Mimesi nell’erudizione

Il dibattito critico e filosofico sulla nozione di imitazione in campo artistico, su cui la Repubblica platonica e la Poetica aristotelica offrono un’ampia trattazione, sembra aver lasciato numerose tracce nel lavoro esegetico che, dall’epoca ellenistica in poi, si è concentrato sui testi letterari arcaici e classici di maggior spicco. Come si vedrà, la scoliografia mostra l’eco di tale dibattito con un’ottica aristotelica, anche perché gli eruditi del Museo trovarono nel Peripato un modello o, quanto meno, un punto di partenza (cf. Pfeiffer 1973, 168-178 e Richardson 1994). Sarebbe erroneo, però, ricondurre ai soli Platone e Aristotele il dibattito sulla μίμησις, ché esso è già in nuce nella scena delle Donne alla Tesmoforie dei vv. 154-156, in cui Agatone afferma che un tragediografo, qualora non abbia naturalmente determinati elementi (come la femminilità), deve ricercarli dentro di sé grazie alla mimesi.

Come la tradizione erudita ha allora recepito il lessico proprio al dibattito sulla mimesi? Platone nel III libro della Repubblica (393d-394d) compie una distinzione tripartita dell’arte poetica: essa può essere totalmente mimetica, come avviene nella tragedia e nella commedia; meramente espositiva [δι’ ἀπαγγελίας o (ἀπλῆ) διήγησις], come si ritrova principalmente nel ditirambo; mista (δι’ ἀμφοτέρων), per riprendere le parole del filosofo, con una modalità adottata da Omero. Nel X libro, però, la mimesi non richiama più la forma del discorso ma la poesia in sé: questa, infatti, viene accusata nel suo complesso di imitare le cose al terzo grado, in quanto rappresenta oggetti che, a loro volta, imitano l’Idea dell’oggetto stesso: la poesia sia, insomma, sarebbe tutta pura finzione. Sebbene ne assuma un’interpretazione positiva, è quest’ultimo tipo di mimesi da cui Aristotele (Po. 1447a14-18) pare prendere le mosse, cioè la mimesi artistica nel suo insieme: egli afferma, difatti, che la tragedia, la commedia, il ditirambo, l’auletica e la citaristica sono tutte arti imitative.

La tripartizione platonica presente in questa sezione della Repubblica trova invece eco nella Poetica (1448a19-29), allorché lo Stagirita spiega come tre siano i modi di imitare: quando si esegue una narrazione (ὁτὲ μὲν ἀπαγγέλλοντα), il poeta può mantenere la propria identità, compiendo una ἁπλῆ διήγησις (secondo le parole di Platone); può attuare una imitazione totale negli atti e nelle azioni, frase che richiama il διὰ μιμήσεως platonico; può infine divenire qualcun altro, come fa Omero, ricalcando il δι’ ἀμφοτέρων del fondatore dell’Accademia (cf. Nünlist 2009, 96). Aristotele aggiunge che queste tre differenze insite nella mimesi concernono i mezzi (ritmo, canto e metro), la materia (seria o faceta) e il modo con cui essa è esposta (drammatico, espositivo o misto). È questa una distinzione che si ritrova nello schema presente nell’esordio del così detto Tractatus Coislinianus, dove si distingue fra stile narrativo e stile drammatico (quest’ultimo termine sembra richiamare la conclusione del passo della Poetica appena evocato): qui, in effetti, il nome δρᾶμα (da δράω, «agire») viene ricondotto al fatto che vi si imita agendo.

Nel Tractatus, conformemente alla teoriz​zazione aristotelica (cf. Janko 1984, 55 e 81), lo stile narrativo e il drammatico sono entrambi mimetici, mentre risultano prive di mimesi tanto la storia quanto l’esposizione paideutica. Questa terminologia e tali problematiche trovano la loro applicazione in vari corpora esegetici.

Per quanto concerne i modi attraverso cui la mimesi si esplica, uno scolio al Catalogo delle Navi iliadico (II 494-877, pp. 288-290 Erbse) spiega che, secondo Platone, tre sono le ἰδέαι, le «forme» del discorso, δραματική («drammatica»), ἀμίμητος o ψιλή («senza imitazione» o «spoglia») e μικτή («mista»). Riguardo al catalogo, esso viene composto con uno stile non mimetico e con una grande attenzione ad abbellire la dizione. Di interesse sono gli esempi che lo scolio e il commento di Eustazio che da esso deriva (Il. 263,6-12, p. 400 van der Valk) fanno per ogni forma del discorso: Focilide e Teognide per l’esposizione priva di mimesi ed Esiodo per quella mista.

La distinzione tripartita dei modi dell’arte poetica è ripresa da Proclo nel suo Prolegomenon a Esiodo (5), dove si parla di tre caratteri, il διηγηματικόν («narrativo»), δραματικόν («drammatico») e μικτόν («misto»): l’ultimo caratter​ iz​zerebbe l’Iliade, mentre Esiodo adotterebbe il modo narrativo. Tale notazione è palesemente in contrasto con quella appena esaminata relativa al catalogo delle navi, dove Esiodo è un esempio del modo misto: questa incertezza sul modus esiodeo, del resto, non stupisce, perché gli Erga sono sì epici, ma contraddistinti da costanti allocuzioni a Perse o ai re che richiamano piuttosto la letteratura sapienziale a carattere dialogico o i carmina convivalia, in cui il locutore si esprime di sovente alla prima persona. Il termine διηγηματικόν («narrativo») adoperato dal Prolegomenon in questione riprende senz’altro il lessico platonico, ma è anche conform​ e all’uso aristotelico: lo Stagirita usa infatti διήγησις («narrazione») per definire lo stile narrativo dell’epica nella parte finale della Poetica (1459a17, b26, 33, 36), mentre impiega altrove ἀπαγγελία, segnatamente nelle definizioni che offre della poesia epica (1449b11) e della tragedia (1449b26). Si noti, fra l’altro, come anche ἀπαγγελία sia a sua volta platonico (R. III 394c). Più prettamente aristotelico è δραματικόν («drammatico»): posto che Platone non utilizza l’aggettivo nella Repubblica, esso compare in Po. 1448b36 per sottolineare come Omero abbia adottato anche la mimesi drammatica. Di interesse risulta infine il supplemento a un’antica biografia di Eschilo (schol. A. Pr. suppl. (e) p. 61 Herington), in quanto esso sembra costituire una sorta di summa del lessico adoperato dai critici per i differenti modi dell’arte poetica. Questo passo, infatti, distingue quanto è δραματικόν o μιμητικόν («drammatico» o «mimetico») da ciò che è, da una parte, διεξοδικόν, διηγηματικόν o ἀπαγγελτικόν («narrativo») e, dall’altra, da quanto è composto in entrambi gli stili, ἐξ ἀμφοῖν.

Il campo semantico relativo a μίμησις che abbiamo cursoriamente passato in rassegna può trovare negli scholia un uso che potremmo considerare più tecnico. L’opposizione fra διηγηματικόν e μιμητικόν, infatti, pare spesso indicare la transizione da un testo narrativo a un discorso (cf. Nünlist 2009, 102-106), come avviene nello scolio al v. 1225 delle Fenicie di Euripide. Il termine μίμησις, comunque, era utilizzato anche per indicare semplicemente l’atto di imitare, in particolare quello relativo alla voce, come si evince dallo scolio al v. 279 del IV canto dell’Odissea. Qui si ricorda che Elena, su probabile impulso divino, imitò le voci delle spose di ciascun eroe argivo al fine di svelare lo stratagemma del cavallo ideato da Odisseo.

 

Mimesi negli scoli ad Aristofane

Come nota Donini (2008, XXVI s.), il termine μίμησις nella Poetica è riconducibile a due aspetti fondamentali: da una parte, essa esprime «ogni forma di espressione artistica»; dall’altra, se applicata alla poesia, essa tende a denotarne la forma drammatica. L’utilizzo dell’area semantica connessa a questo termine nell’esegesi dell’opera di Aristofane è, da un canto, massiva; dall’altro, non perfetta​‐ mente in linea con quanto finora tratteggiato. Gli oltre 70 scolî in cui figurano μίμησις, μιμητικός o μιμέομαι possono forse essere ripartiti in sei macro-categorie, che chiaramente si intrecciano spesso fra loro: imitazione tout court; imitazione della voce; ripresa letteraria di un passo; imitazione della dizione; imitazione di un modo di agire; rappresentazione scenica.

La prima categoria è tanto ordinaria quanto priva di reale importanza: si prenda, ad esempio, lo scolio 645a alla Lisistrata, in cui si evoca l’imitazione dell’orsa che le ragazze ateniesi ritualmente facevano in onore di Artemide a Brauron (cf. e.g. Gentili-Perusino 2002): il riferimento è al banale posizione del corpo. Di un certo rilievo, però, è lo scolio 230b tricliniano ai Cavalieri, relativo alla scena in cui il Servo rassicura il Salsicciaio che non dovrà temere Paflagone, perché «la maschera non gli rassomiglia: per la paura, nessuno dei fabbricanti di maschere ha voluto raffigurare le sue sembianze». Triclinio nota come fosse costume che si facessero maschere somiglianti a chi veniva deriso in scena, sì che costui fosse ben riconoscibile agli spettatori. Per paura, però, nessuno fabbricatore di maschere volle imitare Cleone, per cui Aristofane decise di cospargersi il viso di feccia, come si faceva anticamente (cf. Suda τ 1098 A. = schol. vet. Ar. Ach. 499), e lo interpretò di persona. Il verbo μιμεῖσθαι, in questo caso, si riferisce alla fabbricazione della maschera, ossia alla mimesi artistica che concerne e.g. anche i pittori, ma forse si sottintende qui anche che solo Aristofane ebbe il coraggio di imitarlo (ὁ Ἀριστοφάνης μόνος χρίσας ἑαυτὸν τρυγὶ αὐτὸν ὑπεκρίθη), dunque di rappresentarlo.

Di non particolare rilievo critico sono le notazioni che evocano la mimesi della voce, che abbiamo già evocato a proposito di uno scolio odissiaco riguardante Elena: si veda, exempli gratia, lo scolio vetus 903 alle Vespe, in cui si nota come αὖ αὖ riproduca la voce del cane. Di maggiore interesse è forse lo scolio vetus 222c agli Uccelli, commedia – forse non a caso – ben rappresentata in questa categoria: tale notazione segnala come sia una παρεπιγραφή (ossia una «notazione scenica») l’αὐλεῖ («l’aulo suona») apposto da alcuni manoscritti dopo i vv. 209-222, pronunciati dall’Upupa dietro le quinte, mentre è intenta a svegliare l’usignolo dal suo sonno. Il suono dell’aulo che segue rappresenta un’imitazione della voce dell’usignolo.

Più notevole da punto di vista esegetico è il fatto che μίμησις indichi una ripresa letteraria, per quanto concerne sia la dizione che la materia. Un esempio è lo scolio vetus 179b alle Vespe, relativo alla battuta di Schifacleone κάνθων, τί κλάεις; (»asino, perché piangi?»). Lo scoliasta spiega che l’asino è appesantito, in quanto porta il vecchio Filocleone appeso alla pancia di nascosto: è questa una mimesi del celebre passo dell’Odis​sea (IX 431-435) in cui l’eroe si avvinghia a un ariete per sfuggire dall’antro di Polifemo. Nella Pace, al v. 76, il Servitore riporta le parole di Trigeo – ὦ Πηγάσειον μοι … ὅπως πετήσει μ’ εὐθὺ τοῦ Διὸς λαβών («Pegasuccio mio … sarai tu a portarmi in volo direttamente da Zeus» trad. Mastromarco) – còlto dal desiderio di usare lo scarabeo come cavallo volante: lo scolio 76bβ chiarisce come le parole appena citate siano una citazione – ovvero un’imitazione – del Bellerofonte di Euripide. Un caso similare ma relativo più alla dizione che alla materia è quello di Nu. 335-339, dove Strepsiade commenta l’arrivo delle Nuvole e le parole di Socrate, che ha appena attribuito a queste la facoltà di nutrire i sapienti: il povero contadino, dunque, inizia a compiere una serie di citazioni poetiche dal sapore assai ‘etereo’, come «dalle umide nuvole dai ritorti lampi il tempestoso assalto», da lui chiaramente imputate alle Nuvole. Lo scolio vetus 335b spiega che il personaggio sta imitando i ditirambi: plausibile che qui Strepsiade stia riproducendo la dizione lambiccata dei poeti ditirambici. Riguardo all’imitazione di una peculiare dizione, già sottointesa nel caso dei ditirambi scimmiottati da Strepsiade, si può annoverare l’uso di una dizione erotica evocata dallo scolio vetus 404a agli Acarnesi, che così interpreta appunto l’Εὐριπίδιον («Euripiduccio») di Diceopoli. Di discorso appositamente prosastico parla invece lo scolio vetus 941a ai Cavalieri, riferendosi all’esclama​zione del Coro, «bene, per Zeus, Apollo e Demetra», con riferimento al cattivo augurio che il Salsicciaio fa a Paflagone. Interessante è anche lo scolio vetus al v. 1077 della Pace, in cui Ierocle «inizia a dire cose incomprensibili, imitando gli indovini e il linguaggio oscuro degli oracoli».

Una categoria ben rappresentata è quella in cui l’area semantica di μίμησις negli scholia si estende all’imitazione dei caratteri, da un punto di vista non solo della dizione ma anche dei comportamenti: in molti casi, tale imitazione sfocia quasi in una vera e propria rappresentazione drammatica di determinati tipi umani. Un esempio, a metà in realtà fra l’imitazione della dizione e del carattere, è rappresentato dai vv. 295-311 delle Donne alle Tesmoforie, in cui una donna parla imitando un araldo, come chiarisce lo scolio ad locum. I modi dell’araldo, del resto, imita anche Schifacleone nella celebre scena del tribunale privato allestito per il padre: questo è quanto nota lo scolio vetus 891 a proposito della battuta di Schifacleone «se qualche giudice è fuori, entri». Di notevole interesse è lo scolio vetus 211 agli Acarnesi, relativo all’ingresso in scena dei vecchi carbonai di Acarne, intenti invano a inseguire Anfiteo che porta a Diceopoli la tregua con gli Spartani: lo scolio nota come il poeta in modo idoneo imiti i caratteri e le parole dei vecchi, i primi caratterizzati da irascibilità, i secondi dal ricordo di antiche imprese. È legata alla dizione ma anche al carattere la battuta di Strepsiade al v. 667, «polla? Bene, per l’Aere! E in cambio di questa sola / lezione ti riempirò di farina la buffet» (vv. 667-669 ἀλεκτρύαιναν; εὖ γε νὴ τὸν Ἀέρα· / ὥστ ̓ ἀντὶ τούτου τοῦ διδάγματος μόνου / διαλφιτώσω σου κύκλῳ τὴν κάρδοπον): è in imitazione dei philosofoi che l’eroe comico giura per l’Aere, come sottolinea lo scolio ad locum. Che μίμησις possa essere utilizzato per le usanze è mostrato dallo scolio vetus 864 agli Uccelli: la notazione riguarda le parole con cui il sacerdote inizia il sacrificio in onore dei nuovi dèi, con Estia invocata per prima, imitando l’uso proprio degli uomini. Questi ultimi, in effetti, iniziano i sacrifici proprio da tale dea. Un esempio interessante è il v. 863 delle Donne alle Tesmoforie: quando il Parente dichiara di chiamarsi Elena, egli è accusato da una donna di voler compiere una nuova mimesi muliebre, dopo essere stato smascherato. Se il relativo scolio spiega che il protagonista mima una donna, tale mimesi assume qui anche il valore di «rappresentazione drammatica»: il Parente, difatti, intende impersonare l’Elena di Euripide, il cui esordio in questi versi è ampiamente riecheggiato. Notevole è il caso di Ra. 1025: Eschilo rimbrotta agli spettatori di non aver appreso dai suoi Persiani il desiderio di vincere i nemici, con il relativo scolio che glossa ἀλλ’ ὑμῖν αὔτ’ ἐξῆν ἀσκεῖν con «sarebbe stato necessario che gli Ateniesi imitassero coloro (che erano rappresentati nei Persiani)». È, questa, una mimesi di caratteri che richiama significativamente una finzione scenica. In questo senso, è più esplicito lo scolio vetus 1051b sempre relativo alle Rane, che si riferisce alla battuta di Eschilo secondo cui Euripide avrebbe convinto delle nobili ateniesi al suicidio, dopo essere state disonorate a causa dei suoi Bellerofonti. Lo schol. rec. Ar. Ra. 1043c, a tal proposito, riporta la diceria secondo cui molte donne si sarebbero tolte la vita bevendo cicuta, in imitazione di Stenebea, la quale, innamoratasi senza successo di Bellerofonte e accusatolo presso il marito di violenza, si diede la morte per la vergogna. In sostanza, lo scolio sembra quasi suggerire che le Ateniesi rappresentassero nella loro vita quotidiana il personaggio di Stenebea, imitandone il costume.

L’area semantica di μίμησις, in sostanza, sembra quasi assumere in alcuni casi negli scolî ad Aristofane il valore di «rappresentazione drammatica»: un senso, questo, che richiama uno dei valori che μίμησις ha per Aristotele. Interessante, al riguardo, è lo scolio vetus 463a agli Acarnesi, in cui si dice che Diceopoli imita Telefo. Questa notazione va vista alla luce della scena in cui l’eroe comico minaccia di uccidere i ‘figli’ dei carbonai di Acarne, ovvero un cesto di carboni, con lo scolio vetus 332a che spiega come vi sia qui un gioco sulle sciagure della tragedia, segnatamente del Telefo, quando il re misio rapì Oreste per trovare scampo presso i Greci. Il solo furto dei carboni non rassicura però Diceopoli sul fatto di risultare sventuratissimo di fronte agli Acarnesi, sì che costoro prestino veramente attenzione alle sue parole. Egli chiede allora a Euripide gli oggetti di scena del Telefo (cf. vv. 415-470): dopo uno straccio, l’eroe comico chiede un berrettino misio (v. 439), un bastone da mendico (v. 448), un cestino bruciacchiato dalla lucerna (v. 453), una ciotola dall’orlo sbrecciato (v. 459) e un pentolino tappato con una spugna (v. 463). L’imitazione di cui è protagonista Diceopoli, in sostanza, è volta a imitare nel modo più convincente possibile il carattere di Telefo nell’omonima tragedia euripidea: se qui vi è chiaramente una ripresa letteraria della celebre tragedia, quel che si prospetta è che l’eroe comico rappresenti Telefo di fronte agli Acarnesi, compiendo così una mimesi drammatica. Più cogente, comunque, è lo scolio vetus 1072a alle Vespe, in cui il Coro spiega perché ha il pungiglione e la vita a mo’ di vespa: la notazione antica spiega che egli imita l’aspetto delle vespe, nei fatti facendo riferimento presumibilmente al costume dei coreuti e alle loro azioni sceniche. Un caso simile è evocabile per lo scolio vetus 792b alla Pace, relativo al termine μηχανοδίφας («che trovano artifici»): il verso si connette a Carcino e ai suoi figli, che il Coro chiede alla Musa di cacciare senza tenere in conto i loro artifici. Lo scolio in questione chiarisce che l’aggettivo si riferisce a quei tragediografi che introducono in scena macchine sceniche, quando imitano l’ascensione o la discesa degli dèi oppure azioni simili. L’imitazione, che ancora una volta indica propriamente il contegno degli dèi, sostanzialmente viene a sovrapporsi al concetto di rappresentazione drammatica.

Come abbiamo anticipato, nonostante la marcata presenza dell’area semantica di μίμησις negli scholia ad Aristofane – fatto che non trova riscontro in quelli tragici – è pur vero che le notazioni antiche al comico ateniese non sembrano offrire una teorizzazione coerente e sistematica della mimesi. Anzi, spesso il termine viene utilizzato nella sua accezione primaria di imitazione, benché poi il suo valore possa alludere o avvicinarsi ai sensi attribuitigli da Aristotele. Il lessico critico sulla mimesi, del resto, pare pressoché assente negli scholia aristofanei. Se l’aggettivo δραματικός usato dallo Stagirita per indicare il modo drammatico non compare in questo corpus, al valore platonico e aristotelico di διηγηματικός sembra alludere solo lo scolio vetus 918b agli Uccelli, dove si spiega l’espressione κύκλιά τε πολλά («molte cose circolari») del Poeta che ha composto canti in onore di Nubicuculia: lo scoliasta chiarisce che «sono chiamati canti circolari quelli estesi», cioè i ditirambi, i quali «sono narrativi (ossia διηγηματικά)», come indica appunto Platone nel III libro della Repubblica. Altro possibile uso del lessico critico della mimesi negli scolî ad Aristofane è nel vetus 9a agli Acarnesi, dove si spiega il termine τραγῳδικόν: esso è usato da Diceopoli per connotare il suo dolore di fronte alla mancata rappresentazione di un dramma di Eschilo, sostituito da uno di Teognide. Se l’aggettivo τραγῳδικός è glossato con ἐμπαθής («commosso»), lo scolio spiega come la tragedia sia ἀπαγγελτική di ἐμπαθῆ πράγματα (una narrazione di azioni che suscitano emozioni»), un chiarimento, questo, che riecheggia forse alla lontana la pagina 1447a della Poetica di Aristotele vista all’inizio.

Nonostante questi pochi casi, pare evidente come negli scolî ad Aristofane sembrino mancare richiami diretti alla discussione sulla mimesi compiuta da Platone e Aristotele. Eppure, la tradizione esegetica al commediografo ateniese ha l’aria di usare talora un lessico che pertiene proprio a tale dibattito: nello specifico, gli scolî in questione sembrano a volte tradire un’imp​ os​ tazione peripatetica, soprattutto quando l’area semantica di μίμησις viene pressoché a coincidere con «rappresentazione drammatica» o, quanto meno, con «rappresentazione dei caratteri». In questi casi, in sostanza, sembrerebbe possibile percepire una eco della riflessione aristotelica sul δρα​ματικόν. Tale peculiarità della tradizione scoliografica ad Aristofane, del resto, non stupisce: se si ammette, infatti, che le notizie da essa fornite derivano per intrecciate vie dall’età alessandrina, bisogna allora ricordare come sia già stata messa in luce dalla critica l’origine o, quanto meno, l’impostazione in parte aristotelica dell’ambiente del Museo. Questa situazione, in conclusione, fa forse ritenere che i commentari e trattati su Aristofane di origine alessandrina non fossero così interessati alle teorizzazioni sulla mimesi, come invece paiono esserlo quelli inerenti a Omero.

Stefano Caciagli © 2016