκη τῇ φύσει (168). Quanto il corpo non possiede, invece, occorrerà, continua Agatone, che un bravo poeta lo vada a cacciare con l’imitazione, ἃ δ’ οὐ κεκτήμεθα, / μίμησις ἤδη ταῦτα συνθηρεύεται (155-156). Ben si comprende, per tutto ciò, il motivo per il quale il bel Frinico componga opere belle o la grazia ionica ammanti di eleganza la poesia di Anacreonte, Ibico e Alceo (159-167). Del resto, all’entrata di Eschilo ed Euripide sulla scena delle Rane (830-839) l’intenso silenzio di Eschilo ben collima, sul piano pratico e performativo, con la teoria estetica formulata da Agatone in direzione di una simmetria tra la φύσις del poeta e la sua opera: Eschilo tace, stretto in un silenzio austero e maestoso, come tacciono i suoi protagonisti dileggiati quali comparse imbacuccate che non proferiscono parola, πρόσχημα τῆς τραγῳδίας,γρύζοντας οὐδὲ τουτί, anche se apprezzati da Dioniso (911-917). Certo, al di là di questa esemplificazione, resta un dato da non sottovalutare: viene facile capire che Aristofane nelle Tesmoforiazuse, in un momento di programmatica teorizzazione estetica, tende a proiettare necessariamente la μίμησις nell’ambito letterario del teatro. Si ha l’impressione, in altri termini, che il campo di applicazione e di elaborazione costante di questo concetto secondo Aristofane non possa esulare dalla produzione e dalla scena drammatica ateniese, forse perché lì meglio che in ogni altra dimensione artistica la μίμησις rendeva conto del suo spessore e della sua centralità nel complesso momento del ποιεῖν.

Alla luce di quanto sinora detto, credo opportuno considerare la scena inziale degli Acarnesi nella quale, a ben vedere, non abbiamo un riferimento esplicito alla μίμησις, almeno sul piano lessicale come nelle Vespe o nelle Tesmoforiazuse, ma traspare ad un tempo una decisiva e vivace rappresentazione dei processi mimetici che concorrono alla costruzione dell’ἦθος del personaggio in netta adesione al programma che nelle Tesmoforiazuse troviamo esplicitato. Osserviamo nel dettaglio. Ormai stanco della guerra, Diceopoli comprende di avere un’unica salvezza: convincere i suoi concittadini alla pace. Persuadere gli Ateniesi a desistere dalla guerra, tuttavia, richiede uno sforzo di non poco conto. Per tutto ciò l’unica valida soluzione escogitata dal contadino è quella di rivolgersi a Euripide perché, con la sua arte, riesca a offrire gli strumenti adeguati per diventare un abile affabulatore. Merita attenzione il meccanismo che Aristofane mette in atto durante l’incontro tra Diceopoli ed Euripide (407-479). Pur attraverso la lente deformante della distorsione comica, la scena può essere considerata come una vera e propria fenomenologia della μίμησις che agisce su più piani. Innanzitutto abbiamo una μίμησις intesa quale imitazione del personaggio drammatico: Diceopoli deve diventare uno πτωχός euripideo tramite un travestimento buffonesco che, con ῥάκια e altri arnesi, mira a consolidare un nuovo ἦθος nel modo più convincente possibile. Ma, in un’ottica più generale, abbiamo anche una μίμησις che possiamo porre sul piano teorico: Aristofane si mostra consapevole del fatto che il tragico è in grado di realizzare gli ἤθη dei suoi personaggi tramite una serie infinita di strumenti del mestiere che subito creano una piena solidarietà con il pubblico. Infine una μίμησις come atto creativo nella quale la natura o l’atteggiamento del poeta passa automaticamente nella natura e negli atteggiamenti dei suoi personaggi. Quando arriva presso la casa di Euripide, Diceopoli trova il tragico in una posizione innaturale per i più ma evidentemente adatta a Euripide: mentre la sua mente è uscita fuori casa, a comporre versetti, Euripide è rimasto all’interno a poetare in alto, ἀναβάδην ποεῖς (416). Certo, dalla posizione assunta dal tragico nell’atto creativo deriva secondo Diceopoli il motivo per cui i personaggi di Euripide sono tutti zoppi, χολοῦς ποεῖς (411). Ma ancor più incisiva, per la corrispondenza tra natura del poeta e opera poetica, è ora la constatazione non marginale che sempre Diceopoli avanza sull’abbigliamento del suo ospite. Euripide, infatti, mentre compone in altro, indossa una veste che suscita pietà, una ἐσθὴς ἐλεεινή (413), dunque una veste conforme al pensiero, come Agatone dirà nelle Temosforiazuse. Non è da sottovalutare questa definizione: ἐλεεινός evoca un sentimento cruciale sul piano drammatico, provato dagli uomini senza atro condizionamento se non quello dovuto alla riflessione del proprio animo. Le veste che suscita pietà ora è, in fondo, la caratteristica principale del dramma euripideo, capace di produrre quell’ἔλεος che, nella sensibilità di Diceopoli, peraltro spettatore della prima fase creativa del τραγῳδεῖν di Euripide, è indispensabile per ottenere la convinzione desiderata e vincere nell’intento prefissato. Poco importa, poi, se tale ἔλεος sia da biasimare o da accettare nell’ottica di Aristofane poeta: Diceopoli ha bisogno di “euripidizzarsi”, e indossare vesti pietose, necessaria condizione per tale compito, susciterà compassione per rendere convincente la lunga ῥῆσις da recitare dinanzi al coro (416).

Non a caso, nel successivo catalogo di personaggi-ἤθη euripidei il momento culminante è rappresentato da Telefo, sintesi perfetta di quell’ἀθλιώτατον ἦθος che vuole raggiungere Diceopoli (436). Ottenuti gli stracci del re misio, posti tra quelli di Ino e di Tieste, il contadino dedica una preghiera a Zeus (435-444):

Ὦ Ζεῦ διόπτα καὶ κατόπτα πανταχῇ, ἐνσκευάσασθαί μ’ οἷον ἀθλιώτατον. Εὐριπίδη, ‘πειδήπερ ἐχαρίσω ταδί, κἀκεῖνά μοι δὸς τἀκόλουθα τῶν ῥακῶν, τὸ πιλίδιον περὶ τὴν κεφαλὴν τὸ Μύσιον. Δεῖ γάρ με δόξαι πτωχὸν εἶναι τήμερον, εἶναι μὲν ὅσπερ εἰμί, φαίνεσθαι δὲ μή· τοὺς μὲν θεατὰς εἰδέναι μ’ ὅς εἰμ’ ἐγώ, τοὺς δ’ αὖ χορευτὰς ἠλιθίους παρεστάναι, ὅπως ἂν αὐτοὺς ῥηματίοις σκιμαλίσω.

Come più volte la critica ha notato, uno spessore decisivo rivestono in questa scena i versi 440-441 che gli scoli relativi informano essere una citazione diretta del Telefo di Euripide. Citazioni da questa tragedia, un παλαιὸν δρᾶμα del 438, sono disseminate negli Acarnesi e sino a questa fase dell’intreccio numerosi e più o meno perspicui sono stati i riferimenti che il pubblico, per l’appunto, poteva cogliere in questa direzione. Ora, però, nell’opposizione stabilita tra l’essere, εἶναι, e il sembrare, φαίνεσθαι, opposizione che già si delineava nel testo tragico, una volta che Diceopoli è diventato mendico, è forse possibile scorgere innanzitutto la prima sintomatica spia del tipo di atto mimetico messo ora in pratica da Aristofane. Del resto, l’operazione di Diceopoli-Telefo deve essere chiara agli spettatori ai quali si rivolgono l’attore e il poeta allo stesso tempo, mentre deve restare segreta agli stolti coreuti, referente interno alla commedia, che si lasceranno abbindolare dalle astute paroline del mendicante, i suoi ῥημάτια, nonché dalla pietà che la trasformazione in mendico sarà capace di suscitare. In questo caso, l’atto mimetico, anche se non esplicitato in maniera puntuale tramite la sfera semantica come accade nelle Tesmoforiazuse, raggiunge il suo culmine in un intreccio di elementi sorretti da un equilibrio di matura forza performativa. Tramite una veste pietosa, Euripide crea personaggi che generano ἔλεος. È inevitabile che, indossata quella veste, una veste che si deve commisurare al pensiero, anche al di fuori della casa del poeta, cioè la tragedia, Diceopoli è convinto di riuscire a conseguire un analogo effetto: convincere e commuovere il suo destinatario.

A ben vedere, tuttavia, un simile camuffamento che mira a persuadere con l’inganno è una trovata che, a distanza di anni, torna anche nelle Tesmoforiazuse in rapporto alla nuova Elena, quando, già indossata la γυναικεία στολή, il kedestes si preparare a tendere l’agguato a danno delle donne ateniesi raccolte per la festa in onore di Demetra. Il processo al quale il kedestes si è sottoposto, è peraltro presentato da una delle donne sulla scena come una γυναίκισις (863), una sorta di “indonnamento”, termine forse nuovo, certo termine in assonanza con la μίμησις per più di un motivo e non è un caso, credo, che lo scolio al v. 863 chiosi il termine γυναίκισις come γυναικεία μίμησις. Nel segno della paratragodia tutta la scena, anche dopo l’arrivo di Euripide, prevede che il kedestes, nel ruolo di Elena, risponda alle domande di Euripide-Menelao e della donna tramite la citazione dei versi della tragedia sino a quando il kedestes, nei modi di Elena, appare come un maledetto furfante nell’ottica di Critilla (899). L’imitazione, qui nuovamente sottolineata con τὴν καινὴν Ἑλένην μιμήσομαι (850), dunque, si pone sia sul piano della rappresentazione vera e propria, nella precisa prassi della scena, nel senso che un personaggio si presenta con un travestimento che lo rende simile a una donna, Elena, sia sul piano della tecnica parodica, nel senso che il camuffamento del kedestes è rafforzato dalla citazione dei versi dell’Elena di Euripide che nella parte di un suo personaggio, Menelao, nelle Tesmoforiazuse, finisce per dialogare con l’eroina della sua tragedia in una buffonesca alterazione degli statuti, come poi accadrà con la trasformazione in Eco e Perseo e nel finale mutamento nella mezzana.

La teorizzazione della μίμησις, dunque, mai prevale sull’effetto comico ma anzi lo sorregge in un delicato e funzionale equilibrio narrativo. Del resto, nella produzione di Aristofane che si colloca nel cosiddetto momento del disimpegno, il meccanismo mimetico è ancora cruciale, anche se si ha l’impressione che il legame tra la μίμησις e la riflessione sul mondo della tragedia inizi a mutare, a poco a poco, per concedere uno spazio all’impeto dilagante della mascherata carnascialesca, spiccata in alcune fasi del Pluto. Ma procediamo con ordine. Negli Uccelli, ad esempio, il campo della μίμησις richiama ancora un’imitazione di suoni o una riproduzione di costumi e atteggiamenti che l’uomo ripete, osservando un modello consolidato. Si pensi alla smodata ornithomania che, una volta messa da parte con repentina facilità la Lacedemonomania, cattura gli Ateniesi: vinti dal piacere, gli uomini si sforzano di imitare tutto quello che sono soliti fare gli uccelli, πάντα δ’ ὑπὸ τῆς ἡδονῆς / ποιοῦσιν ἅπερ ὄρνιθες ἐκμιμούμενοι (1284-1285), abbandonandosi a un vistoso rovesciamento della propria natura e delle mode, suggerito dal νῦν δ’ ὑποστρέψαντες αὖ (1283), nel momento in cui l’uomo tende ad assumere come proprie le inclinazioni dell’uccello. Ma non solo: anche alla ricerca della natura degli uccelli, beata genìa, Aristofane muove tramite la μίμησις. Il maestoso coro di Upupa-Tereo, nel ricordo delle molteplici melodie che Alcmane trova percependo, quasi fulminea rivelazione, la κακκαβίδων ὄψ (fr. 91 Calame), come ha indicato la critica, realizza, anche sul piano metrico, il più intenso e simpatetico rapporto tra suono e realtà (208-263). Tramite il trillo di agili suoni, ἐποποποποῖ, ίὼ ἰώ, τιοτιοτιοτιοττιοτιοτιο, τριοτο τριοτο τοτροβιξ, τοροτοροτοροτοροτιξ, κικκαβαυ e τοροτοροτοροτορολιλιλιξ, (227-228, 237, 241, 260-262), Upupa compone una melodia di suggestivi pigolii che, dal folto fogliame dello smilace, giunge all’orecchio stupito dello spettatore. Non desta meraviglia, dunque, che a sugello di questa simbiosi tra suono artefatto e realtà ornitologica, Pisetero chieda a Evelpide se ha visto qualche canoro uccello e alla risposta negativa dell’amico esclami “allora a nulla è servito che Upupa se ne andasse a chiocciare come un piviere (ἐμβὰς ἐπῶζε χαραδριὸν μιμούμενος)!” (262-265). Chiocciare come un piviere con versi strani o cinguettare tra le foglie: la difficoltà del verbo ἐπῶζε lascia adito a dubbi. Certo, però, il nessoμιμούμενος χαραδριόν, quale che sia il significato di ἐπῶζε, testimonia nel senso che il pigolio di Upupa altro non è se non la creazione di un canto che riproduce, imitandoli, i versi variegati degli uccelli, sul modello dell’Elena mimetica del IV libro dell’Odissea, eco e voce desiderata di tutte le donne di Grecia, mentre sfiora il cavallo di Epeo (277-279), o delle Deliadi dell’Inno ad Apollo, capaci di imitare l’intonazione di tutti gli uomini che la terra nutre (160-163).

Nell’ultima fase, come credo, la scissione della μίμησις dal mondo della tragedia si rafforza e si consolida con il prevalere di un atto mimetico come pura riproduzione di τρόποι umani e come camuffamento di sé, raffinata tecnica della commedia che vuole guadagnare il riso del pubblico. Ma, certo, non si tratta di mutamento improvviso. Già, ad esempio, le Rane, in verità, all’arrivo di Dioniso presso la casa di Eracle, prevedono il dio abbigliato in una foggia strana se non eccentrica, spettacolo ridevole: Eracle nota una veste che suscita riso, perché somma alla sfumatura del croco elegante la pelle di selvaggio leone (45-48). Dioniso, colto dalla vaghezza di Euripide, alla fine si confessa e afferma di essere giunto a immagine e somiglianza di Eralce, κατὰ σὴν μίμησιν (109), perché vuol sapere come intraprendere una sua personale catabasis verso l’Ade. Non è un caso, peraltro, che questo tratto, già vitale negli Acarnesi e sviluppato nelle Tesmoforiazuse, sia cruciale e palese nelleEcclesiazuse e nel Pluto. Addirittura nelle Ecclesiazuse, dopo l’assemblea, Prassagora a capo delle sue donne, detta il rituale di travestimento maschile (266-279) che prevede vesti di uomo e barba posticcia e un procedere serrato del gruppo per strada scandito dall’imitazione delle canzoncine che cantano i vecchi contadini, τὸν τρόπον μιμούμεναι / τὸν τῶν ἀγροίκων, secondo un nesso quasi formulare che torna non a caso nel Pluto. E’ chiaro che ora l’imitazione di un atteggiamento è mutuato dalla realtà umana e si presta alla resa e alla codificazione di una rappresentazione che il pubblico osserva e avverte come aderente ai dati della sua stessa esperienza quotidiana ma è altrettanto evidente nelle Ecclesiazuse che il mutamento di Prassagora e delle sue compagne altro non è se l’indice di un mondo alla rovescia che offre a chi lo osserva sulla scena il segno avvincente e dilagante del γελοῖον: imitare i maschi e gli ἄγροικοι e agire come i maschi e gli ἄγροικοι sono scelte che collimano con il rovesciamento farsesco dello statuto della donna. Voluta vertigine delle parti che si rafforza dopo poco, nella commedia, quando il corifeo, parlando alle donne e invitandole a mettersi in marcia verso l’assemblea, coniuga di necessità al femminile i participi μεμνημένας ed ἐνδυόμεναι, pur invocando, con ὦνδρες, le sue amiche mascherate in uomini (285-289).

A conferma del progressivo processo di mutamento al quale è soggetta l’idea di μίμησις nella commedia di Aristofane credo che il Pluto offra una testimonianza di decisivo spessore. L’ultima commedia di Aristofane a noi giunta rivela un atteggiamento particolare da parte del poeta nei confronti dell’atto imitativo che, a ben vedere, non rappresenta un’assoluta novità ma, forse, l’inevitabile approdo al quale doveva giungere la riflessione sui processi della rappresentazione nella commedia arcaica. Mentre, all’inizio della sua attività, Aristofane proietta nel campo della produzione drammatica la μίμησις come riproduzione di un ἦθος che nella forma e nella sostanza testimoniava un intreccio saldo e vitale tra φύσις e opera, nel Pluto è possibile assistere a un mutamento di rotta in direzione di una μίμησις come travestimento che rovescia e inverte, in un gioco buffonesco, lo statuto dei personaggi. Certo, novità non in senso assoluto, perché già presente sulla scena di Aristofane, ma novità in termini generali nel senso che questo tipo di μίμησις sembra esulare dal vincolante rapporto tra commedia e tragedia e attestarsi su un piano performativo che guarda anche a generi diversi come, ad esempio, il ditirambo e l’epos in un gioco allusivo e dotto, che è possibile porre ai prodromi della poetica ellenistica con al centro la sua vitale Kreuzung der Gattungen. Di non poco peso in questi termini è l’entrata in scena del coro di agricoltori che esulta allettato dalla pretesa di Carione secondo la quale, grazie a Pluto nella casa di Cremilo, presto tutti certo diventeranno tanti Mida ma soprattutto per le orecchie d’asino (287). La gioia del coro alla notizia è un’esplosiva allegria che spinge il gruppo di uomini a danzare e cantare, avvinti dal piacere (288-289). La prima strofe (290-295) è affidata a Carione che incita i suoi amici, battendo i piedi a terra e invitandoli a fare bagordi, guidandoli come membri del suo gregge, su imitazione di Polifemo, τὸν Κύκλωπα / μιμούμενος, al ritornello θρεττανελο “trallalà”, un suono extra metrum che riproduce la melodia della cetra. Lo stesso θρεττανελο è ripetuto dal coro nella strofe successiva (296-301) che, rivolgendosi a Carione- Ciclope, minaccia di catturarlo e renderlo cieco con un palo rovente. A questa minaccia Carione, nella terza strofe (302-308) risponde con la pretesa di imitare in tutti i suoi atteggiamenti Circe, τὴν Κίρκην … μιμήσομαι πάντας τρόπους, l’astuta maga capace di trasformare in porci i compagni di Filonide. Pretesa che desta questa volta le preoccupazioni del coro nella strofe successiva (309-315): i vecchi allora, imitando il figlio di Laerte, τὸν Λαερτίου μιμούμενοι, insozzeranno il naso di Carione- Polifemo, sino a quando, come Aristillo, Carione dirà a bocca aperta ai suoi amici porcellini “seguite la madre, χοῖροι”.

Su questa scena fantasmagorica molto è stato detto a partire dagli scoli per i quali nella prima coppia strofica Aristofane parodia il noto ditirambo “Il Ciclope o Galateta” di Filosseno di Citera al quale si rifà anche Teocrito nella descrizione dell’ingenuo Polifemo innamorato della ninfa marina e bisognoso di un φάρμακον per questo piacevole male nell’XI idillio, al cui termine il Ciclope continua a illudersi di valere qualcosa grazie al suo canto d’amore. Nelle strofe del Pluto però è palese una serie di elementi farseschi tipici della mascherata che degrada nel travestimento stercorario. La tensione dello stile, nell’alternarsi di diversi registi, spazia dallo ὕψος sino al βάθος in un armonioso intreccio di elegantissime simmetrie, onomatopee – ad esempio θρεττανελο e γρυλίζοντες – e parole di potente intensità. In questo senso si pensi al participio ἀπεψωλημένοι (295), al disgustoso μεμαγμένον σκῶρ (305) o al gesto indicato dal coro τῶν ὄρχεων κρεμῶμεν (312). Si pensi al raffinato conio φιληδία, parola nuova per codificare una gioia particolare, forse ottusa secondo gli scoli, gioia certo al cui campo semantico Aristofane si mostra interessato sin dalla abile costruzione della χαιρηδών che prende Diceopoli negli Acarnesi (4) dinanzi al vomito di Cleone. Si pensi allo σφηκίσκος, il vespiforme palo infuocato, forse metafora sessuale, che, con geniale forza evocativa, rende ora la forma aguzza del ῥόπαλος o μοχλός del IX libro dell’Odissea in direzione di una metamorfosi animale dell’oggetto. Simmetrica, infine, a creare un’architettura di salde e interne corresponsioni, è l’eco tra il βληχώμενοι (293) con il quale Carione invita i suoi τέκεα a belare di gioia, e il βληχώμενοι (297) con il quale i contadini χοῖροι, invece, indicano la gioia dell’accecamento; o la ripresa di Circe che maneggia i filtri, τὴν τὰ φάρμακ’ ἀνακυκῶσαν, e poi impasta una focaccia di sterco con le sue mani, αὐτὴ δ’ ἔματτεν αὐτοῖς, cuoca volgare di un ripugnate pasto (301) e quella della Circe che maneggia pozioni, ma seduce stregonescamente e ad un tempo trasforma, τὴν τὰ φάρμακ’ ἀνακυκῶσαν /καὶ μαγγανεύουσαν μολύνουσαν (309-310). Questo funambolico gioco linguistico, che si fonda su immagini alterne, ben si adatta all’orizzonte del coro e di Cremilo. Non da ultimo, infine, l’adattamento dei polimetri del ditirambo alle sequenza giambiche degli agricoltori collima, nella prima coppia strofica, con un’operazione parodica di travolgente e riuscita forza letteraria. Che tale forza sia volta al divertimento e alla libertà sfrenata della mascherata, sembra confermarlo anche la reazione finale di Carione. Nell’ultima strofe (316-321), quasi a commento dell’esplosione di allegria, il servo di Cremilo invita i suoi amici a porre fine agli σκώμματα per passare ad un’altra figura, un εἶδος più composto e conforme al momento, segnalando che la smodata gioia che ha preso per un attimo tutti sulla scena deve ormai finire. Certo, però, a colpire in questi versi è soprattutto l’insistente interesse di Aristofane nei confronti del verbo μιμέομαι.

L’imitazione qui proposta da Aristofane per Carione non ha più, come credo, alla base la ricerca di un ἦθος che abbiamo ravvisato in Diceopoli né il presupposto teorico che sorreggeva l’estetica di Agatone. Carione fa la parte del Ciclope per puro spirito buffonesco in un momento nel quale le gioie del coro, avvinto da un’umanissima brama di ricchezza, sono acuite sulla scena da suoni e gesti roboanti che tendono a suscitare il riso tra canti come belati di montoni e melodie di lira. Del resto, poco importa a questo punto della commedia, la mimesi di Carione nel Polifemo innamorato di Galatea che, invece, certo doveva essere un elemento di innovativo impatto in Filosseno: il servo di Cremilo si limita a prendere dal ditirambo la scena forse più comica del Ciclope comaste che guida il suo gregge tra urla e belati più che derivarne lo spirito elegiaco nel quale si esplicitavano le vaghezze di un improbabile amore espresso nel ditirambo. Del resto, con un dotto intreccio di prospettiva accompagnato al cambio di genere, il gioco letterario di Aristofane prevede nelle ultime strofe un mutato modello. Al ditirambo si salda, in armoniosa corresponsione, l’epos e all’imitazione di Filosseno si sostituisce l’imitazione di Omero. Per un attimo Odisseo, il coro, è capace di fare scacco a Carione-Ciclope, e anche se il servo si dice pronto a imitare in tutti i suoi atteggiamenti Circe, il coro a sua volta sarà in grado di appendere Carione e prevalere su di lui. Nel giro di pochi versi i personaggi sulla scena si abbandonano al palese sovvertimento della propria natura: il servo diventa un ciclope e poi una improbabile Circe, mentre il coro da gregge di maialini non ha problemi a prendere le parti di Odisseo che di nuovo trasformerà in un caprone Carione che, è bene ricordarlo, resta sino alla fine μήτηρ dei suoi τέκεα. La parodia licenziosa, ormai aperta e visibile, si pone nella realtà performativa del Pluto come un’esplosione di allegria, un fuoco d’artificio che attrae e seduce per la sua continua e veloce capacità di stupire. Prevale un felice senso del divertimento: il riso si fa al centro della scena in un immediato intreccio di prospettive caleidoscopiche. Imitare è ora un espediente vivace e riuscito della potente macchina comica di Aristofane, ancora ricca di trovate e consapevole del rapporto che intrattiene con il suo pubblico.

Dino De Sanctis © 2016