Henderson (1975 = 1991, 210) considera καταπύγων un termine generale di insulto non sempre sessualmente marcato. Eppure, talvolta, esso sembra avere una connotazione più legata all’àmbito erotico, segnatamente omosessuale (cf. Henderson 1991, 251), come nella scena che vede protagonista Agatone nelle Donne alle Tesmoforie (vv. 185ss., cf. infra), dove il tragediografo è accusato dal Parente di essere un «inculato» che «ha il culo largo non a parole, ma a fatti (i.e. in quanto ne ha patito le conseguenze)» (vv. 200s. καὶ μὴν σύ γ’, ὦ κατάπυγον, εὐρύπρωκτος εἶ / οὐ τοῖς λόγοισιν, ἀλλὰ τοῖς παθήμασιν). Nonostante ciò, l’erudizione antica sembra aver connesso questa parola piuttosto all’àmbito della prostituzione e dell’effemminatezza: non è un caso, infatti, che in Polluce (VI 126) καταπύγων sia associato – fra gli altri – a κίναιδος («cinedo»), πόρνος («prostituto»), γυναικίας («effemminato»), ἀσελγής («lascivo»), ἀκόλαστος («incontinente») o μαλθακός («molle»). Se Esichio (κ 1364) spiega la καταπυγοσύνη come un grande piacere, in altri lemmi del suo lessico (β 317 e κ 1365) ricalca però Polluce, così come fanno la Synagogè (κ 143, κ 144, κ 145) e la Suda(κ 739). È, questa, una caratterizzazione che richiama immediatamente la descrizione che di Timarco Eschine fa nel corso della sua Contro Timarco.
Gli scoli ad Aristofane sono sostanzialmente in accordo con questo quadro. Lo scolio Tr. 79b agli Acarnesi – dove Diceopoli accusa i potenti fra gli Ateniesi di essere λαικασταί (forse «fellatori», cfr. Chantraine, DELG 613 e Dover 1985, 148 n. 12) e καταπύγονες – associa questi insulti alla prostituzione. Lo stesso avviene per il solo καταπύγων in schol. Th./Tr. Nu. 529b (cf. Tzetzes 529b), an.rec. Nu. 909a (cfr. Tz. 909b), Tr. V. 687b e in Lys. 776. L’insulto καταπύγων, spiegato con εὐρύπρωκτος in schol. Tr. Eq. 639ac (cfr. infra), denota spesso individui privi di caratteri virili e proni a eccessivi piaceri erotici: è la μαλακία («mollezza», in schol. an.re. Nu. 529b e Lys. 776) ciò che caratterizza il καταπύγων, unita al disordine, al comportarsi da etèra (ἄτακτος, ἡταιρηκώς in schol. vet. Nu. 909), all’impudicizia (μάχλος in schol. Tz. Nu. 529a, col. 2), all’impudenza e alla turpitudine (ἀσελγὴς καὶ αἰσχρός in schol. an.rec. Nu. 529b). Oltre alla mollezza, la καταπυγωσύνη è associata alla condizione di cinedo, come in schol. vet. Ach. 843a e Eq. 877a: quest’ultimo scolio, fra l’altro, parla di un certo Gripo, definito κινοῦμενος («mosso», «fottuto») da Aristofane, che era accusato di essere un molle e, appunto, un cinedo; per questo, Cleone lo fece condannare a morte perché incline a rapporti amorosi tipici delle etère (sulla pena capitale inflitta ai prostituti, cfr. Aeschin. 1,87).
Di un certo interesse, in questo quadro, è quanto lo scolio vetus N. 349c dice a proposito del figlio di Senofanto, Ieronimo, definito da Socrate un rustico capellone (κομήτης) affetto da una mania – visibilmente erotica – tipica dei centauri: lo scolio in questione spiega che, essendo κομήτης, egli è καταπύγων e τρυφηλός, ovvero è un individuo dedito a mollezze tipiche del fasto (in questo contesto, una resa con «lussurioso» non sarebbe poi così inadeguata); il vetus 349b aggiunge che questo Ieronimo aveva il corpo peloso come – in parte – i centauri. Eppure, va rilevato che κομήτης potrebbe essere un carattere prettamente aristocratico (cf. Henderson 1991, 220 e Hubbard 1998, 53), anche considerato che l’attributo, più che far riferimento ai peli corporei (per cui si usa l’aggettivo λάσιος), richiama specificatamente la chioma, κόμη. In questo quadro, vanno allora forse letti il v. 1100 delle Nuvole, in cui il Discorso Giusto addita un κομήτης come un εὐρύπρωκτος (cf. infra), e il v. 561 della Lisistrata, in cui viene definito «capellone» un filarco, ossia il comandante di un corpo di cavalleria, che – per la stretta connessione fra la pratica equestre e la classe aristocratica – era probabilmente parte dell’élite ateniese. In questo contesto, potrebbe avere anche un peso il proverbio οὐδεὶς κομήτης ὅστις οὐ ψηνίζεται («non vi è nessun capellone che non sia penetrato (?)»), rubricato da Kock negli Adespota comica (fr. 12 = schol. an.re. Ar. Nu. 332dδ), con le varianti οὐ βινητιᾷ (fr. 13 «non sia fottuto») e οὐ περαίνεται (fr. 14 «non sia penetrato fino in fondo»).
Il verbo derivato dall’insulto oggetto di esame, καταπυγίζειν, è da Fozio (κ 344) spiegato come «il modificare la posizione del deretano mentre si cammina» (τὸ τὴν πυγὴν ἐπὶ πολὺ μεταφέρειν ἐν τῷ βαδίζειν), un interpretamentum che forse riprende un passo di Luciano (Rh.Pr. 19), in cui si descrive l’attitudine di un retore, nel momento in cui sente l’esigenza di cantare: in caso di una défaillance nella performance, sarà opportuno distrarre i giudici camminando mentre si scrolla il deretano (βάδιζε μεταστρέφων τὴν πυγήν). Il fatto di muovere il deretano è un evidente gesto erotico, come si evidenzia al v. 153 del Pluto, anche per le donne: di fronte a un ricco, infatti, le etère di Corinto volgono verso di lui subito il πρωκτός e questo per eccitarlo (ἐρεθίζειν), come sottolinea lo scolio vetus 152; che il posteriore femminile avesse una forte carica erotica, del resto, è evidente al v. 869b della Pace, in cui si dice che la giovane Opora, fattasi il bagno, ha nel loro splendore le natiche (τὰ τῆς πυγῆς καλά).
Secondo Henderson (1975 = 1991, 210), a differenza di καταπύγων, εὐρύπρωκτος (propriamente «dal culo largo») non è un insulto puro e semplice, ma pare aver mantenuto il suo senso omosessuale: tale notazione, tuttavia, viene in parte ridimensionata nella seconda edizione di The Maculate Muse (1991, 251), in cui si mette in evidenza come non sia chiaro se καταπύγων, εὐρύπρωκτος e λακκόπρωκτος («dal culo largo come uno stagno, un pozzo o una cisterna», termine che lo schol. Th./Tr. Ar. Nu. 1330 glossa proprio con εὐρύπρωκτος) fossero interpretati dal pubblico aristofaneo come accuse di omosessuale passività o come biasimo per una più generale mancanza di valore e spudoratezza. Non sfugge, difatti, che, come per καταπύγων, l’εὐρυπρωκτία implicasse direttamente la μαλακία, la mollezza (schol. vet. Ach. 843b e P. 171aα, dove sembra aleggiare l’idea che gli orientali siano gente dedita alla fiacchezza). Tale mollezza è addita ad Agurrio dallo scolio vetus Pl. 176a, mentre il recentius Pl. 176a lo considera un uomo votato alla prostituzione: evocato da Carione come un celebre emettitore di peti, questo Argurrio sembra però tacciato di passività nello scolio vetus 176d, ove si dice che tale pratica dipende dal suo essere εὐρύπρωκτος oppure dalla sua passività (ὡς τοῦτο ποιοῦντα αὐτὸν ὅταν πάσχῃ ‹κωμῳδοῦσιν›).
La questione della passività non è di secondaria importanza per tratteggiare il costume sessuale dei Greci e, più in generale, per ricostruire le dinamiche della loro società. Va rilevato che viene spesso considerata come normativa l’ipotesi secondo cui sarebbe stato necessario nella sessualità greca il rapporto fra un amante attivo e un amato passivo, a prescindere dal genere: mossa in parte dall’idea condivisibile che i comportamenti sociali di una data società siano storicamente determinati, l’eros greco sarebbe stato basato – in una società fortemente patriarcale – su una costitutiva asimmetria, in cui il cittadino maschio e libero avrebbe sempre avuto il ruolo di penetratore, mentre le donne, gli adolescenti, i non cittadini e gli schiavi il ruolo di penetrati. Radicalmente differente dal ‘modo di amare’ contemporaneo e occidentale, dove è il genere dell’amato a contare e non il suo ruolo ‘politico’, l’‘amore greco’ (cfr. Meier 1837 = 1952) avrebbe attribuito un valore positivo all’attività nel rapporto sessuale e un valore negativo alla passività: tale visione, promossa da Dover (1978 = 1985), anche sulla base di Devereux (1968), e da Foucault (1984 e 1984 = 2006, I e II) – su cui si può leggere con profitto Halperin (1990) e, con una visione più critica, Davidson (2001) – non sempre è congrua con quanto si ritrova nei testi e, nello specifico, in commedia: a tal proposito, le informazioni ricavabili dagli scoli e, quindi, in ultima istanza dall’esegesi alessandrina all’opera aristofanea non sono forse di trascurabile importanza.
Come si è visto finora, infatti, almeno a partire dagli scoli, non è principalmente la passività di chi è soggetto a sodomia l’enjeu di insulti quali καταπύγων e εὐρύπρωκτος ma l’effemminatezza e la mancanza di virilità (cfr., per una simile caratterizzazione, Aesch. 1,131 e 185): del resto, lo scolio al v. 120 delle Donne all’assemblea spiega che l’Argurrio citato nel Pluto era un generale effemminato (θηλυ‐ δριώδης). La questione della passività ritorna nello scolio an.rec. 1101b alle Nuvole, in cui si spiega con πασχητίαι il participio κινούμενοι («mossi» o «sconvolti» anche con valore erotico) usato dal Discorso Migliore per ammettere la propria sconfitta nell’agone con il Discorso Peggiore. Ora, πασχητίαι è presumibilmente un nome connesso al verbo πασχητιάω, glossato nel GI3 con «desiderare di essere sessualmente passivo»: πασχητιᾶν, del resto, spiega βινητιᾶν (Hsch. β 467, «desiderare di essere fottuto» in GI3) all’interno di un interpretamentum in cui si precisa che il lemma indica «avere una propensione all’accoppiamento» (τὸ ὄρεξιν ἐπὶ συνουσίαν ἔχειν). In questo quadro, poi, si può inserire il πασχητιᾷ che è spiegazione del lemma κυσιᾷ (Hsch. κ 4732, «avere brama» secondo il GI3): quest’ultimo verbo, in sostanza, esprime un desiderio concernente il κύσος, che, come nota Henderson (1975 = 1991, 53), può indicare tanto l’«ano» che la «vagina» (Hsch. κ 4738, termine forse etimologicamente legato al lat. cunnus, come sottolinea Chantraine, DELG 603). Il verbo πασχητιάω è anche lemma in Hsch. π 1089, dove è spiegato con «vuole subire» (πάσχειν θέλει), oltre che con i consueti «intemperante» e «dedito a un turpe piacere» (ἀκόλαστος, ἢ αἰσχρᾶς ἡδονῆς ἡττᾶται).
La glossa di Esichio appena evocata ha evidenti punti di contatto con uno scolio (p. 307,16 πασχητιᾶν ἐστι τὸ ἡττᾶσθαι μὲν τῆς αἰσχρᾶς ἡδονῆς) al Protrettico Clemente Alessandrino (2,34,3s.), dove il teologo racconta di Dioniso che, ricevute notizie su come andare nell’Ade da Prosimno al prezzo di un favore erotico (ἀφροδίσιος ἦν ἡ χάρις, ὁ μισθός), al ritorno trovò morto il suo informatore, sicché si diresse verso la sua tomba e «si sodomizzò» (ὁ Διόνυσος ἐπὶ τὸ μνημεῖον ὁρμᾷ καὶ πασχητιᾷ) sedendosi sopra un ramo di fico tagliato a mo’ di membro virile (κλάδον οὖν συκῆς … ἐκτεμὼν ἀνδρείου μορίου σκευάζεται τρόπον ἐφέζεταί τε τῷ κλάδῳ: per la simbologia erotica dell’albero di fico, cfr. la voce σῦκον). Se è alla passività omosessuale che sicuramente allude πασχητιάω in Clemente, questi è significativamente un autore cristiano e ciò potrebbe avere delle conseguenze sull’uso del verbo in questo contesto. Del resto, in Hsch. o 435 il participio πασχητιῶσα sembra avere un senso completamente differente: esso fa parte dell’interpretamentum di οἰφόλις, un nome che deriva dal verbo οἴφω («fottere»); questo lemma, insomma, significherebbe «donna incline ai piaceri», «lasciva» e, appunto, paschetiosa (γυνὴ καταφερής, μάχλος, πασχητιῶσα). Sembrerebbe di capire, quindi, che qui πασχητιάω significhi «lussuriosa» più che «passiva», secondo una rappresentazione tipica della sessualità femminile in Grecia – la Lisistrata ne è un buon esempio – dove si mette in rilievo non il ruolo sessuale ma l’intemperanza di fronte ai piaceri [significativamente, Eschine (1,185) considera gli errori – certo erotici – delle donne κατὰ φύσιν).
C’è da chiedersi, comunque, se fosse veramente la passività o l’attività del ruolo che interessasse i Greci, fatto che non sembra trasparire dagli scoli e, più in generale, dai testi comici e oratori (cfr. Hubbard 1998): come ha messo in luce Davidson (2001) e come emerge dai primi lavori di Dover sull’argomento, in particolare quello del 1973, è l’ἐγκράτεια il vero centro della riflessione greca classica sui comportamenti sessuali, una «temperanza» che sarebbe misconosciuta alle donne e che deve essere preservata dai cittadini, per i quali non è la passività ad essere oggetto di biasimo, ma l’essere soggetti alla prostituzione. Quel che fa problema, in sostanza, è lo scambio commerciale dettato da questo tipo di eros, uno scambio che determina una facilità alla corruzione – soprattutto di tipo economico economica – che è incompatibile con il ruolo politico (cfr. Aeschin. 1,29s. e 188, dove si sottolinea come chi ha corrotto per denaro il proprio corpo non esiterà a mercanteggiare il bene pubblico).
In questo quadro, non può sfuggire la centralità della scena, già evocata, fra il Discorso Migliore e quello Peggiore. In un rapido scambio di battute, infatti, il Peggiore offre una palette di tipi umani che sembrano far parte dell’élite ateniese, ovvero i συνήγοροι (v. 1089, «procuratori» o «avvocati»), i τραγῳδοί (v. 1091, «i poeti tragici») e i δημηγόροι (v. 1093, «gli oratori» o, modernizzando un po’, «i politici», sul cui ruolo si legga proficuamente Connor 1992): tutti costoro, ammette il Discorso Migliore, provengono dalla schiera degli εὐρύπρωκτοι (ἐξ εὐρυπρώκτων, ripetuto anaforicamente ai vv. 1090, 1092 e 1094). È questa un’accusa di generale passività rivolta agli uomini più in vista fra gli Ateniesi? Alla fine dell’agone, fra l’altro, il Discorso Migliore è costretto ad ammettere che la maggior parte degli spettatori è composta da «culi larghi» (vv. 1097s.), ché riconosce tra loro gente siffatta, fra cui il κομήτης di cui ci siamo occupati poc’anzi. Donde nasce questo singolare catalogo di depravazione? Ora, a partire dal v. 1071, Il Discorso Peggiore illustra a Fidippide uno stile di vita tutto incentrato sulle ἡδοναί («piaceri»), fra cui cita – in quest’ordine – i (rapporti erotici con i) «ragazzi» (παῖδες) e (con le) «donne sposate» (γυναῖκες), oltre ai piaceri della tavola e del simposio (tale catalogo di depravazione, non in tutto ‘omosessuale’ è attribuito anche a Timarco in Aeschin. 1,42; al par. 107, del resto, si dice ch Timarco fu lascivo nei confronti di donne sposate e libere). Detto ciò, evoca uno dei grandi rischi in cui può incorrere una vita dissoluta, ovvero quello di essere còlto in flagrante adulterio [ἥμαρτες, ἠράσθης, ἐμοίχευσάς τι, κᾆτ’ ἐλήφθης, «hai sbagliato, ti sei innamorato (il termine, in greco, non ha nulla di sentimentale, ma implica semplicemente l’essere soggetto a desiderio erotico), hai commesso adulterio e, poi, sei stato preso»]: se uno è abile nell’arte retorica – assicura il Discorso Peggiore – riesce però a scampare anche da una situazione così compromettente e rischiosa. A ciò reagisce il Migliore con una battuta che, a un lettore moderno, può sembrare strana (vv. 1083s.): «e se, convinto da te, si ritrova un rafano (i.e. una sorta di ravanello) nel di dietro e vien depilato con la cenere? Avrà una ragione per dire che non è uno dal culo largo?». Il Discorso Peggiore, allora, risponde, rivendicando al v. 1085 che non vi è nessun male a essere εὐρύπρωκτος, donde poi deriva il catalogo di «culi larghi» di cui si è appena parlato. Il verbo ῥαφανιδόω del v. 108 è spiegato adeguatamente dagli scholia vetera 1083 e 1086α, da una notazione di Tzetzes al v. 168 del Pluto (cfr. Suda π 467) e da quella dello stesso Tzetzes al v. 1330 delle Nuvole. Innanzi tutto, lo scolio vetus N. 1086a chiarisce che si è εὐρύπρωκτος a causa della grandezza dei ravanelli: Tzetzes, a proposito del passo del Pluto, spiega che chi era còlto in flagrante adulterio veniva punito con un rafano nell’ano e con la depilazione; la punizione aveva carattere pubblico, dato che avveniva in mezzo all’agorà. Tzetzes, del resto, spiega λακκόπρωκτος al v. 1330 delle Nuvole, detto da Strepsiade al figlio, con la punizione del rafano. In sostanza, l’intera scena delle Nuvole non sembra incentrata sui rapporti omoerotici, come potrebbe suggerire il termine εὐρύπρωκτος, ma sulla mancanza di temperanza nell’attività sessuale che la dissoluta élite ateniese dimostra, un’élite che, come spiega Tzetzes in riferimento al passo del Pluto, solitamente sfuggiva all’ingiuriosa punizione del ravanello grazie alla propria ricchezza, che presumibilmente consentiva di corrompere chi doveva punire o acquietare le acque. Insomma, ῥαφανιδόω è messo in relazione con una ‘colpa’ – anacronisticamente (cfr. Halperin 1990) – eterosessuale.
A proposito del castigo dei ravanelli, Dover (1978 = 1985, 111s.) ha postulato che esso implicasse una ‘femminilizzazione’ dell’adultero: tale tesi si fonda sulla femminea depilazione pubica e sulla simbolica sodomizzazione da parte del marito tradìto. Del resto, gli scholia an.rec. al passo delle Nuvole in questione riferiscono l’εὐρυπρωκτία alla pratica della pederastia, come il 1090b (διαβάλλει πάντας ὡς παιδεραστάς). Lo scolio 1090c è nel contempo più vago e più specifico del precedente: con εὐρύπρωκτοι si biasimano, oltre a chi giace con i maschi (ἀρρενοκοῖται, «omosessuali» in GI3), gli adulteri e i prostituti. Il 1090dα, invece, invita il lettore a notare che «(il locutore) discredita gli Ateniesi, in quanto sono caratterizzati da una vita spregevole e poiché sfruttano senza vergogna gli amasi»; dello stesso tenore è il 1090dβ, che spiega come in questi versi siano scherniti gli Ateniesi che si dedicano all’ἀρρενομανία, ovvero alla folle frenesia amorosa nei confronti degli individui di sesso maschile. Il dubbio, però, è che questi scholia diano un giudizio morale non consono a quello dell’età classica: è rilevante, infatti, che essi parlano di rapporti sessuali fra uomini, segnatamente di adulti con adolescenti, in riferimento certamente non alla scena in generale, che è tutt’altro che omoerotica. Che vi sia dietro la medesima visione moraleggiante vista in Clemente Alessandrino?
Per quanto riguarda la sodomizzazione simbolica supposta da Dover, essa ha veramente senso solo nel caso in cui la sessualità greca fosse veramente vista dai Greci in modo polarizzato, con uno sguardo positivo nei confronti di chi deteneva un ruolo attivo: altrimenti, vi sarebbe il rischio di interpretare tendenziosamente i testi, soprattutto in virtù del fatto che gli εὐρύπρωκτοι in questione non sono dei sodomizzati ma, al limite, degli eccessivi penetratori di donne. La punizione del ravanello, in sostanza, potrebbe essere volta banalmente a ricoprire l’adultero di ludibrio pubblico. Se quel che appare evidente nella punizione in questione è la femminilizzazione del maschio (cfr. Aeschin. 1,110, dove Timarco è detto essere la γυνή di Egesandro), come appare evidente dalla depilazione pubica che era tipicamente femminile, questa pratica associa l’adultero a chi è sentito nella società greca topicamente dedito a una sfrenatezza sessuale incontenibile. Oltretutto, bisogna mettere in luce che i ruoli nei rapporti erotici dovevano essere meno rigidi di quanto la norma doveriana assume. Come ha argomentato Hubbard (1998 e 2003, 1-20), infatti, i ruoli dovevano essere fluidi, con il rapporto pederastico assai più reciproco di quanto spesso si ammette (cfr. Vattuone 2004 e Boehringer-Caciagli 2015). I pederasti attivi erano veramente visti sempre in ottica positiva, anche in commedia, come suppone Dover (1978 = 1985, 143)? Hubbard (1998, 55), a tal proposito, fa notare come chi avesse raggiunto lo statuto di ἐραστής, ovvero di amante ‘attivo’, fosse stato sicuramente un ἐρώμενος, un amasio ‘passivo’, durante l’adolescenza: ciò faceva di tutti coloro che si erano votati alla pederastia, nei fatti, degli εὐρύπρωκτοι.
Per quanto concerne il genere comico, in sostanza, il punto è comprendere se vi fosse un generale biasimo per i rapporti omoerotici o solo per quelli che implicavano un ruolo di passivo. A tal proposito, un passivo di eccezione è Agatone, ma la sua figura mostra più la fluidità dei ruoli che non una norma fissa: fra l’altro, ancora una volta, è l’indeterminatezza di genere o, meglio, la mancanza di temperanza – dovuta all’assunzione, da parte di un uomo, di attitudini tipicamente femminili – ad essere criticata: connettere alla passività la femminilità può essere un rischio, determinato forse più dal modo contemporaneo e occidentale di pensare la sessualità che dalla visione greca di epoca classica (e, indubbiamente, arcaica). Di interesse, in questo contesto, è la celebre scena delle Donne alle Tesmoforie che vede protagonista appunto Agatone (vv. 130-265): il tragediografo, in effetti, vi è presentato con i caratteri tipici di una donna. Come abbiamo visto all’inizio, i vv. 200s. potrebbero far pensare che egli sia presentato come un passivo, benché l’espressione εὐρύπρωκτος εἶ / οὐ τοῖς λόγοισιν, ἀλλὰ τοῖς παθήμασιν non necessariamente implichi questa interpretazione. I παθήματα di cui parla il Parente, infatti, potrebbero non essere di carattere prettamente sessuale, ma indicare che Agatone è un lascivo e uno spudorato – a prescindere dalla passività o meno – non a parole, ma avendone subìto le conseguenze (donde derivava la mia traduzione «a fatti»), ovvero essendo ormai divenuto in toto una donna. Non deve sfuggire, infatti, che al v. 254 il Parente noti come i femminei vestiti prestati da Agatone a Euripide abbiano l’odore di πόσθια, ovvero di membri virili dei ragazzi, evidentemente di amasi: Agatone, allora, deve aver ricoperto in qualità di adulto il ruolo di amante in – diverse (donde l’intemperanza?) – relazioni pederotiche. A questa interpretazione sembra ostare, però, quanto lo scolio ad locum afferma, ritenendo πόσθιον il membro di un uomo adulto (πόσθιον δέ ἐστι τὸ αἰδοῖον τοῦ ἀνδρός): lo stesso scolio, poi, aggiunge che Agatone viene criticato per il fatto di avuto con quest’uomo una relazione intima (διαβάλλει δὲ αὐτὸν ὡς μετ’ αὐτοῦ ἑταιρίζοντα), con ἑταιρίζω che fa pensare a un comportamento da etèra, da prostituta (il verbo è usato costantemente da Eschine per indicare la relazione che Timarco ha istaurato con i suoi amanti: cfr. sulla differenza fra πορνεύομαι e ἑταιρεῖν si veda Aeschin. 1,29). L’ἑταιρίζειν con un ἀνήρ fa pensare a un rapporto fra pari (su cui si veda Hubbard 2014), dato che vedrebbe come protagonisti due uomini adulti (ἄνδρες) di cui uno in posizione di πόρνος, ma ciò è probabilmente contraddetto dallo schol. vet. P. 1300a, che spiegaπόσθων, sostanzialmente identico a πόσθιον, come un vezzeggiativo riferito ai ragazzi o come il termine che indica le pudende dei bambini. In effetti, secondo Henderson (1975 = 1991, 109), πόσθη sembra distinguersi da πέος proprio per il suo tono rispettoso e familiare: πόσθη et similia, insomma, si riferirebbero al mondo dell’infanzia. Se questa interpretazione coglie nel segno – e lo scolio 1300a sembra sostenerla – la battuta del v. 254 allude all’amore del tragediografo per i ragazzi: non è la passività, allora, che il Parente biasima in Agatone, ma la sua dedizione eccessiva all’eros, dedizione conforme alla sua femminilità.
La riflessione appena compiuta implica che è la pederastia in genere a essere vista con sospetto in commedia. Ora, ciò potrebbe avere ragioni sociali: Hubbard (1998, 52), infatti, evoca un passo del Pluto (vv. 149-159) in cui si accusano tutti gli amasi di essere dei prostituti. Cremilo, qui, sembra quasi ricalcare la norma evocata da Dover (1973, cf. Henderson 1991, 252) secondo cui non è la pederastia in sé ad essere negativa ma come essa viene praticata: se i ragazzi chiedono denaro, sono dei prostituti; se non lo chiedono, sono dei χρηστοί, delle «persone perbene» (il termine, comunque, evoca l’aristocrazia per se). Carione, però, fa notare che non vi sia poi tanta differenza fra il prendere soldi e farsi regalare un cavallo o un cane da caccia (doni – si noti – tipici della pederastia dell’élite, sia perché il cavallo ne è il simbolo sia per la spesa economica che simili regali comportano). È, questa, un’accusa generalizzata ai rapporti pederastici, che nei fatti fanno di tutti gli amasi dei prostituti: dato che tutti gli amanti in questo tipo di relazione sono stati a loro volta degli amati, ne consegue che tutti coloro che si sono dedicati a questa attività sono dei prostituti o, quanto meno, degli individui proni all’incontinenza.
Questa negativa visione di una pratica che è tradizionalmente definita l’‘amore greco’ dipende forse dalla maggioranza che costituiva il pubblico che assisteva alle commedie di Aristofane, un pubblico prevalentemente contadino che, forse, era in buona parte estraneo alle molli pratiche sociali – fra cui la pederastia – che caratterizzavano l’aristocrazia (cfr. Hubbard 2003, 86-88). Non sfugge, infatti, che Aristofane, nella parabasi delle Vespe rivendichi di non essere andato in giro per le palestre, cercando di sedurre i ragazzi (v. 1025), ché l’eros forse considerato normativo dalle classi sociali medio-basse era ‘eterosessuale’ (una ‘eterosessualità’, è ovvio, storicamente diversa da quella contemporanea e occidentale!). Se questo è vero, l’idea che la (pseudo)-omosessualità (cf. Devereux 1968) e l’eterosessualità siano concetti del tutto anacronistici per i Greci (cf. Halperin 1990, 29-38) andrebbe – almeno parzialmente – rivista, soprattutto tenendo presente delle differenze diastratiche che la società greca doveva conoscere: se non è lecito confondere l’omosessualità contemporanea con l’omoerotismo o l’omofilia greca, mi pare emergere in commedia un sostanziale fastidio per le relazioni fra individui dello stesso sesso. Questo fastidio, però, è differente da quello presente in Clemente Alessandrino e negli scoli an.rec. relativi alla conclusione dell’agone delle Nuvole: quel che sembra emerge dalle notazioni antiche alle commedie di Aristofane è soprattutto che il suo pubblico riprovava i comportamenti – a suo dire – effemminati dell’élite, comportamenti che facevano di tutti i potenti – in sostanza – dei καταπύγονες e degli εὐρύπρώκτοι: questi appellativi, allora, andrebbero tradotti, seguendo gli scholia, non con termini afferenti alla passività omoerotica (un concetto che è forse assai moderno), ma con parole quali «scostumati», «lascivi» e «impudenti», che rispondono meglio alla condizione di chi è schiavo di turpi piaceri (ἔπραξε ταῦτα δουλεύων ταῖς αἰχίσταις ἡδοναῖς) come, secondo Eschine (1, 42), Timarco.
Stefano Caciagli © 2016